Destinazione Roma Termini


 Con il fiatone mi ero accomodato nel posto 16E. Non mi preoccupavano le quattro ore che avrei dovuto passare con il fondoschiena su quel sedile. Anche perché per me non erano mai state quattro. Se il viaggio fosse stato dalle 11 alle 15, alle 12 avrei iniziato a pensare che mancava un ora e arrivate le 14 mi dicevo che ne sarebbe mancata un’altra e così via. Era un giochetto che mi ero inventata in stage, quando il tempo sembrava non passare mai. Quattro ore sembrano una quantità di tempo abissale, mentre un ora passa già più in fretta. Quindi dovevo farmi quattro viaggi da un’ora. Ho sempre amato prendere il treno, motivo per cui continuo a rimandare la patente. La maggior parte delle persone penserebbe l’opposto, ma il treno per me è diciamo, la mia confort zone. Ovviamente soltanto, se non è uno di quei treni vecchi e rumorosi, e se non ci sono troppe persone, perché altrimenti tutto il pensiero di prima si smonterebbe. Quando sono su quel sedile e osservo fuori dal finestrino è come se ci fossi soltanto io con i miei pensieri, per questo dico che preferisco i treni silenziosi e con poca gente, perché altrimenti se c’è confusione e troppo baccano, farei fatica ad ascoltare ciò che la mia mente sta cercando di dirmi. Stavolta probabilmente nemmeno con un apparecchio acustico l’avrei sentita parlare. Il treno era anche di un modello recente, silenzioso, con vetrate grandi e sedili confortevoli. Ma era il tredici di agosto, ciò significava bambini che schiamazzavano con le corrispettive madri pronte a richiamarli. D’un tratto uno di quest’ultimi correndo da un vagone all’altro inciampa sulla Michael Koars della signora di fronte a me.  Qualche istante dopo un ghigno preveniente dal sedile affianco mi giunge all’orecchio. Quel suono acuto e stridulante era una novità per me. Giro lentamente la testa di poco, e vedo un esserino talmente piccolo che i piedi nemmeno li toccano per terra, ma fluttuano a ciondoloni. 

“Potresti smetterla di far uscire quel suono dalla tua bocca?” 

“Non posso, io sono la risata, non posso smettere di ridere, sarebbe come smettere di respirare per te”.

Nonostante fosse lei a emettere quello stridulo, le persone continuavano a guardare me. Anche la stessa madre del bambino inciampato su quella scatolina lussuosa puntava i suoi occhi verso di me.

“Risata? Che cos’è?”

“Quell’attimo in cui le tue labbra sorridono talmente tanto da emettere un suono. Il suono della gioia.” 

Che assurdità poteva mai essere, la mia bocca per anni gli unici suoni che era riuscita a produrre erano singhiozzi e lamenti. 

Con un saltino aveva poggiato i piedi giù del sedile, mi prese per mano e mi portò fuori dal treno. 

“Devo mostrarti come posso cambiarti la vita” 

Mi aveva portato al cinema e dopo qualche minuto d’inizio dello spettacolo, le immagini nel proiettore mi provocavano una sensazione strana alla gola. Quasi un gemito che dovesse uscire. Risata ora era dentro di me.  Mi portò ovunque e tutto con lei cambiava di spessore, aggiungeva colore alla mia monotonia. 

Mi fece uscire con una ragazza e lei mi disse di amare la mia risata. “Ma come poteva essere possibile?”

 Qualche mese dopo mia mamma venne a mancare. Passavo intere giornate a letto con gli occhi gonfi per i pianti eccessivi. Proprio in quel momento che cercavo Risata, lei non c’era. L’ho cercata ovunque, sotto il letto, nei cassetti, nello stesso treno destinazione Roma termini, ma nulla. Appena l’avrei rivista non gliela avrei fatta scampare liscia. Poi dopo settimane così per caso al bar, in una conversazione con un amico lei è tornata. 

“Risata, dove sei stata tutto questo tempo? Avevo bisogno di te.”

“è buffo come tu sia riuscito a stare tutta la vita senza sapere della mia esistenza, eppure tu stavi bene lo stesso. Mi ero assentata per ricordarti senza dolore non ci posso essere nemmeno io.

Maryam Cherif 
Maryamcherif.studia@mohole.it


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