Dove il Vuoto Divora la Voce


Di Nicolò Poletti

Capitolo 1: Come in Alto, Così in Basso
Il senso di vuoto mi comprime le viscere mentre scendo. Mi lancio nell’oscurità con il cuore che batte furiosamente contro il petto e il respiro mozzato dall’adrenalina. Quei primi secondi di caduta sembrano durare un’eternità. L’abisso sotto di me, quella voragine nel deserto del Gobi, si trasforma in un vortice indistinto, senza più controllo. Precipito da solo in una bocca affamata, sono pronto a farmi divorare se è questo che serve. 

Dentro un sogno forgiato di acciaio e ambizione, la mia nave scavatrice; la  creatura che sferraglia e sviscera il pianeta, frutto del lavoro di Sara, è una moderna meraviglia ingegneristica. Non vola attraverso i cieli come le navi stellari nei libri di Bradbury, ma si addentra nelle profondità nascoste del nostro mondo, esplorando un oceano oscuro di terra e roccia. Ho dovuto abbandonare il cielo familiare per sondare il cuore silenzioso della Terra.

Ricordo un freddo pomeriggio d’autunno, quando “Le cronache marziane” si aprirono tra le mie mani come un portale verso altri mondi. Bradbury non raccontava soltanto di spazi sconfinati; intrecciava poesie sullo spirito umano, avvolto nel silenzio di mondi alieni. Mentre la macchina che Sara ha soprannominato il Verme scava più in profondità, vedo i riflessi di un racconto cosmico più grande. Ed io mi ci specchio nitidamente.

Sara, la mente ingegneristica dietro la mia ricerca, sorride quando le parlo delle mie teorie; la sua mente è ancorata al concreto, ma anche lei percepisce il richiamo delle profondità, quel sussurro che mi invita a esplorare l’ignoto, a cercare risposte dove altri vedono solo polvere, nient’altro che polvere. Lei mi guida dall’alto in questo limbo solitario, la sua voce è un’eco che risuona tra le pareti di metallo che ormai da giorni sono la mia dimora.

Ogni chilometro di terra è un capitolo che attende di essere scritto. Potrei trovare solo ombre, o forse storie dimenticate in cerca di voce. E se non riuscissi a tornare in superficie? Il viaggio stesso è la risposta. Procedo nonostante l’incertezza, guidato dal desiderio innato di scoprire, di conoscere. Senza questo… Meglio morire che smettere di comprendere.

Mentre la macchina ruggisce e vibra intorno a me, registro queste riflessioni nel mio diario. Queste parole sono il mio legame con il mondo che ho lasciato in superficie, un promemoria di quello che mi ha condotto qui sotto, dove il buio non è privo di luce.

Capitolo 2: Il Verme che Sviscera il Mondo
Sono immerso nelle viscere della Terra, sempre più avvolto dalla solitudine che solo queste profondità oscure possono offrire. La mia unica connessione con il mondo esterno è una voce che riecheggia attraverso la statica, un filo d’argento che mi lega alla realtà. Sara, dall’altra parte del filo, diventa la mia guida in questo infernale oceano di fiamme.

“Elia, come ti senti oggi? Sono esattamente due settimane che sei lì sotto.” La sua voce trapela dal ricevitore, limpida come l’acqua di sorgente, e in un istante riduco la distanza tra me e la superficie.

“Sto avanzando, Sara. La macchina lavora al di sopra delle aspettative, come se sapesse che ogni metro di terra scavata ci porta più vicini alla verità.” Le mie mani si muovono sui controlli di comando del Verme. È un trionfo della volontà umana sull’ambiente ostile, come un razzo che invece di puntare alle stelle, scava verso il centro del nostro pianeta.

“Siamo sul bordo di qualcosa di grande. Ricorda di documentare tutto. Non siamo solo ingegneri o scienziati; siamo i custodi della nuova storia.”

Ogni segnale che invio in superficie, ogni campione di roccia raccolto dalle appendici del Verme, ogni fotografia scattata, diventa parte di un dialogo più ampio con il mondo. Ricordo le notti trascorse a discutere le nostre teorie, avvolti nei fumi di caffè in qualche angolo buio dell’università di Torino, dove i sogni di mondi perduti e civiltà dimenticate sembravano appena un po’ meno fantastici. 

