EX0184


Le chiavi caddero a terra con un sonoro tintinnio. “Cazzo”, sibilò chinandosi. 

Con il braccio e la mano sinistra teneva precariamente un sacchetto di carta color crema, dalla cui cima spuntavano verdi ciuffi che profumavano di carote. 

Con il mignolo afferrò l’anello in acciaio che teneva unite le chiavi e trionfante si sollevò da terra, bilanciando il sacchetto. 

Infilò le chiavi nella toppa, le girò e con la punta del piede spinse la porta, socchiudendola. 

Un braccio gli si avvolse attorno al collo. Un urlo strozzato raggiunse le sue orecchie, sentì il fiato mancargli. Il sacchetto cadde a terra, frutta e verdura rotolarono a terra, un paio di arance finirono in una pozzanghera sporca. 

“È il primo del mese, James”. Un ometto alto e magro era comparso alla sua sinistra. Lo guardò con occhi velati a causa della mancanza d’aria. Aveva il capo calvo, folte sopracciglia grigie e un paio di baffi dalla forma a manubrio. 

James sibilò qualcosa, l’ometto sollevò una mano e il braccio stretto attorno alla sua gola scomparve. 

“È già il primo? Non me n’ero accorto-” il braccio tornò a mozzargli il fiato.   

“Naturalmente… hai i nostri soldi, James?” Come un forsennato iniziò a scuotere la testa, per un attimo l’omaccione che lo teneva fermo perse la presa, per poi riacquistarla secondi dopo, ancora più ferrea di prima. 

“Lo immaginavamo. Sono tre mesi che rimandi e il Capo ha perso la pazienza”. 

Era buio quando aprì gli occhi. Una luce proveniva dall’alto. Era seduto su una scomoda sedia, non c’era nessuno con lui, eppure sentiva ancora il tocco dei suoi assalitori. Una fitta di dolore lo colpì al ventre, strinse le mani legate dietro la schiena da una corda spessa e pungente. Non c’era sangue sui suoi abiti e la sua carne era intatta. Rantolò quando una nuova fitta lo colpì, arricciò le dita dei piedi e serrò gli occhi. Qualcosa gli bloccava la bocca, toccò il materiale con la lingua, era ruvido e sapeva di sale. Respirò dal naso, l’odore del mare gli invase le narici. 

Alle sue spalle una porta si aprì e uno spiraglio illuminò la stanza. Ci fu il rumore di tre passi esatti, poi il suono di un interruttore che scatta. Serrò le palpebre quando la luce minacciò di bruciargli gli occhi.
“Sei sveglio?” L’ometto di pochi attimi prima era accovacciato davanti a lui, teneva i gomiti appoggiati sulle ginocchia e un paio di occhialetti rotondi era appoggiato sulla punta del naso. Strinse le labbra attorno al bavaglio in un tentativo di rispondere e l’ometto sospirò. Allungò una mano coperta da un guanto di pelle nera e con uno strattone deciso sciolse la fascia, che scivolò sulle sue gambe. 

“Dormo a occhi aperti”. L’ironia era palpabile e ciò gli fece guadagnare l’ennesima percossa, uno schiaffo in viso.

“Sei un caso raro, te lo concedo. Con tutti quei colpi non dovresti essere così arrogante, eppure eccoti qui, nemmeno un graffio. Igor ci è andato leggero con te”. L’ometto camminava avanti e indietro per la stanza, conciato com’era sembrava uno spaventapasseri, pantaloni e camicia larghi, gambe così secche da sembrare stecchi, spalle appuntite e zigomi scavati. 

“Come ti ho già detto il capo è molto arrabbiato-”. 

“Sa perché lo faccio,” l’ennesimo schiaffo lo colpì. 

“Non interrompermi!” L’ometto si sistemò la camicia, poi riprese a camminare, armeggiando con l’orlo dei pantaloni. James lo seguiva con lo sguardo, stringeva e apriva le mani, le torceva e strattonava, ma le corde che lo tenevano stretto non volevano cedere. 

