DI GELSOMINO E DI SANGUE


Di Chiara Moneta

Dalla finestra del primo piano la donna guarda la pianura che si estende a perdita d’occhio e gli animali nel recinto.

I cavalli, con placida quiete, affondano il muso nel fieno, mentre il destriero del poeta, un nobile purosangue color crema, con passo pigro lascia che il vento gli scompigli criniera e coda.

La sella e le staffe decorate con oro riflettono il fuoco delle torce appese intorno, facendo luccicare il lavoro degli artigiani. Sulla staccionata vicina sono accuratamente disposte una coperta in tessuto di una qualche terra lontana e la struttura portabagagli. 

Nel fango ci sono i grossi solchi delle ruote della carrozza della nobildonna che si fermano esattamente davanti alla porta della locanda, per poi tornare indietro.

Lei sa che la scorta a breve arriverà per riprendere la dama e il figlio, ma non se ne dà cura.

Il suo sguardo si posa poi sul destriero del mercenario: un animale dalla corporatura robusta, fusione tra la selvaggia natura e la disciplina imposta dall’addestramento. Il manto è di un profondo color baio, un marrone scuro che vira quasi al nero. 

La sella, seppur semplice, mostra la sua solidità; la pelle consumata dall’uso brilla ancora, segnata da riparazioni e rinforzi. La briglia, anch’essa di cuoio, è adornata solo da modesti nodi decorativi, distintivi della sua provenienza. 

Sotto la sella, una coperta spessa protegge il dorso del cavallo dallo sfregamento per i lunghi tragitti, rammendata con pezzi di stoffa di varie consistenze. A terra, accanto ad esso, è poggiata la sua modesta armatura di cuoio borchiato, per il petto e collo, scalfita da segni di frecce.

Ma partiamo dall’inizio. 

C’era una volta, in un villaggio di campagna, una bambina. Si diceva che la madre possedesse poteri straordinari, ma si spense un giorno, a causa di un malanno misterioso. Rimase dunque alle cure del padre, custode di una modesta locanda tra le verdi colline. Ella, cresciuta in grazia e generosità, imparò presto l’arte di ascoltare.

Insieme al padre, infatti, accoglieva viaggiatori stanchi e così facendo, sentiva storie da tutto il mondo. Dopo aver ascoltato le loro vicende, dispensava consigli illuminati e offriva soluzioni che portavano l’eco di una saggezza antica. 

Gli stranieri, una volta seduti al suo cospetto, sentivano un rinnovato vigore, come se le loro anime fossero state risvegliate da un lungo sonno. La fama della piccola si diffuse come il profumo di fiori al vento di primavera: in molti accorrevano da ogni parte per interrogarla. I muri accoglievano racconti e segreti dall’alba al tramonto e assorbivano quelle lingue diverse, che la bimba conosceva senza sforzo.

Vi furono periodi in cui la fila davanti al portone della locanda serpeggiava per decine e decine di metri, come un fiume umano in cerca di risposte. La locanda prosperava e con essa il padre e la sua bambina.

Tuttavia, il destino, crudele e imprevedibile, colpì ancora. 

Un giorno il padre mentre tornava a casa da un viaggio di rifornimento dalla capitale, venne colto alla sprovvista da un violento temporale: un grosso ramo sradicato dalle raffiche di vento lo colpì al viso e alla testa. E più non tornò da sua figlia. 

Quando trovarono il povero corpo, la bambina rimase avvolta nel velo oscuro del lutto e della solitudine per lungo tempo; anche se confortata dall’affetto e dagli aiuti dei suoi conoscenti nulla pareva smuoverla dal silenzio in cui si era barricata. 

I visitatori smisero di frequentare la locanda e la zona si fece deserta. Ma ogni stagione ha la sua fine, e così, lentamente, il cuore della ragazza iniziò a rimarginarsi e le nubi nei suoi occhi a diradarsi. Si scoprì adolescente, con il desiderio di prendere in mano le redini della sua vita.

Il mercenario apparve alla porta in un giorno di sole, bussando con violenza. La fanciulla, con il fiato sospeso, guardò dallo spioncino e si bloccò. Lui picchiò nuovamente sul legno di frassino e lei, vedendo il fianco sanguinante, decise di farlo entrare. 

Non appena girò le chiavi nella toppa, irruppe nella stanza come un animale in panico aggrappandosi alla tovaglia e rovesciando un vaso di fiori di lavanda. Andò a sbattere contro il mobile, facendo cadere libri e scartoffie, prima di crollare a terra in un tumulto di rabbia. 

Riprese coscienza nella notte: la luce fioca di una candela tremolava instabile come il suo respiro, proiettando ombre sulle pareti della piccola stanza. La giovane donna dai capelli rossi era china sul suo corpo, disteso sul tavolo della cucina. Gli aveva già strappato via la tunica e versato vino sulla carne aperta. I panni che aveva posto sotto di lui erano intrisi di sangue ma lei non era estranea a quella vista.

Prese ago e filo e iniziò a ricucire l’uomo con meticolosa precisione. Lui si contorse e agitandosi la colpì, accecato dal dolore. Lei però non si fermò. “Resisti,” mormorò con voce calma “altrimenti l’infezione si estenderà”. Spalmò una pomata di achillea e camomilla sulla pelle sudata e lui serrò i denti. Applicò poi un unguento di miele e propoli sulla ferita e fasciò con cura con una striscia di lino pulito. “Riposa ora. Sei al sicuro”. Lo stoppino annegò nella cera molle e le candele pian piano si spensero; dunque, si allontanò, lasciandolo dormire. Il ragazzo mugolò nel sonno per giorni e la giovane lo ascoltava. 

Nel primo periodo di convalescenza il mercenario era diffidente ma sorridendo mascherava il suo sentimento, consapevole di cosa stava ottenendo da lei. Le rivolgeva la parola solo a causa della convivenza coatta, mostrandosi come un ospite innocuo e degno di reverenza. 

Passava le giornate lanciando lame contro il tronco di un albero finché il dolore al fianco tornava a farsi sentire. Allora si sedeva sotto il portico e, con lo sguardo, seguiva la ragazza nel cortile mentre prendeva l’acqua dal pozzo, spaccava la legna o lavorava l’orto sotto il sole. La sera, affilava le lame alla luce di una torcia, mentre lei riparava utensili o annaffiava le piante aromatiche, e il giorno successivo ricominciava.

Tuttavia, col passare delle settimane, il suo animo si placò e iniziò a rivelarsi. Un giorno, mentre lei preparava un infuso, il mercenario le si avvicinò. Non appena lei se ne accorse si girò e se lo trovò davanti. Il ragazzo passò le dita ruvide lungo il suo viso, seguendone il contorno, e le si accostò finché i loro respiri si fusero insieme. 

Da quel momento le sue storie iniziarono a scorrere come un fiume in piena: con la testa poggiata sulla sua gonna, guardava il soffitto e col dito disegnava in aria le tattiche dei suoi scontri epici e sopravvivenze miracolose, di momenti in cui era stato vittima e momenti in cui era stato carnefice. 

Ogni avventura portava l’eco di un desiderio di grandezza. Lei ascoltava e accarezzava i capelli neri. A sua volta, offriva la sua storia, i segreti, le paure: le parole faticavano a emergere, ma le strappava fuori.

La convivenza divenne un’armonia di silenzi e risate, lui dipendeva dalle sue cure e lei dalla sua presenza: suonava per lei un vecchio liuto dimenticato in soffitta e di tanto in tanto le spazzolava i rossi capelli quando lei leggeva. 

Spesso però il dolore al fianco si ripresentava e con quello la febbre e la frustrazione. Si agitava e metteva in soqquadro la casa imprecando. Altre volte invece si chiudeva in camera per giorni senza mai uscire. Quando usciva poggiava le labbra sulla fronte della ragazza, la fissava negli occhi e diceva “devi avere pazienza con me”.

Passarono settimane. Ormai, si parlavano con soli sguardi e baci. Negli occhi del sopravvissuto c’era la fiducia mescolata al terrore, come chi si trova di fronte alla prima persona che lo conosce veramente. Sulle labbra, un sorriso gentile dipinto con i colori della speranza.

Tuttavia, divenne impaziente: al sorgere del sole spariva dalle sue stanze e all’imbrunire rincasava, affaticato e irritato. Desiderava ritrovare la sua forza primordiale. Si rivolse alla giovane: “Dissetami, affinché possa rinascere”, e lei scoprì il seno affinché potesse bere di lei. Si attaccò e quando se ne separò, ai lati della bocca gocciolava latte e sangue, per la foga del nutrirsi. Lui riacquistava vigore mentre lei si prosciugava lentamente. Provò a respingerlo per proteggersi, ma vedeva la portata della sua sete e per amore finiva a concedergli ciò di cui aveva bisogno.

Quando la ferita si rimarginò, lui raccolse le sue cose. “Non posso rimanere. Non posso fare promesse: ogni giorno sono un uomo differente”. La salutò con dolcezza e montò a cavallo, lasciando sulla soglia la fanciulla, o meglio, quello che ne restò: un’ombra dal viso asciutto e il respiro corto. 

Si accorse di aver perso le forze per sempre. Ogni angolo le ricordava un gesto di serena quotidianità e d’affetto che lì era sbocciato. Non poteva più vivere tra le pareti di quella casa senza desiderare di incrociare lo sguardo del giovane mercenario.  

Andò in città.
Nella capitale venne accolta dal brulichio urbano: mercati affollati, bambini per le strade e artigiani al lavoro. 

Vagava tra i vicoli. Il suo sguardo incrociò quello di una dama che, dall’alto di un balcone, osservava la folla sottostante. La dama fu incuriosita dall’aspetto della giovane. Decise di invitarla nel palazzo. Le offrì dell’ananas a spicchi e parlarono per ore. Da quel giorno, divenne la servitrice della dama, e fu sempre al suo fianco. La giovane studiava la benefattrice: una nobile sposata a un ricco signore che godeva di tutti i lussi del regno. 

Tuttavia, il suo prestigio non poteva comprare ciò che più chiedeva al Cielo. La sentiva, infatti, pregare per ore nelle sue stanze. La fanciulla con cautela la interrogò e lei confessò di desiderare ardentemente un figlio, ma che ogni tentativo negli anni si era rivelato vano. Il senso di colpa si insinuò nel petto della giovane: possedeva quella salute e vitalità che potevano ospitare una vita ma non se ne serviva.

Dopo molte notti insonni passate a riflettere, decise di darle ciò che anelava; 
per gratitudine, per compassione, per umanità.

Prese una ciotola d’oro, separò le ginocchia e la riempì col suo sangue. 
La dama, inizialmente disgustata dall’offerta, ma desiderando un figlio più d’ogni altra cosa, ne ingoiò il contenuto tutto d’un fiato. Dopo nove mesi, diede luce un bellissimo bimbo. 

Nella camera, la fanciulla sedeva contro la parete tra la schiera di serve. 
Assisteva alla sfilata di nobili della zona che si affrettavano per congratularsi. 

Vedendo il padre sollevare il bimbo e la madre sorridente sulla sedia a dondolo, capì a cosa avesse rinunciato. 
Una forte nausea le scosse le viscere e le sentii le gambe cedere.

Il bimbo cresceva e, con lui, i suoi ciuffi di capelli rossi. I vecchi genitori della dama lo guardavano arricciando il naso, offesi da quel colore che né la dama né il marito avevano in testa. 

Insinuarono dubbi alla donna. Si sarebbe potuto dire che il bimbo non era suo. 

Per non parlare delle chiacchiere dei membri dell’alta società. La dama ne fu profondamente turbata. Fece fare una valigia veloce alla fidata fanciulla e venne spinta di nuovo in quei vicoli, anni dopo. 

Decise quindi di tornare alla vecchia locanda.

Un nobile passò dalla locanda. Lei lo servì e gli sorrise. 
L’alba in seguito al pernottamento si congedò. Dopo pochi giorni, tornò e rimase a lungo. Una sera, lei interruppe il suo lavoro e accettò di incontrarlo.

Gli versò il liquore più forte che teneva in cucina e insieme bevvero tutta la notte. 

Le raccontava di viaggi lontani, delle corti reali e dei suoi molteplici studi e arti. 
Ai suoi occhi divenne l’uomo più bello mai conosciuto.

Vide in lui un’intelligenza eccezionale e, di conseguenza, un dolore profondo.

Passeggiavano per i prati. Lei, dalla pelle grigia e cadaverica, con l’abito ormai largo. Lui, vestito di verde scuro, le porgeva il braccio e fumava tabacco ed erbe. Le faceva complimenti e lei arrossiva impercettibilmente. 
Diceva che il solo tenerle la mano gli faceva dimenticare le sue disgrazie. 

Poi partiva. E ogni volta che tornava dalla capitale le portava doni diversi. 
Le scrisse poesie e novelle: le lettere di devozione si accumulavano sul comò della locandiera. I suoi occhi erano cerchiati di nero. 

Di notte lo si sentiva rantolare, tormentato dai demoni della sua mente. 
Lei fuori dalla porta lo ascoltava. 
Lacrime le rigavano il viso ma si allontanava in silenzio.

Tutte le mattine, quando gli serviva il caffè a colazione, lui la supplicava allo stesso modo. Dammi il cuore, diceva, non ne ho uno mio. 

Lei mostrò di essere svuotata, di non essere all’altezza. Ma il nobile rispondeva
-ti ho scelto perché in te ho visto qualità che sfuggono agli altri.

Lei pensò che essere amati da un poeta fosse la cosa peggiore mai capitata. 
Era spaventata dalla bellezza delle promesse e delle parole. Troppo belle per chiunque. Si fidò dell’amore che lui le declamava. 

Fece un profondo respiro e pose la punta del pugnale sulla cassa toracica. 
Lo affondò. 
Separò le costole con le mani e lasciò che lui strappasse il cuore dal reticolo di arterie. Il sangue in grandi gocce colava sulla crostata.

Il poeta lo prese e lo soppesò con le mani. 
Il volto, una maschera di estasi e tormento. 

Si accorse che non gli bastava solo quello. Ma lei non poteva dargli altro. 
Prese un fiammifero e lo bruciò. Osservò le fiamme con un misto di fascinazione e disprezzo. 

Poi partì, senza più tornare.

Di Chiara Moneta


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