Kyle arrivò alla casetta sull’albero correndo come una saetta, salì i gradini e trovò i suoi amici seduti a gambe incrociate al centro dello spazio. I loro volti erano l’immagine della paura, esattamente come il suo. Si sedette a gambe incrociate di fianco a loro. In un primo momento stettero in silenzio, si guardarono e basta.
“È successo anche a voi?” chiese Kyle, la voce che tremava.
Mary, che aveva una maglietta a maniche lunghe nera, guardò le braccia di Kyle e scosse la testa.
“Non so cosa sia successo a te, ma di sicuro non ciò che è successo a me.”
Si arrotolò le maniche, Kyle per poco non svenne quando vide i due enormi squarci sulle braccia dell’amica.
“Oh mio dio, Mary.” Esclamò, sconvolto.
Avvicinò le mani con cautela, chiedendole silenziosamente il permesso. Lei annuì, quindi Kyle prese il suo braccio con delicatezza e iniziò a esaminare le ferite, accigliandosi man mano che i suoi sospetti trovavano conferma.
“Cosa cavolo è successo?” chiese in un bisbiglio.
Mary raccontò tutto, e man mano che il suo racconto proseguiva, i volti dei suoi amici si accigliavano sempre di più. Presto, tutti loro ebbero raccontato ciò che gli era successo quella mattina. Jennifer aveva le lacrime agli occhi, così come Mary, mentre Kyle e Roan guardavano un punto fisso di fronte a loro, ma senza vedere niente per davvero.
“Che cosa ci sta succedendo?” piagnucolò Jennifer, abbracciandosi le ginocchia e poggiandovi sopra il mento.
Ci pensarono tutti per qualche minuto, cercarono una spiegazione plausibile con gli avvenimenti di quella mattina. Fu Kyle a trovare l’interruttore che accese la lampadina, picchiò le mani talmente forte tra di loro quando l’illuminazione arrivò che i suoi amici saltarono in aria.
“La leggenda.” Disse semplicemente.
Inizialmente, i suoi amici lo guardarono straniti, poi i loro lineamenti si tinsero di comprensione e iniziarono a scuotere la testa in modo quasi meccanico.
“No, non può essere vero.” Sussurrò Mary, più a sé stessa che agli altri.
“È l’unica spiegazione logica.” Continuò Kyle.
“È folle.” Sbottò Roan.
“È folle, eppure proprio perché è folle ha perfettamente senso.” Concluse Jennifer, la voce triste.
Calò nuovamente il silenzio, nell’aria si sentiva solo il flusso della paura che i corpi dei ragazzi non riuscivano a contenere, poiché ormai occupati da qualcosa di ben peggiore.
***
LA SERA PRIMA
I fari di una macchina scalfirono il buio della notte, illuminando gli spigolosi tronchi degli alberi ai margini del bosco. Kyle, Jennifer, Mary e Roan ne uscirono, barcollanti, nelle mani reggevano bottiglie di alcolici mezze vuote, ridacchiavano in preda all’ebrezza.
Si incamminarono tra gli alberi, la camminata sconnessa, inciamparono nelle radici e nei sassi che ricoprivano il suolo, alcune delle bottiglie scivolarono dalle mani, frantumandosi e mischiandosi con il terreno.
Presto gli alberi si diradarono come una cornice naturale attorno a un’alta cascata, che sfociava in un piccolo laghetto.
“Ed ecco a voi, le Cascate dell’Ade!” sbiascicò Kyle con tono alcolico, gesticolando in modo enfatico e quasi teatrale.
I suoi amici ridacchiarono, si levarono le scarpe e arrotolarono i pantaloni lungo il polpaccio, poi si immersero nel laghetto fino alle ginocchia.
Kyle estrasse un coltellino svizzero, si tagliò il palmo della mano e lo passò al resto del gruppo.
Quando tutti si furono tagliati il palmo della mano, lo aprirono e girarono verso il basso, in modo che le gocce di sangue cadessero in acqua. Una folata di vento ululò tra il fogliame, coprendo le loro voci mentre il rosso del sangue si mischiava alla limpidezza dell’acqua, la brezza si infranse sui volti dei ragazzi, facendoli chiudere gli occhi mentre le loro labbra si muovevano all’unisono.
