Non sento il mio corpo.
Apro gli occhi su un soffitto anonimo, non riesco a girare la testa. Respiro e pian piano riprendo consapevolezza. Prima spossatezza, poi dolore si irradiano dalle mie stesse ossa. Non so dove sono.
Sento la cassa toracica accartocciarsi su se stessa, le dita stritolare il lenzuolo, annaspo. Poi da sinistra un bagliore. Intravedo appena una finestra che dà su un cielo virante verso il blu. Come se fossero comandate da un unico interruttore, le luci al neon della città si accendono una dopo l’altra. Mi sembra di essere sospesa in un mare popolato da strane creature fosforescenti.
Basta questo per ricordare.
***
Il viaggio è durato tre giorni e mezzo. La rete ferroviaria che un tempo collegava città piccole e grandi è andata per la maggior parte distrutta, e le poche linee rimaste sono in mano alle corporazioni. Assicurarsi un biglietto è impossibile se non sei qualcuno. Così sono andata a piedi fino alla vecchia autostrada e ho aspettato uno dei bus sgangherati che attraversano la terra di nessuno un paio di volte al giorno.
Quando è arrivato, il veicolo era già quasi al completo. Mi sono assicurata uno dei sedili rimasti, il rivestimento liso e sbiadito. Ci sono rimasta ancorata per le ore a seguire, mentre il bus si riempiva sempre più e l’aria diventava satura di sudore e trepidazione. Ogni tanto sgranocchiavo una delle barrette energetiche plasticose che avevo nello zaino, da cui non mi separavo mai. Durante gli stop, non azzardavo ad assentarmi per più di un paio di minuti, così da non farmi rubare il posto.
Alla fine del terzo giorno, una silhouette luminosa è apparsa dal nulla, stagliandosi sull’orizzonte sbiadito. Anche se distante ancora qualche chilometro, Neon City sembrava già accoglierci con il suo marchio di fabbrica.
Il bus ci ha lasciati al limitare della città. Io e gli altri passeggeri abbiamo proseguito guidati dall’inerzia, un gregge di pecore abbandonato dal pastore. In quella zona periferica non c’era una folla anonima a cui mescolarsi. Poi, appena le prime insegne al neon hanno iniziato a fare capolino fra gli edifici, ognuno ha preso la propria strada. Ho controllato per l’ennesima volta di avere ancora la busta di plastica con i soldi sotto la camicia e mi sono incamminata verso le luci.
Non ho dormito quella notte, affittare una stanza sarebbe stato uno spreco di soldi. Invece, ho iniziato subito a cercare un lavoro. A casa, nel mio paesino nel mezzo del nulla, le opportunità scarseggiano: il terreno non è molto fertile e le città vicine assorbono quasi tutte le risorse. I miei genitori faticavano a mantenere me e i miei fratelli più piccoli. Partire per la città mi era sembrata l’unica soluzione per non pesare su di loro e contribuire con qualche soldo.
A casa si parla di Neon City come una fonte d’oro di opportunità. Invece mi ritrovai a fare la sguattera a Chow, una catena di fast food. Quel che guadagnavo bastava appena a pagare un loculo nel motel più squallido della zona e prendere qualcosa da mangiare. Da qualche parte devo pur iniziare, pensavo.
E poi l’ultima notte che ricordo. Dovevo attraversare una strada poco illuminata per arrivare al mio motel. Quattro uomini col volto coperto si sono parati davanti a me. Non ho fatto nemmeno tempo a urlare: uno di loro mi ha tappato la bocca con una mano mentre un altro mi ha sferrato un pugno nello stomaco. Ho cercato di divincolarmi ma erano troppo forti. Ho cercato di colpirli con dei calci ma non gli ho fatto nulla. Intanto loro frugavano nelle mie tasche, sotto ai miei vestiti: hanno trovato la chiave del mio loculo. Uno di loro se n’è andato verso il motel, gli altri tre sono rimasti con me nel vicolo. Poi… Mi hanno spinta a terra. Il baluginio di un coltello. Il dolore. E mentre tutto diventava nero, una voce crudele che dice: «Benvenuta a Neon City».
***
Chiudo di nuovo gli occhi, come se bastasse per cancellare il ricordo. Vorrei piangere, ma il mio corpo non sembra più in grado di fare nemmeno quello. Il mio corpo. Un’altra ondata di panico mi chiude la gola appena mi accorgo che non sento il braccio destro.
«Ehi».
Una voce di uomo emerge dall’oscurità. È pacata e gentile. Il mio primo istinto è di rimanere completamente immobile e trattenere il respiro.
«Non avere paura, sei al sicuro qui,» aggiunge.
L’uomo si avvicina lentamente, la sua figura mi appare tremolante e poco definita. È alto, ha barba e capelli biondi lunghi. Lo fisso. Non so cosa dire. Non so se sono ancora in grado di parlare.
«Sono Odin, un runner. Ero sulle tracce di una gang e ho trovato te, per strada».
Solo ora mi rendo conto che c’è qualcosa che non va con i miei occhi. Non solo è più difficile mettere a fuoco, ma il mio campo visivo è limitato. Alzo la mano sinistra e la porto verso il lato destro del volto. Le mie dita incontrano una fasciatura. Mi scappa un gemito.
«Il medico ha fatto del suo meglio ma braccio e occhio destro sono andati».
Le mie labbra prendono a tremare. Serro l’occhio sano e deglutisco, respiro fino a quando il pianto non si dissolve in fondo alla gola.
Dopo un po’ Odin parla di nuovo: «Quando ti sentirai meglio potrai andartene».
Mi scappa un risolino amaro, ansimante. E dove dovrei andare ora?
Come se mi leggesse nel pensiero, l’uomo aggiunge: «Oppure potresti rimanere qui, diventare una runner».
Odin si zittisce, forse pensa di essersi spinto troppo in là. Dovrei dire di no, penso, ma il mio stomaco si contorce rabbioso a questa idea. La paura è svanita davanti a un sentimento più forte: la vendetta.
Cerco il suo sguardo per essere sicura che capisca e annuisco.
***
Il magazzino dei Bulldozer si trova in una delle zone più desolate della periferia, fra catapecchie in lamiera e vicoli luridi. Da una finestra in alto filtra un raggio di luce, appena visibile attraverso lo sporco che incrosta il vetro.
Odin respira calmo di fianco a me, mentre io cerco di imitare la sua stessa stoicità. Ogni mio respiro risuona più rapido e rumoroso del precedente.
Un paio di figure emergono dalle strade buie e si infilano dentro il magazzino, con appena un’occhiata alle spalle. Il runner mi dà il segnale di via libera. Mentre la mia mente si prepara alla battaglia, il mio corpo finalmente si calma, il respiro torna regolare.
Abbandoniamo la nostra postazione e procediamo con cautela fino alla porta del magazzino. Scivoliamo all’interno silenziosi, le nostre sagome un tutt’uno con l’oscurità. Il primo uomo ci dà le spalle, Odin lo afferra con un laccio per il collo. Muore con un gorgoglio inudibile. La seconda sentinella si ritrova con un coltello conficcato in gola.
Non ci sono altri Bulldozer a proteggere la scala verso la sala del ritrovo. Da lassù, spio oltre la porta, contando velocemente i membri della gang. Faccio segno a Odin: ci sono tutti. Il runner annuisce e mi passa la granata.
Un tonfo, un sibilo, appena il tempo di qualche verso sorpreso e poi sono tutti a terra, storditi dalle sostanze tossiche. Io e Odin ci facciamo strada fra di loro indossando maschere protettive, per assicurarci che siano fuori gioco. I quattro uomini che mi hanno aggredita sono davanti a me, incoscienti. Li leghiamo, poi Odin sistema gli altri.
Ci vogliono cinque minuti perché si riprendano. Li osservo con una sorta di interesse morboso mentre sudano e si agitano sul posto. Mi avvicino di un passo per farmi vedere. Mi chiedo se mi riconoscano: nei pochi mesi che sono passati sono cambiata, dai capelli rossi ora corti al braccio destro in titanio e fibre cibernetiche. Eppure sono sempre la stessa ragazza del vicolo. O forse no.
Con il mio occhio cibernetico posso distinguere ogni ruga sui loro volti, la paura che li pervade. E all’improvviso, non so più cosa fare: rimango a fissarli, stranita, mentre loro fissano me, terrorizzati.
Odin fuoriesce dalle ombre per fermarsi al mio fianco. Li osserviamo in silenzio per qualche istante. E più li guardo, più sento una furia incontenibile farsi strada nel mio cuore.
Estraggo la pistola e sparo quattro colpi, uno dopo l’altro.
Quando l’eco si dissolve, le mie labbra si muovono di propria volontà, pronunciano le prime parole da quella notte fatale: «Neon City vi saluta. Per sempre».
Giulia Wauters
giuliawauters.studia@mohole.it
Una risposta a “BenvenutƏ a Neon City”
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