“Il Capo si è stancato di aspettare. Troverà un altro modo per recuperare i soldi che gli devi. Svuoteremo casa tua, sono sicuro che troveremo qualcosa di valore”. Commentò l’ometto tra sé e sé.  

“Sta lontano da casa mia!” Ringhiò James, facendo dondolare pericolosamente la sedia, una delle gambe sembrava più cedevole delle altre. L’ometto sollevò le sopracciglia, “quindi c’è qualcosa di valore. Forse hai i soldi che devi al Capo… no, in quel caso avresti ripagato il tuo debito, allora cosa?” James strinse le labbra in una linea sottile. L’ometto butto in aria le spalle. 

“Non importa, lo scopriremo ugualmente”. James aprì la bocca e un colpo di proiettile sibilò nell’aria. L’ometto gli aveva puntato contro una pistola. 

Abbassò lo sguardo ma non trovò fori sul proprio corpo. Il suo assassino sembrava altrettanto stupido, prese nuovamente la mira e sparò ancora. James sentì il proiettile colpirlo, un peso all’altezza del cuore. Non provò dolore. Guardò in basso, niente sangue. 

“Perché diavolo non muori!?” Un colpo, un altro e un altro ancora, fino a quando la pistola non s’inceppò. James fissava l’ometto, era disorientato, continuava a guardare in basso, il corpo che doveva essere crivellato di colpi non portava nemmeno un graffio, unica testimone dell’attacco era la sua maglietta forata in più punti. 

L’ometto gettò la pistola a terra poi si avvicinò a James. Afferrò la maglietta e infilando le dita nei fori la strappò di netto, poi passò le fredde dita scheletriche sulla pelle perfettamente liscia. 

L’ometto lo spinse all’indietro e la sedia cedette sotto il suo peso, facendo finire entrambi a terra. James, più giovane e agile scattò in piedi e saltellando riuscì a liberarsi dalla spessa corda, sfilacciata per colpa delle pallottole. Corse in avanti e afferrò la pistola, puntandola contro l’ometto, che lentamente si era rimesso in piedi. 

“Spara pure! È evidente che non funziona!” Gridò rabbioso, spalancando le braccia. James sparò un unico colpo, l’unico rimasto. Il proiettile viaggiò in aria e colpì l’ometto dritto in centro al petto. Un fiotto di sangue schizzò dal suo petto e lui cadde a terra. 

La pistola cadde dalle mani di James che si portò le mani alla bocca, poi, corse verso la porta. Sentiva il cuore martellargli nelle orecchie, o forse erano i passi di Igor che veniva a prenderlo dopo aver trovato il corpo del suo capo. 

Uscì all’aria aperta e scoprì di trovarsi sul porto, l’aria notturna gli solleticò la pelle scoperta e James iniziò a correre, fuggendo verso la città.

“Non so come sia successo! Ha insistito per parlare da solo con lui! Devi credermi, non so come sia riuscito a scappare!” Igor guaiva, un cane terrorizzato dal padrone. Un’ombra lo sovrastava per intero. Il Capo era fermo sul ciglio della porta. 

“Non ti avevo forse detto di non perderlo d’occhio?” Domandò una voce baritonale. Igor annuì, stringendo insieme le mani le cui dita tremavano convulsamente. 

“S-si, ma lui mi ha detto di lasciarli soli!” Piagnucolò tenendo lo sguardo basso. 

“E tu a chi ubbidisci? A me o a lui?” Domandò indicando il cadavere a terra, lo punzecchiò con la punta del piede e il corpo si piegò su sé stesso. 

“A te!” La risposta non tardò. 

“Allora portami a casa sua. Abbiamo delle cose da sistemare”. 

Corse fino a quando vide il sole sorgere oltre gli alti palazzi. Non sentiva più i muscoli delle gambe e il cuore gli batteva forte nel petto eppure, non riusciva a rallentare la corsa. 