Quando le loro bocche si serrarono, e i loro palmi si richiusero, così cessò anche il vento, e il silenzio riempì il buio di quella notte d’estate. Il silenzio venne interrotto dalle loro risate sonore, mentre piano piano uscirono dall’acqua e recuperarono le proprie scarpe. Si allontanarono tra gli alberi, canticchiando canzoni stonate.
Se ne andarono troppo presto, non notarono il vortice che si era creato sulla superficie dello stagno, né la luce rossa che lo scalfiva.
***
Le Cascate dell’Ade sono luogo di mistero e di peccato. Dietro le sue acque furono sigillate le porte dell’inferno, imprigionando il diavolo al suo interno.
Chiunque egli voglia evocare, una sola cosa dovrà fare, tre volte il suo nome pronunciare, e il proprio sangue nelle acque versare.
Ma badate, o voi che il diavolo evocate, le vostre anime in eterno saranno dannate.
Mary lesse a voce bassa quelle parole da un vecchio libro polveroso, appoggiata al muro in mezzo a un corridoio di scaffali della biblioteca della città.
Kyle, Roan e Jennifer camminavano nervosamente davanti a lei.
“Puoi leggerle di nuovo?” chiese Roan.
Mary le lesse di nuovo, e di nuovo, e di nuovo, e più le leggeva, più il nervosismo crebbe all’interno del gruppo.
“Le vostre anime in eterno saranno dannate.” Sussurrò Kyle, attirando l’attenzione di tutti.
Alzò lo sguardo, incrociando quello dei suoi amici.
“Ragazzi, non capite? Siamo stati noi a smuovere le porte dell’inferno ieri notte, noi abbiamo liberato il diavolo, sono le nostre anime quelle dannate.” Concluse, come se fosse la cosa più normale del mondo.
Mary chiuse il tomo che reggeva tra le mani, scuotendo la testa.
“No, no io mi rifiuto di crederci.”
“E che altra spiegazione vuoi che ci sia? Io non vedo il mio riflesso allo specchio, Jennifer cammina sui soffitti, tu hai mutilato le tue stesse braccia e non te ne sei neanche accorta e Roan sente continuamente il richiamo delle Cascate.” Urlò in un sussurro, così che nessun altro all’interno della biblioteca sentisse quella spiegazione ai limiti della follia.
Roan sbuffò sonoramente, si appoggiò contro una delle librerie e poggiò la testa contro il legno.
“C’è scritto nient’altro?” chiese.
Mary voltò la pagina, riprese a leggere.
La maledizione spezzare non potrai, se sveglio non resterai.
Solo quando vulnerabile sarai, i demoni entrare lascerai.
Resta sveglio, perché se dormirai, della tua mente padrone più non sarai.
I ragazzi cercarono di non lasciar trapelare sui loro volti il terrore che quelle parole avevano suscitato in loro.
“Quindi, dobbiamo restare svegli? Non dormiremo mai più?” chiese Jennifer, senza preoccuparsi di nascondere il panico nella sua voce.
“Credo che non abbiamo alternativa.” Rispose Kyle, nel tono era evidente la rassegnazione.
Si guardarono tra di loro, capirono ben presto che le loro vite non sarebbero mai più state le stesse.
Roan fu il primo a spezzare il silenzio.
“Bene, e allora resteremo svegli.”
***
Quella sera, dopo aver fatto rifornimento industriale di caffè di ogni tipo, viveri e beni essenziali per sopravvivere almeno una settimana in un deserto, i quattro amici si ritrovarono alla casetta sull’albero. Chiusero la botola che faceva da entrata, scalciando via la scala che cadde al suolo, sigillarono ogni finestra con delle assi di legno accatastate in un angolo della stanza, sistemarono tutto ciò che avevano comprato e ognuno di loro si preparò un thermos di caffè.
Restarono in religioso silenzio, interrotto solo dai rumori dei loro sorsi quando bevevano un sorso di caffè.
Qualche ora più tardi, i ragazzi sembravano sull’orlo di un esaurimento nervoso.
Kyle era appoggiato al muro, continuava a picchiare la testa sul legno, forte, come se il dolore lo aiutasse a restare sveglio nonostante la quantità di caffeina che aveva in corpo.
“Ragazzi, state bene?” sbiascicò le parole.
“Benissimo.” Rispose Roan in un sussurro, da qualche parte della stanza.
“Una meraviglia.” Aggiunse la voce di Mary.
Quando la risposta di Jennifer non arrivò, il sonno che invadeva i corpi dei ragazzi si dissolse.
