In un bosco consumato dalle maldicenze di abitanti e vagabondi, si aggirava Dante Alfieri in sella al suo purosangue. Una spada affilata gli penzolava lungo il fianco e un arco di legno era stretto tra le mani deterse. L’arma era posizionata esattamente tre centimetri distante dalla guancia destra, non uno spazio in più né uno spazio in meno, e dopo essersi convinto di trovarsi da solo in quella pineta, ripose la freccia nell’apposita fodera e si grattò la nuca tre volte. Accarezzò la criniera lucente e maniacalmente pettinata del cavallo altrettante tre volte, per poi tornare a guardare il buio davanti a sé. La tenebrosa foresta era nota per le strane leggende collegate a spietate creature che nessuno prima di allora era riuscito ad adocchiare, e forse era meglio così. Dante sentì il rumore di passi incessanti, scese dal cavallo e sfoderò la spada. Si guardò a lungo intorno, cercando di capire da dove provenisse la marcia e poi avvistò una volpe. Insolita creatura tra le mura di Canzo, eppure era davanti a lui che lo scrutava con uno sguardo singolare. Occhi rossi come il fuoco e luride zanne ben in vista. Avrebbe potuto attaccarlo, morderlo o semplicemente sporcarlo, la cosa che più lo terrorizzava. Si sistemò la casacca e deglutì, prima di avanzare con la spada strettamente salda nella mano destra, mentre con l’altra si picchiettava assiduamente la gamba. Ma poi l’astuta volpe si mosse e, prima che avesse il tempo di comprendere ciò che stava accadendo, Dante era stato morso sulla coscia. Gli occhi diventarono roventi e le mani iniziarono a tremare alla vista del liquido scarlatto. Il cuore gli batteva freneticamente e i muscoli sussultavano a ogni goccia di sangue che insudiciava non solo la pelle, ma anche i ciuffi d’erba sottostanti. L’inquietudine stava prendendo il sopravvento sul ragazzo ma, nonostante ciò, Dante ebbe comunque le forze di salire sulla groppa del cavallo e, in poco tempo, raggiunse la sua modesta abitazione perfettamente in ordine. Il ragazzo trasalì a tutte e trentatrè le gocce di sangue che iniziarono a imbrattare il pavimento della dimora; poi si precipitò in bagno e iniziò a passare un panno umido sulla ferita talmente tante volte che temette di essersi scorticato parte della pelle intorno al morso. Si accasciò sul giaciglio e, dopo sconfinati attimi di sofferenza, il suo corpo pareva quello di uno spettro, con vene violacee e velate chiazze rossastre a coprirgli il volto svigorito. Con un’inspiegabile fame, si diresse a passi felpati verso la piazza principale e durante il tragitto morse tutti i passanti che incrociava sul suo cammino. Dopo ogni zannata si soffermava sulle sue vittime a ripulire in modo maniacale le ferite. Impilava le prede ai margini delle strade principali, perfettamente in ordine e disinfettate. Prima di avanzare, Dante smacchiava in continuazione la sua bocca dal sangue. Coloro che riuscirono a nascondersi in un primo momento, osservavano la tragedia impauriti e, allo stesso tempo, disorientati dal modo di agire del ragazzo. La cosa più sconvolgente avvenne quando gli abitanti infettati dal giovane lo iniziarono a seguire imitando le sue ossessive movenze. La folla vagava inerte contro le ultime persone ancora in vita. Nessuno riuscì a scampare alla morte e, ben presto, Canzo diventò un paese popolato da non morti ma, nonostante ciò, le strade apparivano sempre perfettamente pulite, così come i cittadini stessi, mai contaminati da sangue in eccesso sulle loro vesti.
Greta Campagna Popolo, Chiara Palladino