DIO È MORTO


La notte era luminosa, e i tre arrancavano nella tempesta. Avvolti nelle mimetiche, i fucili a tracolla, la radiolina ormai scarica. La città non si vedeva ancora, e Giacomo pensava a quanto avrebbe potuto andare avanti prima di venire sommerso dalla neve, prima che di loro non rimanesse che la canna dei fucili, a spuntare dalla coltre che gli si posava addosso. Uno dietro l’altro, rasentavano i binari del treno con la testa infossata nello sterno. Michele chiudeva il gruppo, fischiettava l’inno della Nuova Italia Liberata per farsi coraggio, ma le scariche di vento disperdevano la melodia verso le colline. Erano partiti all’alba, gli ordini erano semplici, fare rapporto non appena avessero intravisto i colli di Roma; ma la cosa più lontana che riuscivano a vedere nella tormenta era il basco del compagno davanti a loro. Certo, non era il momento migliore per andare in avanscoperta verso l’ultima roccaforte dei credenti, ma dal comando stavano preparando l’offensiva finale e quella tempesta avrebbe rovinato i loro piani se non fossero arrivati in tempo, rimuginava Luca. Da quando si era arruolato non aveva mai visto i suoi commilitoni così affaticati, e l’esperienza da boscaiolo nelle montagne del nord lo rendeva consapevole del poco tempo a disposizione per trovare un riparo. Nel calpestio degli scarponi che marciavano sulla ghiaia bagnata, Giacomo fu il primo a vedere la casa. Era una capanna di legno, insolita per quella zona del Lazio, posta a una decina di metri dal terrapieno della ferrovia. Portandosi le mani davanti agli occhi cercò di metterla a fuoco nel balenio dei fulmini; le assi di legno, inchiodate alle finestre, erano il chiaro segnale che la resistenza vaticana l’avesse utilizzata come avamposto. Un secondo dopo era a terra. Luca e Michele si svegliarono dall’ipnosi della marcia, e si gettarono nella macchia d’alberi che correva lungo il bordo dei binari. “Da laggiù”, urlò Giacomo. “Mi ha fottuto la gamba”. Luca strinse gli occhi verso la costruzione indicata dal braccio tremante di Giacomo. Un lampo e un boato. “Con me, lo andiamo a prendere”, disse a Michele. Luca sperava che non li avessero notati, che la pioggia avesse confuso la vista del tiratore, di non essere all’interno del suo mirino. Nascosto tra i cespugli, fissava la facciata, cercando di capire da dove provenissero gli spari. Se si trattava di partigiani cattolici dovevano essere in gruppo, non li avevano mai trovati da soli. Rimase immobile, finché non scorse una testa stagliarsi contro la luce che usciva dalla finestra, nell’intercapedine tra due assi di legno. Prese la mira, e quando sparò vide lo schizzo rosso stamparsi sulla parete. Aspettò qualche minuto, le orecchie tese per cogliere i rumori dei soccorritori dall’interno, ma nulla smuoveva il silenzio se non le esplosioni della bufera. Corsero da Giacomo, se lo caricarono sulle spalle, e insieme barcollarono fino alla porta d’ingresso, i fucili spianati. Una spallata, e furono dentro. La capanna consisteva in un unico stanzone, arredato con tavoli e sedie di legno grezzo. Sopra la porta d’ingresso, un ritratto del papa e la riproduzione della Madonna; Michele li staccò dal muro con una bestemmia. Nel centro dell’assito, con il fucile ancora tra le mani, giaceva l’uomo, avvolto da un abito talare viola. “Ottimismo padre, sarai il primo nel regno dei cieli”, gli rise contro Giacomo, poi gli sputò sul volto. Non fecero in tempo a poggiare le armi che, in mezzo al fienile sopra la stanza, stanarono tre persone, tradite da un singhiozzo di troppo. Erano disarmate, tremanti e impaurite. Un uomo rannicchiato attorno al suo bastone, troppo vecchio per combattere, la moglie e il figlio appena nato, adagiato in una mangiatoia, ancora avvolto nei sudici stracci che un tempo erano stati una tenda. Dovevano aver trovato rifugio nella baracca, sotto la protezione del prete, e la donna doveva aver partorito da neanche un giorno, pensò Luca guardandole i capelli incrostati di sudore e fieno. Afferrarono il padre, e lo fecero inginocchiare davanti al corpo del sacerdote. L’uomo rantolava, fissando la profonda ferita sulla gamba di Giacomo. Balbettava tra i denti parole in una lingua straniera. Luca gli si parò davanti, “Risparmiateci”, piagnucolò in un italiano stentato, “questo bambino non ha colpa”. “Il tuo Dio ha chiesto di essere risparmiato, mentre lo ammazzavamo?” chiese Michele accarezzandolo con la canna del fucile. “In questo mondo comanda il male, e qui, con le tue preghiere non vai da nessuna parte”. L’uomo piangeva senza più ritegno, le mani giunte davanti al naso, schiacciate contro gli occhi. “Se il tuo Dio esistesse davvero, cosa ne direbbe del male?”, gli puntò la pistola sotto il mento, sentiva il pomo d’Adamo muoversi sotto il grilletto, su e giù. “Se quello stronzo fosse onnisciente, onnipotente e sai che altro, come ci avete raccontato per secoli, non dovrebbe sconfiggerlo il male? E invece niente, un cazzo, Dio non esiste, e se esiste è uno stronzo”. Allora la donna lanciò un grido, e con un movimento improvviso cercò di avventarsi sull’arma di Luca, gli occhi fuori dalle orbite. I tre colpi di fucile risuonarono all’unisono. “Altri quattro in meno”, disse Giacomo quando la nuvola di fumo si fu diradata, “di questo passo tra qualche mese non ne sarà rimasto nessuno”. Marito e moglie giacevano l’uno sull’altra, con la testa crivellata dai proiettili. In mezzo a loro, con un rivolo di sangue che sgorgava dal costato, il corpicino del neonato.  Luca e Michele aiutarono Giacomo a stendersi sul pagliericcio in fondo alla stanza, con la gamba ancora sanguinante. Accesero la stufa e si dedicarono alla preparazione della cena. Mangiarono felici come poche volte negli ultimi giorni, con l’odore della polvere da sparo che aleggiava ancora tra i muri, a ricordargli che erano loro a essere ancora vivi. Dopo essersi rifocillati, si soffermarono sui cadaveri. A parte il prete, gli altri indossavano tuniche di cotone leggero, sandali di cuoio ai piedi, e non avevano nessun documento con loro, sembravano apparsi dal nulla. Presero i corpi e, sollevandoli per gambe e braccia, li spostarono nel giardino sul retro; lì, legato ad un albero, trovarono un asino sellato, due sacchi di cibo, e un lungo bastone nodoso. “Bingo”, esultò Luca, “domani niente razioni di emergenza”. La tempesta si era ormai placata, la luna era alta in cielo. Guardando verso sud, in direzione della capitale, i tre videro le luci di Roma. Sopra il capanno, proprio mentre stava per rientrare a scaldarsi, Michele vide una grande palla di luce, che risplendeva sul tetto, tracciando una spessa scia luminosa dietro di sé. Che strana stella cadente, pensò, pare la fine del mondo.

Eugenio Manuelli
eugeniomanuelli.studia@mohole.it


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