“Jennifer? Stai bene?” la voce di Mary tremava.
Si avvicinarono gli uni agli altri, come a cercare sostegno a vicenda.
La videro lì, in un angolo della stanza, seduta contro il muro, le gambe flosce davanti a lei, le braccia molli lungo i fianchi, il respiro pesante e regolare, gli occhi chiusi.
“Oh, no!” imprecò Kyle, fiondandosi sull’amica e iniziando a scrollarla. “Aiutatemi, dobbiamo svegliarla.” La sua voce era disperata.
Roan e Mary si avvicinarono di scatto, iniziarono a scrollare il corpo di Jennifer, i suoi occhi non accennavano ad aprirsi. La stavano scrollando da diversi minuti, urlando il suo nome come un mantra, quando gli occhi della ragazza si spalancarono.
Smisero di scuoterla, un sospiro di sollievo lasciò i loro corpi.
“Jennifer, ci hai spaventati a morte.” Sussurrò Roan.
La testa di Jennifer scattò verso di loro, facendoli indietreggiare di colpo, il più lontano possibile da lei. I suoi occhi erano due macchie nere profonde, dai lati colava un liquido nero grumoso come lacrime di morte. La sua bocca si allargò lentamente in un sorriso disumano, mostrano denti ricoperti da un liquido nero come quello che le usciva dagli occhi. Si alzò lentamente, i suoi arti si muovevano a scatti irregolari e spigolosi. Quando fu in piedi, piegò la testa di lato, il sorriso non aveva ancora lasciato il suo volto.
“Cazzo.” Fu tutto ciò che i ragazzi riuscirono a pronunciare, in coro, prima che il corpo della loro amica scattasse per aria e attraversasse la stanza con un unico balzo.
Si spostarono appena in tempo, pochi secondi prima che atterrasse nel punto esatto in cui si trovavano poco prima. Dalla bocca di Jennifer si sprigionò un grido infernale, si girò lentamente, la sua mascella si allargava sempre di più fino quasi a raggiungere la parte più bassa del suo petto.
“Jennifer, siamo noi!” urlò Roan, cercando di sovrastare il grido che usciva dal corpo esile della ragazza. L’istinto gli disse di muovere un passo verso di lei.
“Roan, che cazzo fai?” urlò Mary terrorizzata.
Jennifer scagliò Roan dall’altra parte della stanza, il ragazzo collassò al suolo, svenuto.
“Oh no, no, no, no, no.” Imprecò Kyle, avvicinandosi all’amico e iniziando a scuoterlo. “Roan svegliati cazzo!” urlava, disperato.
Era talmente in preda al panico per l’amico incosciente sul pavimento, che non si accorse dell’urlo efferato dietro di sé, un urlo umano.
Roan riaprì gli occhi, due pozzi neri come quelli di Jennifer. La sua mano scattò sulla gola di Kyle, stringendola. Kyle tossì, iniziò a colpire il braccio di Roan, che sembrava fatto d’acciaio mentre la sua presa si stringeva sempre di più. Fu una ginocchiata dritta sulla faccia dell’amico che gli permise di liberarsi, scattò indietro e si allontanò dal secondo demone nella stanza. Tossì per alcuni attimi, cercando di recuperare la voce.
“Mary, dobbiamo… dobbiamo andarcene da qui.” Sibilò, la voce strozzata.
La risposta di Mary non arrivò, i peli sulle braccia di Kyle si rizzarono a quel silenzio.
Il suo sguardo scattò in aria, la scena che vide gli fece salire un conato di vomito alla gola.
Jennifer era china sul corpo di Mary, le mani immerse negli squarci sulle braccia della ragazza, dai quali sgorgava un fiume di sangue nero grumoso e maleodorante, il resto del suo corpo era in preda a convulsioni violente. Kyle indietreggiò, ritrovandosi intrappolato contro la parete di fondo della stanza. Le convulsioni di Mary si bloccarono, Jennifer si resse in piedi, Roan gli fu subito a fianco.
Il corpo di Mary fluttuò per aria e si posò in piedi di fianco agli altri due, gli occhi neri come tenebre.
Gli sguardi dei tre demoni erano fissi su Kyle, che ormai non riusciva a sentire nulla se non il panico che lo invadeva. Accadde tutto velocemente, un secondo prima i corpi dei suoi amici erano lontani, un secondo dopo erano di fronte a lui, le bocche spalancate in maniera disumana mentre un grido demoniaco si infranse sul volto di Kyle. Si prese la testa tra le mani, urlando, in preda a dolore sia fisico che emotivo, poi si sentì svenire.