Era più che certo che qualcuno lo stesse seguendo. Non aveva il coraggio di guardarsi alle spalle, temeva quello che avrebbe potuto trovare. 

Aveva subito capito di non poter tornare a casa, avrebbe rischiato di portare lì anche gli uomini del Capo e non poteva rischiare. Continuò a correre  fino a quando raggiunse la periferia della città e quando le sue gambe diedero segni di cedimento fu costretto a fermarsi. 

Si sedette su un basso muretto di cemento, rivolse il capo all’indietro e prese due profondi respiri. Ora che era immobile, il corpo tremava, non aveva più alcun controllo, i suoi muscoli erano scossi da spasmi e il suo petto doleva terribilmente. Prese un respiro e si ritrovò a tossire, più respirava e più tossiva. Chiuse gli occhi e iniziò a respirare dal naso, sentiva i polmoni bruciare ma non tossiva più. 

Quando si fu calmato e il suo corpo smise di tremare si trovò a sollevare gli occhi. 

Davanti a lui, dall’altra parte della strada c’era una vecchia casa diroccata. Il tetto aveva ceduto e la facciata era coperta di graffiti, eppure la riconobbe egualmente. 

Da bambino era solito giocare nel giardino davanti a quella casa. All’epoca c’era un grande pioppo e su uno dei rami erano appese due altalene. 

Si guardò attorno e quando realizzò che nessuno si era accorto della sua presenza attraversò la strada. 

Il vialetto che portava all’ingresso era coperto di erbacce, i bianchi scalini che davano sul portico avevano ceduto, cadendo a terra uno sopra all’altro. Si avvicinò alla porta sfondata, poggiò la mano sulla maniglia e l’ingresso si aprì cigolando. Dopo essersi guardato un’ultima volta alle spalle entrò in casa. Con qualche difficoltà richiuse la porta, piombando in una semi oscurità. 

La casa non era molto differente dall’ultima volta in cui l’aveva vista, ora però rimaneva solamente la sua carcassa, niente mobili o arredi. Camminò per quello che un tempo era il suo salotto, entrò nella cucina e a terra trovò solamente un coltello arrugginito. Lo raccolse e lo tenne stretto, era un’arma rudimentale ma sempre un’arma. 

Le scale che portavano al piano superiore non esistevano più, così come la sua possibilità di tornare in quella che ricordava essere camera sua. 

Con la coda dell’occhio vide lo spazio che un tempo era il bagno, si avvicinò di qualche passo, nel compiere l’ennesimo inciampò in una piastrella leggermente sollevata, cadde a terra e rischiò di tagliarsi con il coltello.  

Si tirò a sedere e guardò a terra, attratto dalla piastrella che si era ulteriormente sollevata, rivelando un pozzo scuro. Infilò le dita nel foro e sollevò la mattonella, buttandola poco lontano. Si chinò sulle braccia e sbirciò all’interno del buco, la luce era poca ma fu certo di vedere degli scalini. Infilò il braccio e con la mano iniziò a tastare i suoi dintorni, trovò un primo scalino, un secondo e un terzo. 

Tolse il braccio dal buco e iniziò a strattonare le altre mattonelle, queste si mossero leggermente ma non si spostarono. Afferrò il coltello scivolato poco lontano e iniziò a colpire il cemento che le teneva unite, a ogni colpo una pioggia di polvere e detriti gli sporcò le mani. 

Rimosse la prima piastrella, la seconda e la terza, fino a creare un foro abbastanza grande da permettere al suo corpo di passare. 

Prima di scendere gli scalini si fermò qualche istante. Non ricordava di un passaggio simile, si ricordava di una soffitta ma non di un sotterraneo. Strinse il coltello con più forza. 

