Il ladro di pensieri


Nessuna eccezione è concessa. Come potrei altrimenti, quando vivi una vita che credi tua solo perché credi che lo sia.

Dalla cornetta si propagano senza tregua squilli dalla voce spezzata, scosto l’orecchio. È lei, è lei, Elena. Il silenzio si frantuma in quei tocchi. Mi volto verso il comodino, strabuzzo leggermente le palpebre, ma gli occhi sono troppo pigri e stanchi per concedersi alla vista. Se nella testa ti vive solo il vuoto. Mi chiedo: cosa succede se la tua mente non è più capace di pensare liberamente?

Lo tasto setacciandone la superficie. Al tatto una fotografia, una pillola, un bicchiere.

Nessun telefono. 

Un unico lamento sempre più vivace e intenso.

Mi sento soffocare, vorrei alzarmi, rispondere, reagire. Cosa me lo impedisce?

Il silenzio fa presto a tornare. 

In fondo, era come se non sia mai andato via.

Ripongo la mano sul materasso, un tepore fervido mi assale, un brivido mi gattona addosso.

Mi contorco, mi rigiro, trascino a me tutte le lenzuola.

Immobile, in posizione retta, gli occhi si serrano, sono preda di un dolore senza origine, una pressa d’acciaio che mi comprime il cervello, sempre più stretta, sempre di più, poi giù nelle braccia rassicuranti del buio…

Spalanco gli occhi, il soffitto è velato dall’ombra riflessa delle persiane, la porta è socchiusa, il comodino al suo posto. Ogni cosa immutata. 

Non è successo niente, fidati di me, lei non è più un problema, tu non hai bisogno di nessuno. 

La voce nella testa,  assomiglia alla mia, anzi sono sicuramente certo che è la mia, perché concedersi al dubbio, perciò mi fido, perciò la ascolto.

A un tratto mi ritrovo in piedi, mi dirigo verso la cucina, apro delicatamente la porta, e la valico.
Il tavolo era già apparecchiato, il cucchiaio su un tovagliolo di carta spiegazzata. Alla sua destra una tazza, dentro un liquido denso. Alla sua sinistra, un biscotto di pasta frolla impolverato da una cascata di zucchero a velo. Lo chiamava bucaneve, forse per il suo colore, biancastro come neve appena caduta. 

Elena li comperava il mercoledì mattina nel negozio affianco a casa, mentre io ero ancora accucciato nel letto. Al ritorno li poggiava sulla credenza, sgattaiolava in camera, con un balzo sul letto, saltava e saltava, a piedi cinti, le molle gracchiavano a ritmo. Io la braccavo con le braccia, e iniziavo a solleticarla, partivo dalle ascelle. Tirava calci a vuoto senza frenarsi, sorrideva a denti spianati e gridava frasi del tipo, fermati ti prego, mi fai ridere. Poi la quiete, la mano che accarezza i capelli, il silenzio sulle labbra, e le anime che si intrecciano tra saliva e affanni, era l’ultima volta che la vidi… Un attimo dopo il vuoto, e il ricordo si cancella. 

Tutto seguiva un ordine, ogni dettaglio era curato, ogni scelta già scelta. 

Finisci tutto, vedrai ti farà bene. Diceva la voce. 

È come se mi conoscesse a fondo, senza pormi domande, prendo il cucchiaio tra le mani, neanche il tempo di immergerlo e nello stomaco il liquido biancastro, mentre tra i denti il biscotto maciullato e decomposto. Mi lavo, mi vesto, con movimenti meccanici come se non fossi io a muovermi, improvvisamente il mio corpo si trascina all’esterno. L’aria mi ossigena i polmoni, sulla strada qualche striscia pedonale, un semaforo lampeggia di rosso. Intravedo la macchina parcheggiata sotto il porticato. La portiera è cocente, mi siedo sul sedile.

Ti fidi di me? tu sai che senza di me non sapresti chi essere.