Le gallerie che percorro sono state intagliate da mani non umane, o così sembra. Strutture troppo precise, troppo intenzionali per essere state formate dalla natura. “Sara, queste gallerie… sono sicuro che non siamo i primi a percorrerle. C’è una perfezione qui, un ordine che sfida la casualità.”

“Sei sicuro di quello che vedi? Non lasciare che l’isolamento ti giochi brutti scherzi. Mantieni la mente aperta ma critica. Ci serve che tu rimanga lucido.”

Eppure, non posso ignorare l’evidenza che si accumula attorno a me. Mentre avanzo, la storia di questo luogo si srotola come una pergamena. Ogni metro che scavo riscrive la storia che credevamo di conoscere. Forse, in fondo a questo tunnel, troveremo risposte alle domande che non abbiamo mai nemmeno osato formulare.

Mentre il Verme continua il suo incessante grattare, in un coro di pietra e metallo, mi addentro più profondamente. Le ore si confondono, i giorni diventano irrilevanti. Ogni frammento di terra, ogni strato di roccia diventa un capitolo di un libro che sto cominciando a leggere solo ora.

E così, con Sara che veglia su di me dall’alto, continuo a scrivere queste note nel mio diario, un tentativo di dare un senso maggiore al viaggio. Sono parole scritte come un ponte verso il mondo che ho lasciato, e forse, come una mappa per coloro che un giorno vorranno seguire le mie tracce verso l’ignoto. Quando cerco di addormentarmi, un pensiero mi attanaglia stringendomi le viscere in una morsa. E se non riuscissi a risalire?

Capitolo 3: Disgregazione del Nomade
I giorni trascorrono nel ventre del Verme, dove mi sento stranamente al sicuro. La monotonia delle operazioni quotidiane mi dona una parvenza di stabilità. Scrivo sul mio diario, tracciando ogni pensiero, ogni osservazione, come un antidoto contro la solitudine. Ma improvvisamente, il contatto con Sara si interrompe. Il silenzio è assordante.

Senza la sua voce a guidarmi, mi ritrovo a fare i conti con i miei pensieri, che mi riportano indietro nel tempo. Ricordo il giorno in cui il Professor Silva mi contattò, colmo di entusiasmo. “Elia, ho ascoltato la tua teoria, e devi assolutamente venire in Cile. Dobbiamo lavorare insieme alla ricerca della verità.” mi disse con una voce carica di aspettative. Il viaggio verso l’osservatorio fu lungo, ma ogni chilometro aumentava il mio senso di eccitazione.

L’osservatorio era un posto solitario, come una torre eretta per scrutare i segreti del cosmo che tanto avidamente tiene per sé. Silva mi accolse come un pellegrino ai confini del sacro. “Preparati a testimoniare il mistero cosmico come mai prima d’ora.” mi disse, con un tono che trasformava ogni parola in un rito. Al suo fianco, il telescopio si ergeva come un monolite, un araldo che puntava non verso un dio, ma verso di noi. In quella notte, scrutando attraverso la lente che pareva dilatare il tempo stesso, osservai meglio quel pianeta errante insieme a Silva: una macchia oscura, un’ombra sul palcoscenico stellato, sfidando le leggi che avevamo presunto immutabili. Silva annotava febbrilmente, la sua mano tremante quasi incapace di tenere il passo con il flusso delle rivelazioni.

“Elia, Io credo davvero che i pianeti erranti non siano più mere teorie. Potrebbero essere la chiave per decifrare migrazioni planetarie di proporzioni epiche, questo pianeta potrebbe portarci a comprendere il fenomeno.” Ogni parola era carica di una promessa di rinnovamento.