KYLE
Spalancai gli occhi e scattai seduto. Ero nel mio letto, dalle persiane filtravano le prime luci del mattino.
“Oh, no, cazzo!” imprecai.
Scattai in piedi, mi vestii e presi il cellulare. Scrissi un messaggio sul gruppo, dicendo di vederci alla casetta sull’albero.
Feci per uscire dalla stanza ma mi bloccai. Il mio riflesso nello specchio era tornato, e se non fosse stato per un altro inquietante dettaglio, probabilmente ne sarei stato felice.
Ma non lo ero, perché avrei mille volte preferito non rivedere il mio riflesso, piuttosto che rivederlo con il mio viso e la mia pelle ricoperti di sangue secco.
“Che cosa ho fatto?” Un sussurro strozzato lasciò le mie labbra.
JENNIFER
Il mio corpo era avvolto nel caldo abbraccio del mio materasso, mi strinsi ancora di più nelle coperte e immersi il mio viso più a fondo nei morbidi cuscini. Era tutto così pacifico, così tranquillo, così normale.
Troppo normale.
Come diavolo ci sono finita qui?
L’ultima cosa che ricordavo era che mi trovavo nella casetta sull’albero… com’era possibile che mi trovassi nel mio letto? Se era lì che mi trovavo, doveva esserci una sola spiegazione.
Scattai giù dal materasso in una frazione di secondo, la mia testa scattò in ogni direzione attorno a me in cerca di qualcosa fuori posto, ma tutto era perfettamente in ordine. Era come se niente dopo le cascate fosse mai accaduto. Avevo un pessimo presentimento.
Il mio cellulare vibrò sul comodino, era Kyle, diceva di vederci alla casetta sull’albero.
Mi affrettai a vestirmi, uscii di casa di corsa. Se solo mi fossi presa un attimo per guardarmi allo specchio, probabilmente avrei notato le macchie di sangue secco che mi ricoprivano da capo a piedi.
MARY
Probabilmente sto sognando.
Oppure sono morta.
Delle due l’una, perché altrimenti non me lo spiego.
L’ultimo ricordo che avevo, prima di svegliarmi nel mio letto, erano le mani del demone padrone del corpo di Jennifer che mi squarciavano le ferite incrostate sugli avambracci. Da quello, a come sono finita nel mio letto, con le mie braccia perfettamente normali, senza alcun taglio, senza neanche una cicatrice, era un mistero.
Forse sono morta. Forse questo non è nient’altro che il mio inferno che si prende gioco di me.
Rimasi a fissare le mie braccia immacolate per probabilmente delle ore, fin quando il cellulare non vibrò di fianco a me. Dieci minuti dopo ero in macchina, diretta alla casa sull’albero.
ROAN
Silenzio.
Un silenzio profondo, puro, un silenzio così intenso da essere quasi assordante.
Troppo. Troppo silenzio.
Cercai di capire perché così tanta tranquillità mi disturbasse tanto, dopo tutto ciò che era successo, ne sarei dovuto essere felice. E in un certo senso, lo ero. Ma ero anche profondamente confuso.
Camminai avanti e indietro per la mia stanza per un bel po’. Se avessi avuto un orologio contapassi, probabilmente avrei già potuto vincere la maratona.
Poi lo capii, era così evidente che non mi capacitai di come non lo avessi capito prima.
I sussurri non c’erano più. La cascata non mi stava più chiamando.
Era successo qualcosa. Doveva essere successo qualcosa dal momento in cui ci trovavamo nella casetta sull’albero, a quando mi risvegliai in camera mia quella mattina… in qualunque modo ci ero arrivato.
Mi scoppiava la testa, era tutto troppo e stava succedendo troppo in fretta. Avevo bisogno d’aria.
Uscii di casa, senza neanche preoccuparmi di cambiarmi il pigiama che avevo addosso.
Non mossi neanche venti passi, quando mi sentii invadere da una miriade di grida.
“Assassino.”
“Mostro.”
“Bestia di satana.”
“Vai all’inferno dove appartieni.”
“Tu e il tuo gruppetto di criminali la pagherete per quello che ci avete fatto.”