“Non volevano che qualcuno lo trovasse”. Commentò tra sé e sé. Prendendo un grosso respiro iniziò a scendere le scale. Si ritrovò avvolto dall’oscurità, un lieve bagliore proveniva da sopra la sua testa, era l’unica cosa che gli impediva di cadere rovinosamente a terra. Quando raggiunse la fine delle scale rischiò di inciampare ma riuscì miracolosamente a rimanere in piedi. Infilò il coltello nella tasca dei pantaloni e, con le braccia tese davanti al corpo iniziò a tastare le pareti attorno a sé. 

Il muro era ruvido e più di una volta rischiò di tagliarsi i polpastrelli. 

Fu rallegrato quando dopo alcuni istanti le sue dita trovarono un interruttore. La lampadina che si trovava al centro della stanza si accese per pochi secondi, giusto il tempo di vedere una porta, poi si spense. 

James sospirò. “Ovviamente…” Si avvicinò alla parete dove aveva visto la porta e dopo qualche tentativo riuscì a stringere la maniglia, abbassandola con uno scatto. La serratura scattò e la porta si aprì, rivelando uno stanza fiocamente illuminata. 

Sollevò le sopracciglia e guardò il soffitto dove una luce al neon brillava fredda. Si guardò attorno e rabbrividì nello scoprire che quel posto gli era familiare. 

Non ricordava di essere mai sceso in un sotterraneo eppure gli infantili disegni appesi a quelle candide pareti gli appartenevano. Studiò le pitture e un sorriso gli nacque sulle labbra. I disegni raffiguravano due bambini che giocavano nel giardino davanti alla casa. I due correvano, calciavano un pallone o dondolavano sulle altalene. 

Tutti i disegni erano firmati allo stesso modo: James e Alec Rogers. 

Non c’era molto altro nella stanza, un vecchio lettino ospedaliero e un’umida scatola di cartone. Con un calcio scostò il lettino, che finì a terra con un tonfo metallico. James sobbalzò e corse immediatamente a rimetterlo in piedi, guardandosi attorno come se si aspettasse di essere stato visto da qualcuno. 

Scosse il capo e si avvicinò alla scatola. Conteneva dei documenti, fogli bianchi e alcuni disegni. Iniziò a rovistare al suo interno, raccolse alcuni disegni e li infilò in tasca, poi studiò gli altri fogli. C’erano alcune bollette non pagate che buttò immediatamente a terra, vari appunti di cui riconobbe la scrittura, non riuscendo però ad associarla a quella dei suoi genitori. Infine, sul fondo della scatola c’era una cartellina bianca con scritta una serie di lettere e numeri, EX0184. Confuso sollevò un sopracciglio, sfilò l’elastico che teneva chiusa la cartellina e l’aprì. All’interno c’erano due plichi di fogli. Li poggiò entrambi a terra poi li studiò. Entrambi riportavano le fotografie di due bambini, riconobbe sé stesso e suo fratello. In alcune foto erano stesi su lettini ospedalieri, in altre avevano delle flebo attaccate alle braccia. Sopra e sotto le foto c’erano scritte delle parole, a volte intere frasi in una lingua che però non riusciva a comprendere, a primo sguardo sembrava cirillico, ma non avrebbe saputo dirlo con certezza. 

Di quei fogli riuscì a comprendere solamente la spunta vedere sulla sua foto e la X rossa su quella di suo fratello. Un successo e un fallimento. 

Quando giunse davanti a casa di James trovò la porta socchiusa. Igor stava al suo fianco, teneva la schiena dritta ma le sue ginocchia tremavano. Gli poggiò una mano sulla spalla, scuotendolo delicatamente. “Hai fatto un buon lavoro”. Igor sorrise, gli occhi gli si riempirono di lacrime. Continuò a scuoterlo, ora con più forza, tenendo lo sguardo fisso sull’ingresso. “Avresti potuto essere molto più utile”. Igor si strinse nelle spalle e immediatamente chinò il capo, annuendo. “Ma vedremo di trovare qualcosa per tenerti occupato”. Igor smise di tremare, annuendo con vigore. “Ora sparisci”. Igor corse via. 

Lo seguì con lo sguardo fino a quando lo vide sparire dietro a un alto edificio. 

Entrò in casa senza fare il minimo rumore. Chiuse la porta e si guardò attorno. Si ritrovò in un piccolo e spoglio corridoio, a terra c’erano solamente un paio di scarpe. 

“James?” Chiamò una voce. La seguì come fosse il canto di una sirena e presto si trovò nel salotto di quello squallido appartamento. 

Un ragazzo in sedia a rotelle stava fermo davanti a una bassa finestra, aveva corti capelli scuri e occhi chiari cerchiati da occhiaie rosse. Un maglietta copriva le spalle gracili e le braccia sottili. 

“Tu non sei mio fratello”. Disse il ragazzino, intrecciando le dita in grembo. 

“No, ma lui mi ha molto parlato di te, Alec”. Rispose il Capo, facendo qualche passo avanti. 

“Lui invece non mi ha mai parlato di te. Chi sei?” Alec lo guardava con occhi ridotti a due fessure. Il Capo non riusciva a capire se fosse infuriato o spaventato dalla sua presenza. 

“Il mio nome è Diggory,” e gli tese la mano destra. Alec la guardò per qualche secondo poi, si decise a stringerla. La mano del Capo era calda e robusta, probabilmente avrebbe potuto spezzargli le dita se avesse stretto con abbastanza forza. 

“E cosa fai in casa mia, Diggory?” Domandò Alec, ritraendo la mano. Il Capo sospirò, parve affranto. 

“Sono qui per parlare di tuo fratello”. 

James uscì di casa correndo. Aveva ridotto quei documenti in brandelli, alcuni pezzi di carta erano rimasti attaccati ai suoi abiti e il vento ora li stava portando via. 

Corse fino a quando non raggiunse casa propria. 

Il vecchio palazzo fatiscente era ancora in piedi. La spesa che gli era caduta era stata raccolta da qualcuno. 

Attraversò il vicolo e si avvicinò all’ingresso. La porta era stata chiusa e sentiva delle voci provenire dall’interno. Infilò la mano in tasca e strinse il coltello fra le dita. 

Lentamente abbassò la maniglia ed entrò in casa. Le chiacchiere continuavano, chiunque fosse insieme a suo fratello non si era accorto di lui. Superò il corridoio e si fermò all’ingresso del salotto. Un uomo coperto di bianco stava in piedi davanti a suo fratello, parlava con tono calmo e con mani dai movimenti aggraziati, gli stava spiegando che cosa James aveva fatto.
“Cerca di capirmi. Ha ucciso uno dei miei uomini,” disse chinandosi sulle ginocchia. Ora che l’imponente figura non gli ostruiva la vista Alec vide suo fratello in piedi davanti all’ingresso. James si portò un dito alle labbra e Alec annuì impercettibilmente. 

“Forse non avresti dovuto farlo rapire,” e a ogni parola James faceva un passo avanti, i suoi movimenti nascosti dalla voce di suo fratello.  Diggory sollevò una mano, avvolgendo le dita attorno al collo di Alec, stringendo la presa a ogni respiro del giovane. 

“So che-” non terminò la frase perché James gli piantò il coltello al centro della schiena, uno schiocco riempì l’aria seguito da un rantolo di dolore. L’imponente corpo cadde a terra e il coltello rimase conficcato nella sua schiena. 

James si precipitò immediatamente dal fratello, inginocchiandosi davanti a lui. 

“Stai bene?” Domandò, prendendogli il viso fra le mani. Alec annuì, tenendo però gli occhi fissi sul corpo a terra. 

“Che è successo?” Lui scosse il capo, spingendo la carrozzella lontano dal cadavere, il cui sangue stava macchiando il pavimento. 

“Un casino fratellino… ma forse per un po’ non dovremo più preoccuparci”.  

Giorgia Taeggi
giorgiataeggi.studia@mohole.it


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *