Di Patrick Pagani
Suona la sveglia.
Urlo disperato.
C. sciacqua il viso, poi incontra lo specchio, il riflesso è sfocato.
Acqua torbida.
La tazza di latte è accompagnata da un paio di biscotti e dalle notizie calcistiche del canale sportivo in sottofondo.
Nell’altra stanza, un abito grigio scuro aspetta il suo ospite.
Mezzo chilometro a piedi, sei fermate di tram, otto di metro e altri trecento metri a piedi.
C. è davanti alla sede del suo ufficio: un edificio di venticinque piani in tinta con lo smog della città. Il via vai delle persone fa sì che le porte scorrevoli riescano a toccarsi di rado, e per pochi secondi. Una coppia che deve aspettare ora tarda per congiungersi.
Attraverso le vetrate esterne, C. percorre la struttura e diventa parte di essa. L’immagine appare nitida fino al volto, sfocato come poche ore prima.
Segnale disturbato.
Quando entra nel palazzo il cielo è buio, un buio che nasconde una luce troppo debole per scavalcarlo.
Una volta fuori, il cielo è ancora buio. Oscurità profonda e consapevole che non nasconde luce.
Trecento metri a piedi, otto fermate di metro, sei di tram e mezzo chilometro a piedi.
Urlo disperato, acqua in viso, specchio. Nessun riflesso.
Un passo indietro, poi di nuovo avanti.
Vuoto.
C. deve andare in ufficio.
Camminando si cerca nei vetri della città, ma non appare.
La città di vetro e cemento ora lo riconosce solo nel cemento.
C. si china quel poco necessario per fronteggiare la finestra della metro, da cui riesce a intravedere i riflessi mescolati della folla alle sue spalle, ma non il suo.
All’improvviso, dal groviglio di colori spenti, il volto nitido di un ragazzo che, nella stessa posizione di C., si sistema i capelli. Li porta lunghi, colorati di un verde fluorescente, e indossa un giaccone blu e giallo pastello, che ricorda quelli da sci.
C. si volta istintivamente verso di lui e lo osserva come si guarderebbe un alieno.
Hai una sigaretta? chiede l’alieno.
C. si guarda intorno un paio di volte per accertarsi che stia parlando con lui.
No, mi spiace. Risponde poi.
Allora tieni, ce l’ho io. Hai l’aria di uno che ha bisogno di fumarsi un pacchetto intero.
Io non fumo. Esclama a voce bassa C., cercandosi nuovamente, senza successo, nella finestra.
Oh cazzo. Lo hai perso vero?
Cosa?
Il riflesso, lo hai perso, non è così?
Come lo sai?
Ci ho preso. Conosco un modo.
Come te ne sei accorto?
Ho in programma un viaggio.
Anche tu non mi vedi.
Io ti vedo. Tutti ti vedono.
Io no.
Esatto. Sei tu ad aver perso il riflesso. Va a riprenderlo.
Lo stridio dei freni della metro sulle rotaie spezza la conversazione.
Questa è la mia fermata, buona fortuna gesso.
C. guarda l’alieno scendere dalla metro e incamminarsi lungo la banchina mentre resta immobile di fronte alle porte aperte. Qualche persona sale scostandolo o fermandosi avanti a lui.
Un suono annuncia l’imminente chiusura delle porte, C. guarda la finestra alla sua sinistra, poi si sfiora il volto.
Scatta verso l’uscita facendosi largo tra la gente, le porte iniziano a muoversi. C. le oltrepassa per un pelo. Il varco si chiude alle sue spalle e la metro riparte.
Crepa nel soffitto di cristallo.
C. corre per la banchina, oltrepassa i tornelli, si gira su sé stesso in cerca di uno sconosciuto, di un alieno.
La folla continua la sua grigia sfilata, ma appare un bagliore colorato.
Fiaccola ardente.
Ti sei deciso, sono contento.
Chi sei? Come sai del riflesso? Quale viaggio?
Respira gesso. Fai sempre tante domande?
Anche tu ne hai appena fatta una.
Touché.
Spiegami.
Sai volare?
Incredibile che ti stia a sentire.
Rispondi.
No, non so volare.
Come lo sai se non hai saltato? I pulcini non sanno volare alla nascita, eppure arriva un giorno in cui devono saltare per non morire sul nido. Loro saltano senza garanzie, e volano. Tu ce l’hai scritto in faccia che non hai lasciato il nido, eppure vai in giro a dire di non saper volare.
Sei pazzo.
Non sono io quello che non si vede allo specchio.
Touché…
Siamo pari.
E se cadessi?
Avresti saltato.
C. si guarda intorno ancora una volta. Osserva lo sciame di persone muoversi per andare da nessuna parte. Ascolta il ronzio di parole che non vogliono dire niente. Poi posa gli occhi sull’alieno.
Perché mi chiami gesso?
Perché sei rigido come un pezzo di gesso.
Tu sembri un alieno.
Forse lo sono.
Quando si parte?
L’alieno sfoggia un sorriso che non aspettava altro di mostrarsi.
Adesso.
Di Patrick Pagani