L’odore di caffè bruciato gli pizzica il naso. Si passa una mano sul volto, stropicciandosi gli occhi e aspettando qualche secondo prima di riaprirli. Nonostante la finestrella sia coperta dall’attaccapanni, la luce che entra è fastidiosa e gli ci vogliono parecchi secondi per farci l’abitudine. Si alza dal divano polveroso, lasciando la sua figura sul cuscino. Cammina goffo fino alla porta, ancora intontito dal suo solito riposino della pausa pranzo. Afferra il grembiule che ha lanciato mezzora prima sul tavolo cosparso di bottiglie e mozziconi di sigarette, e torna verso il salone. L’odore di caffè bruciato si fa sempre più forte e a Charlie inizia a dare fastidio. Possibile che non lo sentano gli altri? si chiede. Sbuffa, fa qualche passo mentre si allaccia il grembiule dietro la schiena, poi cerca di stirare le pieghe con la mano; è pieno di macchie di ketchup e si ripromette di metterlo a lavare quella sera stessa. Appoggia il palmo sulla porta, spostandoci tutto il suo peso per aprirla e lasciarsela chiudere alle spalle. Poi alza gli occhi sul bancone. Rimane immobile. Il respiro gli si blocca. Non riesce a muoversi. Non riesce a pensare. Vorrebbe urlare, ma la sua voce sembra essersi nascosta per la paura. Non riesce a spostare gli occhi da Lea.
“Bene, vado a prendermi la mia meritata pausa” le aveva detto.
“In pausa pranzo dovresti mangiare, lo sai vero?”
“Non ho fame.”
“Non avevo dubbi. Vai a farti una breve dormita quindi?”
“Come sempre. Ci vediamo tra una mezz’oretta. Fammi il favore di non bruciarmi il locale mentre sono di là.”
“Uh?”
“Il caffè Lea. Si sta bruciando, ne sento l’odore fin qui.”
Il caffè. Sposta lo sguardo verso la moka. Il caffè è uscito e si è appropriato dei fornelli. Charlie fa uno scatto verso la caffettiera e la prende. La mano inizia a fargli male. Molla la presa sopra il lavandino, lasciando cadere la moka nell’acqua sporca con un tonfo sordo che gli fa schizzare la schiuma sul grembiule. Si guarda la mano. La sente pulsare e per qualche secondo il suo cervello ripone tutta la sua attenzione sulle chiazze rosse che si stanno formando. Apre il rubinetto e la infila sotto il getto dell’acqua fredda. Chiude gli occhi e si lascia cullare da quella sensazione di sollievo. Poi li riapre, si gira in cerca di un panno con cui avvolgerla, ma si blocca. Il suo sguardo è di nuovo fisso su Lea. Le ginocchia piegate e i piedi storti non la sorreggono più. Ora il peso è affidato al bancone, dove le braccia sono distese. I capelli biondi le ricadono disordinati sul volto, appoggiato al registratore di cassa. Sulla schiena una chiazza di sangue si è allargata fino a raggiungere le
spalle. Charlie rimane a guardarla per diversi minuti. La mano a mezz’aria ancora bagnata, da cui si staccano delle gocce che si scontrano con il pavimento, creando una piccola pozza. Si obbliga a fare un respiro profondo. Inspira. Espira. Manda giù il nodo che gli si è formato in gola. Mette il piede destro davanti al sinistro. Poi il sinistro davanti al destro. Ripete meccanicamente lo schema nella sua testa. Destro, sinistro, poi di nuovo destro. Arriva a un passo da Lea e si ferma. Gli manca di nuovo il respiro. Concentra tutte le sue energie nel muovere la mano dolorante verso di lei. Sta tremando. Non sa se per il dolore o per la paura. Probabilmente entrambi. Chiude gli occhi e continua ad allungare il braccio. Poi la sua mano tocca la spalla di Lea. Riesce a sentire la lana del suo golf pizzicargli le dita. È reale, pensa. Apre gli occhi. Lea è davanti a lui, morta.
Gli occhi gli bruciano. Vorrebbe piangere, ma le lacrime non se la sentono di uscire ancora. Fa un respiro profondo. Poi un altro e un altro ancora, sempre più veloci. Ritrae la mano e se la stringe al petto. Fa qualche passo per allontanarsi da Lea. Col piede urta un oggetto che scivola un po’ più in là. Charlie sussulta a quel rumore improvviso. Si gira lento, abbassa lo sguardo. Una pistola. Charlie si abbassa piano piano. Allontana la mano dal petto e la allunga in direzione dell’arma. La afferra e si rialza. È coperta di sangue.
“Aiuto” sussurra. Poi lo dice di nuovo, urlando. Alza gli occhi sul salone alla ricerca di qualcuno che gli possa dare una mano. Il respiro gli viene di nuovo a mancare. Rimane immobile per qualche secondo. Si appoggia ai fornelli, poi si accascia a terra. Stringe la pistola tra le mani. La guarda e inizia a piangere. Si abbraccia le ginocchia e inizia a dondolarsi, cercando di calmarsi tra un singhiozzo e l’altro.