Silva spiegò l’estensione della mia teoria che aveva approfondito attraverso i suoi studi: E se i pianeti erranti fossero corpi celesti che vagano attraverso lo spazio, senza legami gravitazionali stabili con una stella? Credo che questi pianeti semi-senzienti potrebbero avere la capacità di monitorare il loro stato di equilibrio. Quando l’ecosistema di un pianeta errante è in una fase di caos, entra in uno stato di letargo. Uscendo dalla sua orbita, si allontana dal sistema solare, causando il congelamento della superficie come mezzo di purificazione e vagando nel cosmo alla ricerca di un nuovo sistema stellare per rinascere in un nuovo ciclo di vita.

“Immagina,” disse Silva, “la Terra, in un passato remoto, potrebbe aver vissuto un ciclo simile. Se fosse così, potrebbe esserci stata una civiltà con tecnologie avanzate per sopravvivere durante questo letargo. Qualcosa che avrebbe permesso loro di rifugiarsi nel sottosuolo durante il congelamento e riemergere in un nuovo sistema solare, pronti a rigenerare il pianeta.”

Ma l’universo ci riservava una crudele ironia. Pochi giorni prima del nostro annuncio al mondo, la nostra scoperta, il nostro vagabondo celeste, iniziò a sfaldarsi sotto il tirannico moto gravitazionale di Giove e Saturno. Assistemmo impotenti al suo lento disgregarsi, i suoi frammenti che si disperdevano nel nulla come le ceneri di un sogno incenerito. Il collasso del pianeta errante fu un colpo brutale. Nei giorni seguenti, rimasi assorto davanti al telescopio, osservando i residui della catastrofe spaziale, sentendo il dolore di quella perdita come fosse personale. Il Professor Silva, sempre ottimista e carico di speranze, cercò di consolarmi. “Questa non è la fine, ma un nuovo inizio. In astronomia, ogni conclusione è semplicemente l’apertura di una nuova traccia, tienilo sempre a mente.”

Riflettendo su quelle parole, scelsi di tornare alla Terra, al suo cuore pulsante, per cercare risposte non più tra le costellazioni, ma tra le antiche rocce. Forse i segreti dei pianeti erranti non sono scritti solo tra le stelle, ma incisi nelle profondità. Decisi di continuare la ricerca cercando persone che, come me e Silva, inseguivano questa verità. Fu in Asia che mi raccontarono per la prima volta delle leggende nel deserto del Gobi, storie di una voragine che, attraverso una discesa, portava in luoghi dimenticati. Se la Terra è un pianeta errante, deve aver avuto un luogo dove le civiltà si sono rifugiate in passato. Capii che quella era la strada che dovevo percorrere.

Capitolo 4: La Sospensione dell’Io
Il Verme abbatte una parete restando sospeso nel vuoto. Tutto è silenzio. il nulla mi avvolge, mi trovo sospeso nello spazio di una camera sotterranea, sulla soglia dell’ignoto. È come se il tempo stesso si fosse arrestato. La velocità della discesa si è placata, e con essa, per un attimo, anche la mia paura. In questa sospensione, i miei pensieri vagano indietro nel tempo, a quel giorno in cui tutto ebbe inizio.

Era una notte incredibilmente buia, quando il cielo sembrava un oceano infinito, punteggiato di stelle. Quella notte della prima osservazione, vidi qualcosa di incredibile attraverso il telescopio: il pianeta errante, un vagabondo cosmico che passava nel nostro sistema solare. La sua traiettoria sfidava ogni legge conosciuta, eppure lì, davanti ai miei occhi, si muoveva con una grazia spettrale.

Ricordo l’euforia, l’emozione di una scoperta che avrebbe potuto riscrivere la nostra comprensione dell’universo. Formulai la mia teoria: questi pianeti erranti erano testimoni di migrazioni cosmiche di proporzioni epiche. Ma la teoria era solo l’inizio. Dovevo scoprire di più, capire il perché e il come. Tutto questo mi ha portato fin qui.

Ora, nelle profondità della Terra, confrontandomi con le scoperte che ho fatto finora, mi trovo a un passo dalla comprensione. La civiltà che ha costruito queste gallerie conosceva i segreti che io sto solo iniziando a scoprire.

Le pareti di questa vasta sala sono incise con simboli e immagini che raccontano storie di antichi cataclismi e rinascite. Ogni segno, ogni incisione è un pezzo di un puzzle universale. Da lontano, attraverso le finestre di osservazione, mentre il Verme rimane sospeso, posso intravedere ai piedi della camera un grande calendario circolare. Sembra una mappa con al centro il pianeta Terra. Un punto di connessione tra il passato e il presente.

