Il caos in cui viviamo


Il professore percorreva a grandi passi il
pavimento della cella. Per passare il tempo si
era messo a scrivere sulle pareti le formule
delle tre leggi di Newton. Le aveva trovate in
uno dei libri che la sua comunità custodiva da
tempo immemore. Con la mente era tornato indietro
a quattro giorni prima, a quando era iniziato il
suo viaggio.
“Sei pronto?” gli aveva chiesto Ipotenusa. Il
professore si era dato un’ultima occhiata allo
specchio e con un pettine di tartaruga
leggermente inumidito aveva sistemato i ricci
radi per dare un po’ di volume. “Sono troppo
elegante?” aveva chiesto girandosi verso l’amico,
che l’aveva osservato in silenzio, appoggiato
allo stipite della porta. Quel completo a doppio
petto beige era appartenuto a suo padre, così
come i gemelli che ora abbottonavano i polsini
della camicia. “Chi ti ha insegnato a fare il
nodo alla cravatta?” Ipotenusa evitava di
guardarlo negli occhi, ma il tempo stringeva.
“Ipotenusa” incominciò il professore, prendendo
l’altro uomo per le spalle. Si guardarono, il
verde acqua si specchiava nel dorato. Poi
intravide il calendario al muro, la data di quel
giorno, cerchiata più e più volte con il
pennarello rosso e tutto ciò che avrebbe voluto
dire si trasformò in bile che si agitava nello
stomaco. Le dita avevano accarezzato le braccia
dell’amico, poi erano cadute inerti sui fianchi.

Era uscito dalla stanza senza voltarsi, a stento
aveva sentito Ipotenusa pronunciare il suo nome.
Nessun altro si era presentato a salutarlo, ma
lui non gli aveva biasimati. Ogni quattro anni un
membro della comunità usciva in superficie e si
recava dagli uomini per provare a spiegare loro
come andava il mondo.
Il viaggio era durato molto, il professore aveva
percorso il corridoio sotterraneo, che era la
loro unica via di comunicazione con l’esterno.
Usciva per lo più di notte, anche se con
l’assenza della fisica era sempre notte, così
l’oscurità gli impediva di essere visto e si
avvicinava alle case. All’interno vedeva uomini
che dormivano nelle vicinanze del soffitto,
appesi con delle corde alla caviglia,
assomigliavano a dei grotteschi palloncini.
Alcune volte gli aveva visti tentare di bere
attraverso la cannuccia, ma senza riuscirci.
Quando giunse finalmente in città cercò di
attirare l’attenzione; non fu difficile, dato che
era l’unico uomo che camminava in mezzo a
centinaia che fluttuavano in aria. Un autobus
frenò a pochi centimetri da lui, traballando
sulle sospensioni. Al suo interno, fermi immobili
ai loro posti, visi sconvolti lo avevano guardato
con orrore. La notizia si era sparsa in fretta e
la polizia non era tardata ad arrivare. Erano in
due, uno basso e rotondo, l‘altro alto e
slanciato: “Non vogliamo farti niente” dissero.
Poi si erano avventati su di lui, come due falchi
che si abbattono in picchiata sulla preda. Il

professore non era scappato, né aveva opposto
resistenza, aveva aperto le braccia e quelli
l’avevano avvinghiato. Si era fatto portare in
centrale, penzolando nel vuoto, un po‘
sbilanciato da un lato a causa della differenza
di corporatura dei due agenti. “Chiamate il
capitano Brodi, ne abbiamo preso un altro”
avevano strillato al loro arrivo. Poi l’avevano
portato nella cella dove tenevano tutti i
sovversivi. Aveva il soffitto altissimo e una
lunga scala appoggiata alla parete. L’avevano
lasciato lì, sull’ orlo del baratro e la porta
che si chiudeva bruscamente alle sue spalle quasi
non l’aveva fatto cadere. Se n’erano andati
dicendo di aspettare l’arrivo del capitano.
“Sono il capitano Brodi, le ordino immediatamente
di smetterla di strisciare lì sotto e di
raggiungermi qua in alto.” La voce tonante del
capitano strappò il professore ai suoi ricordi.
Obbediente si arrampicò sulla scala, tirandosi su
con le braccia, gradino dopo gradino, finché non
giunse alla sommità, dove incontrò il capitano
Brodi.
“Come si chiama?”
“Il mio nome è Pi Greco, sono un fisico.”
“So cosa è, lei e tutti quelli prima di lei, una
banda di ciarlatani che viene qui per spaventarci
e farci cambiare il nostro modo di vivere.”
“Si calmi, capitano. Non è per questo che
periodicamente veniamo a farvi visita.”

Il capitano fece un verso di scherno: “Lei sa
vero, signor Greco, perché nessuno di voi torna
mai indietro? Si faccia un favore e dica alla sua
gente di smettere di venire a seccarci, lo faccia
per la sua specie. Se vuole salvarla
dall’estinzione.”
“Le sue minacce non funzionano con me, capitano.
È mio dovere di studioso avvertire lei e tutta la
popolazione che quello che state facendo è
sbagliato.”
“E cosa facciamo noi, esattamente?”
Pi Greco sospirò, si sentiva vecchissimo e
fragile: “Voi non camminate, vi librate in aria,
come se non aveste peso e vi muovete ignorando le
leggi vettoriali. Ma non funziona così, secondo i
libri custoditi dalla nostra comunità sulla Terra
esistono varie forze, che attirano i corpi verso
il basso, che obbligano a muoversi secondo certi
vettori etc…”
“Ho già sentito abbastanza. Mi dica, caro il mio
professore, chi mai crederebbe a simili
assurdità. Qui fanno tutti così da generazioni.”
Il professore fece un sorriso senza allegria:
“Questo perché vi credete così superiori alla
fisica da averla annullata.”
Anche il capitano sorrise e disse: “Ha detto la
sua ultima stronzata Pi Greco. Si goda la
passeggiata finché può” e detto questo chiuse la
porta con violenza. L’onda d’urto fece traballare
Pi Greco, che perse la presa scivolando per

alcuni gradini. Si afferrò all‘ultimo momento al
corrimano, ansimando, le ginocchia che cedevano.
Osservò il pavimento sotto di lui, era ancora
lontano ma poteva sentirne la superficie contro
la schiena e immaginò il dolore dell’impatto
toglierli il fiato. Strinse i pugni mentre
cercava di rimettersi in equilibrio. Non posso
fermarmi adesso, devo insistere, pensò. Si era
ripromesso che non avrebbe fatto scenate, perché
non gli appartenevano: salì di corsa e si gettò
contro la porta, gridando, finché non ebbe male
alle gambe e la gola in fiamme. Entrarono i due
poliziotti, volavano uno sopra l’altro,
disegnando ampi cerchi con le braccia. “Che vuoi?
Fai silenzio.” Il professore li guardò, lo
sbeffeggiavano con le loro capriole e i loro
salti in aria, ma sapeva bene che avevano paura,
perché lui conosceva la verità. Si sistemò il
completo, riprendendo il controllo su di sé. “Ho
diritto a un ultimo desiderio” disse con calma.
“E quale sarebbe?” chiese il primo poliziotto.
“Venite più vicino, vi voglio spiegare una cosa”
iniziò Pi Greco.

Silvana Accardo
silvanaaccardo.studia@mohole.it


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