“Non è possibile. Non è possibile. Non è possibile” continua a ripetere con lo sguardo offuscato fisso su Lea.
Il suono di una campanella gli provoca un sussulto. La porta del bar si è aperta. Qualcuno sta entrando. Charlie sta tremando mentre guarda la pistola. La stringe finché le sue nocche non diventano bianche. Appoggia una mano sui fornelli e premedita nella mente tutte le successive mosse. Se è tornato quel bastardo, lo faccio fuori, pensa. Anche nei pensieri la voce gli trema. Affida tutto il suo peso al braccio sinistro e solleva il suo corpo debole. Poi con uno scatto punta la pistola verso la porta d’ingresso del locale. La mano rimane a mezz’aria, tremante. Davanti a lui tre ufficiali di polizia. Guarda il primo, poi il secondo e infine il terzo. Poi il suo sguardo viene attratto da delle chiazze rosse sulla porta d’ingresso. Se Lea è stata uccisa qui del bancone, come ci sono finite lì quelle chiazze? pensa. Sente il suo corpo irrigidirsi. Volta meccanicamente la testa prima verso destra, poi verso sinistra. I clienti che poco prima aveva cordialmente servito ora giacevano
immobili nelle posizioni più scomode. Chi con la testa nel piatto, chi accasciato sulla sedia, chi disteso sul pavimento tra le chiazze di sangue. Morti.
Gli ufficiali stanno guardando Charlie preoccupati. Hanno le mani sulle fondine, pronti a estrarre le pistole in caso di necessità.
“Signore, si calmi adesso. Abbassi l’arma” dice il primo, quello più a sinistra. Charlie lo guarda dall’alto in basso, chiedendo aiuto con lo sguardo.
“Non c’è bisogno di fare ancora del male, noi vogliamo solo scambiare qualche parola con lei. Per favore, abbassi l’arma” ora a parlare è stato l’ufficiale più a destra. Quello al centro ha estratto leggermente la pistola, ma la mano gli trema.
Charlie guarda perplesso l’arma tra le sue mani.
“Più…più male?” la sua voce è un balbettio sussurrato. Il suo sguardo da feroce si fa spaventato. Ricomincia a piangere.
“Non…non sono stato io” dice con un filo di voce. Poi lascia cadere la pistola. Porta le mani sopra la testa. Gli tremano. Le lacrime continuano a bagnargli il volto.
“Non sono stato io!” urla.
I poliziotti lo accerchiano, gli abbassano le braccia portandogliele dietro la schiena. Poi gli uniscono le mani con le manette. Non oppone resistenza. Il suo corpo debole viene trascinato attraverso il salone. Passano accanto a Lea. Vorrebbe vomitare. A ogni passo il suo sguardo cade su un nuovo corpo. Oliver è disteso accanto a una delle sedie del bancone. Charlie è certo avesse ordinato un caffè senza zucchero e una brioche rigorosamente vuota, dato che quelle farcite nascondevano il gusto vero dell’impasto a detta sua. Ora la tazzina del caffè giace scheggiata accanto al suo corpo esanime. Poco più in là Daphne è ripiegata sul giornale. Voleva sempre che le uova fossero ben cotte e non si faceva scrupoli a rimandarle indietro, ma lo faceva sempre con un sorriso dolce. Quel ricordo gli provoca talmente tanto dolore che Charlie vorrebbe mettersi a urlare. Dalla parte opposta a Daphne, Jack, suo marito. Lui non parlava molto. Si sedeva e ordinava un bicchiere d’acqua solo per tenere compagnia alla moglie e guardarla mentre leggeva il giornale.
Charlie rivive quei piccoli frammenti di vita che aveva condiviso con ognuna di quelle persone, anche con coloro che quella mattina si erano fermati per la prima volta a provare una tazza di caffè fumante. Alza lo sguardo. Vede il suo riflesso nella vetrina del locale, ma gli sembra di vedere una persona completamente diversa. Ha lavorato dodici anni in quel bar. Da quei vetri di solito guardava la vita di strada. Aveva visto passare ladri, macchine della polizia o assistito alla rapina della gioielleria di fronte. Charlie pensava di essere al sicuro dentro al suo piccolo locale. E invece adesso accanto al suo riflesso si specchia quello di molte altre persone, tutte morte.
I poliziotti aprono la porta del bar e lo trascinano fuori fino alla macchina parcheggiata storta davanti al marciapiede. Fanno salire Charlie sul lato posteriore e chiudono la portiera con un tonfo che lo fa sussultare. Ha lo sguardo basso, spento. Continua a chiedersi cos’abbia di speciale rispetto agli altri. Perché io? Perché mi ha risparmiato? Non riesce a trovare una risposta che faccia rallentare il suo cuore. I poliziotti stanno parlando, ma lui non li sente.
“Vai a farti una breve dormita quindi?” la voce di Lea gli riecheggia in testa ed è l’unica cosa che riesce a sentire.