La gente della città mi riempiva di insulti e parole d’odio, erano accalcati al di fuori delle case, in mano tenevano dei bastoni e non osavano muovere un passo oltre gli scalini dei loro portici.
Avevano paura. Paura di me.
Dentro di me, sapevo di meritarlo tutto quell’odio. Eppure, ne rimasi ugualmente colpito.
La mia testa mi diceva di chiedere perdono, per qualunque cosa avessi fatto, ma il mio corpo non le diede ascolto, e feci l’unica cosa che probabilmente non avrei dovuto fare. Corsi.
Corsi veloce, senza una meta precisa in mente, sapevo solo che dovevo andarmene il più lontano possibile da lì.
Non era propriamente mia intenzione finire lì, ma mi ritrovai comunque alla casetta sull’albero.
***
Erano seduti a gambe incrociate al centro della casetta, esattamente come il giorno prima. E come il giorno prima, tra loro regnava il silenzio. Si guardavano. Si scrutavano. Si studiavano. Erano tutti terrorizzati, sia dagli altri, ma soprattutto da loro stessi.
Jennifer si pizzicava le dita delle mani, senza riuscire a guardarle, ancora disturbata dal fatto che era uscita di casa ricoperta di sangue dalla testa ai piedi e non se ne fosse accorta fino al suo arrivo alla casetta, quando si era riflessa nel vetro della sua auto.
Mary si passava le mani sugli avambracci, ancora incredula che le ferite si fossero rimarginate dal nulla. Si teneva il più lontano possibile da Jennifer. Le voleva bene, ma i ricordi ancora la tormentavano.
Roan si massaggiava le tempie, le urla dei cittadini ancora fisse in testa. I suoi occhi saettavano tra i suoi amici, incapace di trovare qualcosa da dire.
Kyle era seduto lontano da tutti, come a volersi proteggere. Aveva ancora in testa l’immagine dei tre demoni che, usando i corpi dei suoi stessi migliori amici, avevano risvegliato il demone dentro di lui.
“Forse…” Fu Jennifer a spezzare il silenzio, facendo trasalire tutti.
“Forse dovremmo parlare.” Concluse.
Il silenzio ritornò, più pesante di prima.
“E cosa dovremmo dire?” rispose Kyle, la voce appena un sussurro. “Abbiamo fatto l’unica cosa che non dovevamo fare, e chissà cosa è successo nel mentre…”
“Viste le urla dei cittadini, credo niente di buono.” Aggiunse Roan, con un tono forzatamente sarcastico.
Ricevette uno sguardo di fuoco da parte dei suoi amici.
“Niente di buono, tu dici? Ci hanno definiti mostri, assassini, bestie di satana… e forse è proprio quello che siamo.” Rispose Mary, la voce triste.
“Credo che stiamo tutti ignorando alcuni dettagli fondamentali qua.” Intervenne Jennifer.
Tre paia di sopracciglia si inarcarono, segnalando la confusione dei ragazzi.
“Ovvero?” La incitò Kyle.
“Voi!” rispose Jennifer, ovvia. “Roan non sente più il richiamo della cascata, Mary è miracolosamente guarita, tu riesci di nuovo a vedere il tuo riflesso nello specchio. Quanto a me, non ho ancora provato, ma scommetto di non essere più in grado di camminare su mura e soffitti.”
Nessuno fiatò, nessuno emise anche solo un suono, perché sapevano perfettamente che Jennifer aveva ragione.
“Okay, non possiamo ignorare che qualcosa è cambiato in noi, questo è chiaro, ma non possiamo neanche ignorare che sicuramente abbiamo commesso atti indicibili e deplorevoli mentre eravamo incoscienti, credo ci sia solo una cosa da fare a questo punto.” Esordì Roan.
Tutti lo fissarono, aspettando la sua idea geniale sul da farsi.
“Dobbiamo lasciare la città, scappare via, capire che cosa ci è successo nelle ultime ore e trovare modo di ricominciare una vita normale altrove.”
Per quanto fosse probabilmente un’idea stupida, era anche la più logica. Non ci volle molto affinché tutti acconsentissero.
“Okay, allora andiamocene. Passiamo da casa, prendiamo qualche vestito, e partiamo. Ci ritroviamo qua tra un’ora.” Disse Kyle.
