27 Aprile 2021

CATEGORIA: Racconto

L’Urbanita

(ur-ba-nì-ta, neologismo maschile singolare, dall’inglese urbanites, abitante della città)

 

Un tempo ottenni il permesso dai miei genitori, abitanti della provincia, di trasferirmi nella Conurbazione e iniziare la vita da scapolo. Trovai presto lavoro come programmatore.

Più mi chiudevo in ufficio, un enorme edificio grigiastro di vetro, più sentivo lontana la provincia e mi sentivo bene. Camminavo per le vie della città col sorriso sulle labbra, in compagnia di una ragazza sempre diversa. Mi mancavano i miei genitori, ma non mi mancava per nulla il verde, e anzi i giardinetti della Conurbazione mi davano una certa ansia. Sapere che dietro quel gioioso verde si potesse nascondere un malintenzionato, un drogato, un latitante, mi dava i brividi. Camminavo più distante possibile dagli alberi quando mi recavo in ufficio la mattina e cercavo di non rifare mai la stessa strada alberata di sera, anche aumentando i minuti che mi indicava il navigatore su palmare dell’Olivetti.

I neon mi facevano invece quell’effetto placebo in grado di curare la mia paura.

Ogni scia luminosa, ogni singola particella di quel liquido era per me un segnale che gli alberi e il verde erano distanti. Cosa si potrebbe mai nascondere dietro la chiara luce artificiale? Solo un altro raggio al neon.

 

Più recentemente mi avevano incaricato di programmare un sistema di realtà aumentata.

Un’impresa semplice ma lenta, non ho mai avuto creatività e per questo chiamarono dal reparto creativo una giovane stagista. Lei era una modellatrice virtuale, si occupava come me di numeri ma vedeva qualcosa in quell’universo che non fossero mere linee di linguaggio macchina.

“Dovresti portarci la fidanzatina” la voce di mia madre proveniva dalla segreteria dell’Olivetti, la poltrona era così comoda e i fogli erano disordinati sul tavolino. Fogli di calcoli, cose che non riusciresti a fare su un elaboratore, era dove la macchina ancora non aveva potere: la capacità di sbagliare e correggersi con uno sfregamento di gomma. Lei, Sara, era intenta a inserire dati nell’elaboratore e a giocarci. “Sicuro che non vuoi metterci del tuo?” mi domandò lei, indicando la simulazione sullo schermo.

Impallidii, osservando l’immagine sullo schermo: un bosco.

Sentii come se fosse un brutto scherzo del destino, ovviamente non accettai di fare la sperimentazione, sarebbe toccato a lei andare in quell’ammasso di alberi così simile alla provincia da cui ero scappato.

 

Dopo due settimane di lavoro avevamo creato un luogo adatto per bambini, ragazzi e adulti avventurosi. Alla fine aggiunsi qualcosa, una piccola parte della mia coscienza. Fu semplice, una scansione al cervello ed ecco che i miei ricordi potevano vivere insieme a quelli di Sara e dei centinaia di bambini che avrebbero vissuto quel mondo.

Sara si posizionò il casco per la realtà aumentata sui folti capelli tinti di azzurro. Eravamo pronti per il primo test.

Accesi l’elaboratore e cominciai a battere le varie linee per l’accensione, la ragazza fremeva nel venir catapultata in quel mondo. Era praticamente vergine dei mondi virtuali.

“Prosegui dritta, tanto è un semplice percorso circolare, non penso ci saranno sviste o errori nel codice” esclamai mentre lei, sdraiata sul lettino con gli occhi chiusi muoveva le sopracciglia.

“È magnifico! Sembra così rigoglioso, mi ricorda dove sei nato tu!”

Sorrisi, almeno a lei piaceva.

Poi.

Dimenticai per un attimo la mia paura della natura.

Mi sentivo in sintonia con essa.

Tutto proseguiva secondo i piani.

Finchè.

L’elaboratore non emise uno stridio e il suo schermo si bloccò sul sorriso di Sara nella natura.

“Cosa succede?!”

“Tranquilla, sarà un calo di corrente.”

In realtà non lo sapevo. In realtà, sospettavo ci fosse qualcosa di strano in tutto ciò.

“Toglimi il casco!”

“Non essere teatrale, lo metteremo apposto appena riuscirò a riavviare l’elaboratore.”

“Ci sono degli uomini…”

Guardai il sorriso di Sara, lo fissai a lungo.

Non potevo toglierle il casco, le avrei spappolato il cervello. Dovevo togliere la corrente all’intero edificio.

La sentii urlare.

Il suo sorriso urlava.

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