La macchina si ferma. Charlie viene fatto scendere e condotto nella centrale. Un brusio di voci, telefoni che squillano e passi lo accompagnano finché la porta della sala per gli interrogatori gli si chiude alle spalle. Poi il silenzio. Rimane in piedi, lo sguardo basso fisso sulle sue scarpe. Sono macchiate di sangue.
“Charlie O’Neill” a rompere il silenzio è l’ufficiale che lo ha accompagnato nella stanza. È seduto sulla sedia e sfoglia un fascicolo appoggiato su un tavolo traballante. I loro sguardi si incontrano. “Accomodati pure” continua indicando la sedia dalla parte opposta del tavolo. Fa qualche passo trascinando i piedi e abbandona tutto il suo peso sulla sedia. “Vuoi un po’ d’acqua? O magari del caffè?” gli chiede senza guardarlo.
Scuote la testa senza staccare gli occhi dalle scarpe. Non riesce a ricordare quando se le è macchiate di sangue. E soprattutto si chiede se il sangue sia di Lea o di qualcun altro.
“Allora direi che possiamo iniziare” dice mentre estrae un foglio bianco dal fascicolo. Prende una penna che era appoggiata sul tavolo e fa scattare fuori la punta.
“Charlie, voglio che mi racconti esattamente cosa è successo là dentro. Tutto quello che ti ricordi.” Il tono dell’ufficiale lo allarma. Pensa che sia stato io? si chiede. Le mani gli sudano. Quella con cui ha toccato la caffettiera gli fa ancora male.
“Charlie?”
Alza gli occhi sul poliziotto. I suoi occhi lo scrutano da sotto le sopracciglia folte. Charlie sente che lo sta giudicando, che crede sia lui il colpevole.
“Stavo dormendo” dice con un filo di voce, tenendo gli occhi fissi sull’ufficiale. “Come dici?” Il poliziotto prende in mano la penna e scrive qualcosa sul foglio. “Stavo dormendo” ripete.
“E poi gli spari ti hanno svegliato?”
Effettivamente avrebbero dovuto, pensa. Come ho fatto a non sentirli? Ripensa alla conversazione con Lea e al suo risveglio nella stanzetta comune. Aggrotta le sopracciglia e si sforza di pensare a cosa è successo nel mezzo. Non riesce a ricordare come ha raggiunto la saletta. Gli spari poi? Non li
ha proprio sentiti. Com’è possibile? Charlie sfrega le mani tra di loro. Chiude gli occhi. Non riesce più a distinguere quale sia quella che gli fa male. Il dolore lo percorre tutto e non gli permette di fare pensieri lucidi. Il discorso con Lea. Il risveglio nella saletta. Ma… nel mezzo? “Non ho sentito gli spari.”
Sente l’ufficiale muoversi sulla sedia e il rumore della penna che scorre sulla pagina. Continua a tenere gli occhi chiusi, rivivendo l’ultima ora con una rapidità che gli fa venire il mal di stomaco. “Perché non ci dici com’è andata veramente?” ha gli occhi chiusi, ma sa che i suoi sono fissi su di lui, li riesce a percepire. “Sappiamo che sei stato tu.”
A quelle parole Charlie si alza in piedi, spingendo indietro la sedia che va a sbattere contro il muro. Bam. Il rumore di uno sparo gli fa eco nella testa. Poi un altro e un altro ancora. “Non sono stato io.”
Sente ancora un proiettile, seguito da altri due spari consecutivi.
“Charlie, abbiamo i video delle telecamere di sicurezza.”
“Non sono stato io.”
Sente la voce di Lea nella sua testa. Gli sta dicendo che non è vero che il caffè sta bruciando. Ma lui ne sente l’odore, gli punge le narici e gli da un fastidio tremendo.
“Charlie perché lo hai fatto?”
“Non sono stato io.”
Ora sta dicendo a Lea che deve togliere la moka dal fuoco se non vuole bruciare il caffè. Lei continua a dire che non ce n’è bisogno, non è ancora ora.
“Perché hai ucciso tutte quelle persone Charlie?”
“Non sono stato io.”
Lea gli dice di preoccuparsi solo della pausa pranzo. Che al locale ci pensa lei. “Hai sparato a Lea. Poi hai sparato a ognuno degli altri clienti. Perché?”
Charlie sente le guance diventargli rosse dalla rabbia. Il caffè sta bruciando, ma Lea non ne vuole sapere. Ci scherza sopra. Le lacrime gli bagnano il viso.
“Perché?”
Charlie apre gli occhi. Le mani gli sudano. Dà una rapida occhiata alle scarpe macchiate di rosso, poi guarda l’ufficiale.
“Lea aveva bruciato il caffè.”
Teresa Piovesan
teresapiovesan.studia@mohole.it
2 risposte a “CAFFÈ BRUCIATO”
Alta tensione. Tutto in show, non stucchevole. Interessante. Mi è piaciuto come tu sia riuscita a mantenere un ritmo serrato per tutto il racconto. Pregevole la parte in cui, alla fine, alterni con rapidità flashback e momento presente. Chapeau.
Grazie mille!