Tutti si alzarono e si avviarono verso la botola. Roan estrasse il cellulare dalla tasca, per controllare che ore fossero e calcolare quanto ci avrebbe messo a tornare a casa a corsa senza passare per la strada principale. Ma qualcosa sul display lo fece trasalire, terrore si dipinse sul suo volto.
“Ragazzi.” Disse, la voce che tremava.
Si fermarono, guardandolo confusi, ma anche preoccupati notando lo stato d’animo che gli colmava lo sguardo.
“Che succede?” chiese Mary, in ansia.
“Che giorno era quando siamo andati alle Cascate dell’Ade?” sussurrò Roan, la voce ora strozzata in gola.
“Mi pare il 4 di luglio, perché? Che succede?” rispose Kyle, confuso.
Roan inspirò ed espirò profondamente. Riportò lo sguardo sul display del suo cellulare, bloccandolo e sbloccandolo a ripetizione per essere sicuro di aver visto giusto. La data non cambiava, non se lo stava immaginando, non era un sogno. Era un incubo, un incubo a occhi aperti senza fine.
“Oggi è il 10 agosto. Siamo rimasti incoscienti e posseduti per oltre un mese.” Il suo tono era talmente basso e roco, che non era sicuro gli altri lo avessero sentito.
Ma quando vide il terrore sui loro volti, capì che il messaggio era arrivato forte e chiaro.
Non ebbero nemmeno il tempo di elaborare quanto appena scoperto, delle grida al di fuori della casetta li distrassero.
“E ora che cazzo succede?” imprecò Kyle.
Andò a una delle finestrelle, sbirciando tra le assi di legno che avevano inchiodato al muro quella sera di luglio, ma si pentì subito di averlo fatto. Una folla inferocita si stava avvicinando, in mano tenevano bastoni con la punta infuocata, taniche di benzina e forconi appuntiti. Sembravano in procinto di iniziare una caccia alle streghe, con l’unica differenza che le prede erano quattro ragazzi nascosti in una casetta sull’albero.
“Cazzo.” Sbottò Kyle, allontanandosi dalla finestra. “Ci hanno trovati.”
“Dobbiamo andarcene.” Piagnucolò Jennifer.
“Non possiamo, sono armati, fino ai denti, hanno benzina e forconi, ci attaccheranno non appena mettiamo un piede fuori da qua.” Rispose Kyle, rassegnato.
Il panico invase il piccolo spazio in cui si trovavano i ragazzi. Non riuscirono nemmeno a pensare a qualcosa di logico e sensato, perché dei colpi sotto la casetta gli impedirono di fermarsi a ragionare. Puzza di legno bruciato e benzina invase i loro setti nasali.
“Stanno cercando di bruciarci vivi.” Strillò Mary, il panico che schizzava da tutti i pori.
“No, stanno cercando di ricacciare i demoni all’inferno.” Mormorò Kyle tra sé e sé.
“Dobbiamo andarcene di qui, ora!” urlò Roan.
Iniziarono a strappare le assi di legno dalle finestre, in cerca di una via di fuga. Non ne strapparono nemmeno tre, quando le fiamme iniziarono a trovare la loro via attraverso le assi di legno che componevano il pavimento.
La stanza si riempì di fumo, i ragazzi iniziarono a tossire.
Cominciarono a darsi botte in testa, graffiarsi la pelle, infliggersi quanto più dolore possibile, nella speranza di evocare i demoni dentro di loro, che, per quanto indesiderati, erano la loro unica possibilità di restare in vita.
“Forza, brutto demone maledetto, esci fuori.” Urlò Mary, le lacrime agli occhi, mentre le sue ginocchia cedevano a causa dei sensi compromessi dal fumo inalato.
Continuarono a causarsi dolore, le loro braccia ormai sanguinavano da quanto in profondità le loro unghie graffiavano, ma niente, nessun demone arrivò in loro soccorso.
Un’amara consapevolezza trovò spazio nel loro subconscio, mentre le fiamme incombevano sempre di più attorno a loro.
“Non c’è nessun demone, non c’è nessuna via di fuga. Siamo semplicemente umani.” Kyle diede una voce alle loro mute consapevolezze.
Le fiamme li avvolsero, le loro grida spezzarono l’aria, le loro carni si incenerirono a lentezza disarmante, mentre tutto attorno a loro diventava nero come una tenebra.“Benvenuti, figli miei.”
Lucifero li accolse come il più amorevole dei padri.
Giorgia Ferrari
giorgiaferrari.studia@mohole.it