Le immagini sembrano raccontare di epoche in cui i cieli erano diversi, e la Terra danzava attorno a soli lontani, non riesco a vederli chiaramente. Forse queste civiltà avevano assistito a eventi che noi possiamo solo immaginare, e avevano trovato modi per sopravvivere e prosperare nonostante le forze cosmiche che minacciavano di annientarle.

Mi siedo sul sedile di comando, il peso della conoscenza che sto scoprendo si fa sentire. La mia mente è in tumulto, combattuta tra la meraviglia e il timore di non poter mai condividere queste scoperte con il resto del mondo. La mia missione sembra chiara ora, più che mai: capire e trovare un modo per lasciare una traccia di tutto questo. Mentre la soglia che ho attraversato si allontana sempre di più, mi rendo conto di essere a un passo dalla comprensione, ma anche dal punto di non ritorno.

Capitolo 5: Errantia
Il Verme si schianta sul terreno, ultima eco di questa discesa. Non si torna indietro.

Pigio lentamente il pulsante di apertura dello sportello di uscita. Appoggio il primo piede su quella terra  che è di nessuno, ma che porta il peso della verità di tutti gli uomini. Mi trovo in una vasta sala, una specie di santuario del pianeta Terra. Al centro, illuminato dalla mia torcia, c’è il calendario cosmico che vedevo dall’alto, la testimonianza di una conoscenza astronomica avanzata. Questo calendario non solo mappa le stelle e i pianeti, ma anche le epoche in cui la Terra ha danzato attorno a diversi soli. È la prova che cercavo: la testimonianza che conferma la mia teoria.

I miei occhi viaggiano minuziosamente sulle incisioni delle pareti. Gli antichi avevano catturato scene di caos e di rinascita, di distruzione e di speranza. Vedo raffigurazioni di un pianeta che si allontana dal suo sole, poi un’altra del pianeta congelato e gli abitanti che si rifugiano sotto terra. C’è un’intera sezione dedicata alla storia di questa civiltà che abitava il nostro pianeta. Un popolo che aveva raggiunto vette tecnologiche impressionanti, che aveva compreso i cicli naturali del pianeta.

Proseguo verso la fine della grande sala. Davanti a me si erge qualcosa che nella sua immensità non riuscivo a vedere e comprendere in lontananza. È un dispositivo complesso fatto di materiali che non riconosco, che sembra essere collegato direttamente al cuore del pianeta, come le radici di un albero della vita forse usato per rigenerare il pianeta durante periodi di instabilità cosmica. Questa civiltà conosceva il caos e si era preparata? Forse usavano la macchina per sopravvivere, per aspettare che il pianeta trovasse una nuova stabilità nel cosmo e infine, per rigenerarlo prima di estinguersi.

Cammino lentamente verso la macchina, osservando ogni dettaglio. È maestosa, imponente, e sembra emanare una sorta di energia pulsante. Le incisioni attorno ad essa descrivono il suo funzionamento: come attivarla, come regolare i processi di terraformazione per adattarli alle nuove condizioni ambientali. Loro avevano previsto tutto, avevano pensato a ogni possibile scenario.

Mi siedo a terra, con l’immenso peso della verità tra le mani e l’impossibilità di condividerlo che mi stringe il respiro, il Verme non è più in grado di scavare dopo l’impatto e il calore comincia a soffocarmi. 

Ho trovato ciò che cercavo. Questo sarà il mio lascito, una mappa per chi verrà dopo di me. Se un giorno l’umanità cercherà rifugio all’interno del pianeta, forse qualcuno troverà queste parole e potrà comprendere la verità.

Vorrei solo poter sentire le parole uscire dalla mia bocca ancora una volta, ma qui il suono non si propaga, il vuoto la divora prima che possa sentirla. Ora, l’unico eco che risuonerà nel vuoto del pianeta è tinto di inchiostro. In attesa che qualcuno possa ascoltarlo.

Di Nicolò Poletti



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