28 Aprile 2021
CATEGORIA: NarrativaIl confine tra culture diverse
La parola confine è al tempo stesso convenzionale e atipica, paradossale, ambigua e ricca di significati, indica qualcosa che separa e contemporaneamente unisce, qualcosa che sta al di là dell’aria che delimita. Una linea invisibile, ma così ben percepita da chi abita nelle sue vicinanze o da chi almeno una volta nella vita ne abbia mai oltrepassata una.
Tra i diciannove e i ventidue anni mi sono trovata spesso a varcare il confine italo-sloveno a causa di un amore che non ha saputo essere abbastanza forte da calpestare i limiti imposti dalla lontananza, e quindi, alle sue difficoltà.
Partivo da casa che la notte stava lasciando spazio al giorno, quando la luce inizia gradatamente a spargersi nel cielo. Il mio era un viaggio nel viaggio: un’ora e mezza di corriera, il treno preso al volo, tre cambi e finalmente dopo quattro ore e mezza riuscivo a intravedere la costa triestina. Scogli a picco su un mare azzurro terso, vegetazione selvaggia e burbera, come a indicarmi che tutto quello che conoscevo dovevo lasciarmelo alle spalle.
In queste terre, la parola confine ha sempre portato conflitti e tragedie, vincitori e vinti, resistenze e ribellioni; ma proprio queste terre hanno dimostrato una forte volontà di superare la maledizione di “eterne contrapposizioni’’ troppo spesso radicata nell’immaginario collettivo.
Arrivavo, insomma, già spaesata ed euforica. Matic mi aspettava fuori dalla stazione di Trieste con la sua Passat targata Gorizia, una città che è essa stessa il confine. Passando con la macchina da Gorizia a Nuova Gorica l’impatto è impressionante; la prima resta una città piena di storia, luogo simbolo di incontro tra diverse culture, etnie e tradizioni. Le emozioni che si provano camminando sulle mura del castello contrastano con quelle provate mentre si varcano le porte di uno sfavillante casinò a Nuova Gorica o mentre si sorseggia un cocktail in uno dei tanti locali all’ultimo grido. Forse proprio per queste peculiarità, così diverse ma connesse, è un territorio che continua a esprimersi come località di condivisione e apertura. Una realtà unica in Europa, una volta confine invalicabile, ora porta aperta verso il futuro.
È incredibile come, appena passato il famoso cartello blu a dodici stelle che dal 2004 riconosce la Slovenia come paese europeo, il paesaggio cambi drasticamente. In Slovenia è la natura che fa da padrona, un verde accesso ingloba tutto quello che c’è intorno, le case sono piccole e umili, i negozi sembrano essersi fermati a qualche anno fa, i benzinai sono gremiti di macchine italiane visto il prezzo della benzina.
A venti minuti di macchina dal confine si arriva a Lozice, il paese dove vive Matic con la sua famiglia: mamma, papà, sorella, nonno e nonna. Duecento anime in tutto. Non esiste un supermercato, c’è solo uno smercio di pane, latte e qualche scatolame, aperto le mattine del lunedì, mercoledì e venerdì. Solitamente tutte le famiglie hanno dei maiali, delle galline, un pezzo di orto da coltivare e alberi da frutta, ciliegi, peri, prugni. Gente umile, timida, orgogliosa ma allo stesso tempo molto aperta. Cerco di inserirmi come posso, facendo domande che vengono tradotte da Matic ai genitori che non conoscono bene l’inglese, mentre le nuove generazioni parlano perfettamente sia l’inglese che l’italiano. Alla domanda “ma a voi piace l’Italia?’’, mi rispondono che sì, è molto bella, sono stati a Venezia, al Lago di Garda, e sulle Dolomiti friulane. Mi dicono che gli italiani vengono in Slovenia ad arrampicare e a fare la spesa. Tutti vanno d’accordo con tutti. Allora mi accorgo che forse, non è come si pensa, un problema di chi sta vicino al confine, ma piuttosto di chi vive più lontano, isolato nella propria cultura, radicato in ideali che non spostano mai il proprio orizzonte.
Quando, tre giorni dopo arriva il momento di tornare verso casa, la nonna di Matic, che è diventata anche un po’ la mia, mi riempie di frutta secca fatta da loro e di qualche spuntino per il viaggio, che non si sa mai, la fame viene quando meno te l’aspetti. Mentre il treno viaggia alla massima velocità tra Trieste e Venezia, penso a come mia nonna avrebbe fatto lo stesso. Giungo alla conclusione che l’affetto non conosce sicuramente confini, e che il primo passo da fare è quello di metterci sempre in discussione, abbattere quel confine che impedisce di comprenderci, senza murare le finestre, ma piuttosto aprirle e fare entrare più aria fresca possibile.
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