30 Aprile 2021
CATEGORIA: NarrativaStorie di confine parte 4
“Non capisco chi gli dia il diritto” dice. “Quando qualcuno mi fischia per strada, mi urla Ciao bellissima, non mi lusinga. Non so se questo sia il loro intento, a me fanno solo girare il cazzo” prosegue. “Mentre venivo qui da lei, oggi, è successo due volte. Eppure prima di uscire di casa mi sono osservata allo specchio ed ero okay. Okay.” Lo scrivo sul foglio, ripasso la parola con la penna e la sottolineo tre volte.
Le chiedo “Okay per cosa”. Risponde “Non ho gambe scoperte, seno in vista, trucco appariscente”. Sta in silenzio per qualche istante, poi aggiunge “Anche se, a pensarci bene, solo il fatto che il mio modo di vestire sia condizionato da qualcuno che neanche conosco, non va bene”.
Mi guarda, domanda “Non è d’accordo con me?” Non parlo, così dice che ormai dà per scontato che, se si concia in un certo modo, i commenti non richiesti, le occhiate, saranno di più. “E non è giusto”, prosegue, “che nella mia testa, questo meccanismo scatti in automatico. Come quando ho fame e mi mangio qualcosa, senza pensarci. Sa qual è il bello? Che se di giorno sono solo infastidita, di sera ho paura. Più il sole cala, più un commento pesa come un macigno”. Macigno. Lo scrivo sul foglio, ripasso la parola con la penna e la sottolineo tre volte. “Il cuore inizia a battere più forte, e io aumento il passo. Quando arrivo sotto casa, col buio, non mi sento sollevata, è il momento peggiore. Tiro fuori le chiavi, quasi non riesco a inserirle nella toppa, salgo di corsa le scale e solo una volta chiusa la porta di casa mi sento tranquilla”.
Sospira e dice che forse è sbagliata lei. Le chiedo se ne è sicura. “No cazzo” risponde. “No che non sono sbagliata io, so che ho ragione”. Non parla per qualche istante e guarda la punta delle sue scarpe, poi sospira “A volte rispondo. Ma non sempre. Anzi, è più probabile che fissi un punto nel vuoto e faccia finta di niente. Vorrei riuscirci più spesso, me lo riprometto ogni volta, poi niente. Mi blocco”. Mi blocco. Lo scrivo sul foglio, ripasso la parola con la penna e la sottolineo tre volte.
Frustrata, scrivo e sottolineo. “Lui pensa che l’ignoranza maschile si stia, ogni giorno che trascorriamo sui social, evolvendo” dice la paziente. “Ritiene che la donna sia vista più come un oggetto che come un essere vivente al pari dell’uomo, ma comunque accusa lui stesso il cat calling, e lo considera un capriccio inutile, una frivolezza che cinquant’anni fa era considerata dalle donne un complimento. Sono frustrata perché lui non è una donna” esclama a gran voce, come se il dolore uscisse direttamente dalle sue parole, penso.
“Non sopporto quel suo sorrisetto quando vuole chiudere un discorso, mi compatisce, parole al vento le mie. Poi si accorge, mentre lo raggiungo davanti al ristorante, di quattro ragazzi che mi osservano mentre gli cammino di fianco, fischiano, fraseggiano stronzate, e lui non la prende affatto bene” dice la paziente. “Finalmente spero in una sua reazione, s’incammina verso i ragazzi, nel passarmi attorno mi afferra per un braccio, salgo in macchina obbligata da lui” dice in lacrime la paziente, le offro un fazzoletto. Grazie. “Poi arriviamo a casa, mi urla di non fare mai più la puttana in quel modo, mi ero vestita e truccata solo per lui, per l’uomo che amo, un codardo impaurito da ragazzi che lui stesso giustifica, e nella sua frustrazione trova sfogo nell’unica persona a cui interessa di lui”. Cala il silenzio, la paziente si asciuga le lacrime.
“Lei ha scritto frustrata, ma non credo sia la parola che più mi rappresenta, con quella ho iniziato ma è con emancipata che voglio concludere” dice la donna. Emancipata, scrivo e sottolineo tre volte.
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