Certo che si, dico senza pensarci su neanche un momento. Dovrei andare in laboratorio, ma non ricordo perché, tre mesi me ne andai, scelsi io di farlo, la causa… Nessuna, e il ricordo si cancella.

Dallo specchietto retrovisore la città in movimento, appare come una salma dal gelido corpo, i lampioni che costeggiano la strada, rigettano sul finestrino un cupo luccichio, la luce verde dell’orologio luccica a intermittenza segna le 7:49.

Una via poi un’altra e mi ritrovo dinanzi a un edificio. Le mura sono appena state verniciate lo noto dalla vividezza dello smalto, un grigio perla.

All’entrata, un uomo in divisa mi accoglie, presumo sia il guardiano. Con prudenza adagia la mano sulla mia spalla. 

Puntuale come al solito, mi dice. Poi mi saluta con un ghigno e mi lascia andare, traverso i corridoi, imbuti senza via d’uscita. Mi sembra di conoscerli, sulle pareti affissiate una locandina, in grassetto si imponevano 6 parole agli occhi “Per un mondo migliore e spensierato”.

Avanzo, orologi di ogni forma possiedono lancette che segnano orari differenti tra loro. 8:10, 8:00, 8:06. Vieni pure, ti aspettavamo. 

Una voce mi chiama.

Entro nella stanza, la porta è già aperta, neanche un passo e mi ritrovo sdraiato su un lettino, indosso un camice di carta.

Le mani incatenate alle sbarre con delle maniglie in cuoio battuto, la bocca imbavagliata., lui fa avanti indietro nella sala, si strofina le dita sotto l’acqua gelata del rubinetto, poi indossa dei guanti in lattice e prende in mano un bisturi dal vassoio d’alluminio e si avvicina.

“Ancora la pensi, ancora pensi. Non sta funzionando forse serve un altro ritocchino”. Il cuore mi ansima nel petto. Con gli occhi scruto sul cartellino un nome, Luis “Ricercatore”. Luis veniva sempre a casa la domenica. Ma solo una particolare domenica rimase nella mia memoria.

Si accomodò a capo tavola, iniziò a parlami della ricerca e dei suoi sviluppi, svolazzavano fogli con dati di analisi e referti… diceva che c’è l’avevamo fatta, che il mondo avrebbe ascoltato solo la nostra voce, Elena era contraria forse in cuor suo sapeva, io ci ho provato a fermarlo ma aveva già attuato la tecnica, bastava solo rimuovere il cervelletto e inserire un microfono in capsula, e così ogni pensiero avrebbe avuto la nostra voce, ogni pensiero il nostro… io non volevo, ero contrario a quel utilizzo. Poi, la vennero a prendere, e da lì il vuoto. 

Ma io lo sento è ancora viva, è qui…

Lui si gira e sterilizza il bisturi immergendolo in un recipiente d’alcool.

“Ancora un attimo, e sono da te”.

Riconosco la voce è la stessa di sempre. Cerco di parlare ma dalla mia bocca fuoriescono solo sillabe spezzate, L’odore nella stanza è nauseante…

Innalza la mano che brandisce il bisturi e con eleganza comprime il filo della lama dietro la nuca, incidendola. Il sangue sgocciola dal cranio. Un brivido acceso mi percorre, il lettino si rovescia le maniglie si slacciano. Il contraccolpo lo fa precipitare a terra, Luis si impatta contro la parete. il sangue scorre a pioggia, gocce sempre più voluminose imbrattano il pavimento, lasciando visibili tracce. Zoppico, La sua voce mi perseguita ancora “Non ti liberai di me”. Provo ad andare più veloce, i corridoi ora sempre più stretti e interminabili. Strappo dalla vestaglia uno strato e tampono la ferita, vedo sfocato, vertigini bramano il corpo e lo rallentano. Solo qualche passo ci divide, solo qualche passo…

Lorenzo Tortorelli
lorenzotortorelli.studia@mohole.it


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *