Il ristorante sul lago


Quell’inverno mi dovetti trovare un lavoro, l’oziare continuo senza uno scopo nella vita non entusiasmava i miei genitori, che erano stufi di pagare per i miei sfizi, e anche per i miei beni primari. Decisi di trovare un lavoro semplice, che non mi facesse sgobbare da mattina a sera in un buio magazzino di qualche azienda. Da poco aveva aperto un piccolo ristorante vicino al laghetto del mio paese, cercavano personale, camerieri. Sembrava un lavoro abbastanza redditizio, quindi decisi un giorno di portare il mio curriculum e candidarmi. La titolare era una donna di mezza età, alta e magra, piena di rughe e con un colorito giallastro in volto. Quando mi fece fare il colloquio non aveva smesso un attimo di fumare, una sigaretta dietro l’altra e una nube di fumo che rendeva meno intuibile la mia scarsa esperienza nel mondo lavorativo. 

”Quindi ha mai lavorato a contatto col pubblico?”

”Sa, vendevo limonata, avevo costruito un piccolo banchetto che mettevo in giardino e d’estate facevo qualche soldo così”

”Si, anche mio nipote di 10 anni è appena entrato in questo buisness”

Pensai di essere un totale disastro. Ma essere assunto significava iniziare a sgobbare, essere rifiutato invece, avere il continuo assillo dei miei su quanto fossi un fallito. In entrambi i casi c’era una merda da pestare. La donna finì il colloquio con il solito: ”Le faremo sapere, grazie per essere venuto”. Mi strinse la mano e me ne andai, convinto di aver sprecato un’altra opportunità. Invece due settimane dopo mi arrivò una chiamata, e la voce roca della titolare mi fece rimanere paralizzato per qualche secondo. Mi ero finalmente trovato un lavoro. Merda, mi ero trovato un lavoro. Ora sarebbe iniziata la vera vita da adulto che mai fino a quel punto avevo sperimentato. 

Decisi di presentarmi vestito bene, almeno la prima settimana di lavoro. Almeno il primo giorno. All’inizio è sempre bene dare una buona impressione, ascoltare ed eseguire, limitarsi a essere un robottino ai servizi del capo. Insieme a me si presentarono altri quattro ragazzi, più o meno della mia età. Sembrava avessero tutti una grande esperienza nel settore, parevano usciti da un hotel cinque stelle ultra di lusso. Scoprii successivamente che in realtà sapevano solo presentarsi molto bene. La mia capa, Cristina, si presentò vestita come al colloquio e con la solita sigaretta accesa. Ci fece mettere in riga davanti a lei, con le braccia dietro la schiena e dritti come soldatini. Fece un discorso molto distaccato, ma qua e là lanciava qualche avvertimento. Poteva sembrare una donna stanca, vecchia e disposta a lasciar perdere anche qualche cazzata, ma dentro ci teneva a quel ristorante, non era solo per i soldi e sembrava davvero essere soddisfatta di quello che aveva costruito con dolore e fatica. A me, poco importava, quello che davvero mi aveva reso felice era sapere che avrei fatto la maggior parte dei miei turni con  Anna. 

Una delle ragazze più belle mai viste, capelli color miele, lisci come fili d’erba, lentiggini che le proteggevano quel suo piccolo nasino a punta e la cosa più bella, la prima cosa che vidi di Anna, i suoi occhi verdi. Era un sogno, e avrei avuto l’opportunità di conoscerla e persino parlarci. Sapevo che era troppo bella per me, uno scarafaggio magro e alto, coi capelli unti e le mani grandi come quelle di un gorilla. Non avevo speranze. Ma mi sarebbe bastato ammirarla e fantasticare sui nostri irreali futuri bambini. Quando venne verso di me per presentarsi, rimasi come un tocco di legno e la mia mano sudata si spiaccicò contro quella candida e piccola di Anna. Nemmeno una smorfia di ribrezzo le si creò sul volto, e da lì capii la sua grande empatia e il suo modo di mettere a loro agio le persone, il suo modo di comprendere ogni situazione senza giudicare il prossimo. Ma forse era solo estremamente educata, anche perché poi corse in bagno a lavarsi le mani. 

La prima settimana feci cadere giusto tre vassoi, in tutto ruppi due bicchieri, tre piatti e rovesciai una bottiglia di vino addosso ad un cliente. Cristina non si arrabbiò, ma decise di dimezzarmi lo stipendio, io pensai che fosse meglio di essere licenziato, dunque non protestai. I turni erano ragionevoli, anche se dovevamo mangiare prima dell’inizio del servizio e questo mi causò forti attacchi di fame anche all’una o le due di notte. 

Ogni giorno per arrivare e andarmene passavo davanti al laghetto difronte al ristorante. La mattina si vedeva distintamente il fondo, con sassi, pesci e alghe. La notte invece, quando anche i lampioni più vicini erano troppo lontani, lo specchio d’acqua si trasformava in un buco nero, oscuro e impenetrabile all’occhio umano. Sapevo che in quel lago mio padre andava spesso a pescare, la domenica si preparava all’alba, e qualche volta ha anche provato a portarmi con lui ma la mia pigrizia mi ha sempre impedito di praticare qualsiasi sport. Come se la pesca fosse uno sport, tra l’altro. 

Anna non faceva mai la strada con me, ogni mattina quando arrivavo lei era già al ristorante, e tutte le sere finito il turno rimaneva a chiacchierare con Cristina. Tornavo sempre a casa da solo, e costeggiare quel dannato lago metteva i brividi. 

Durante i turni io e Anna parlavamo tanto, provai qualche volta a farle delle battute ma la mia tattica per rimorchiare le ragazze era squallida. Sono sempre stato il tipico ragazzo maldestro e per niente spigliato nelle conversazioni. Ogni mio tentativo di attirare la sua attenzione e mostrarmi ai suoi occhi come un tipo interessante risultò fuori luogo e patetico. Nonostante questo però Anna era sempre gentile con me, con tutti, persino con Cristina, che per tutto il tempo che lavorai lì non vidi mai sorridere. Era sempre distaccata, se doveva affidare dei compiti che richiedevano un minimo di impegno mentale, non chiedeva mai a me, per quanto riguarda invece buttare la spazzatura e spostare tavoli e sedie, ero sempre nei suoi pensieri. Nonostante conoscesse da poco tutti i nuovi camerieri, sapeva perfettamente distinguere chi era capace e chi invece era imbranato. Ho sempre pensato di essere uno di quei fessi buoni a nulla, uno di quelli che non otterrà mai la fiducia di qualcuno. Ma quando venne il momento di licenziare qualcuno, perché dal fondo cassa mancavano più della metà dei soldi, Cristina senza esitazione licenziò Marco. Marco era il tipico ragazzo impeccabile, bravo a fare il suo lavoro, simpatico e spigliato, insomma uno di cui non si sospetterebbe mai. Eppure lei, senza nemmeno preoccuparsi di trovare prove che avvalessero la sua tesi, lo licenziò su due piedi. Aveva come un sesto senso per queste cose e quella volta aveva ragione. Noi altri camerieri cercammo di parlarle e farle cambiare idea, ma Marco il giorno dopo si presentò per riprendere la sua roba, e lasciò sul bancone i soldi rubati. Da quel momento non mettemmo più in dubbio la parola di Cristina. 

I mesi passavano e incominciai ad abituarmi a quel lavoro, addirittura iniziò a piacermi. Chiariamoci, non mi piaceva svegliarmi presto ogni giorno, uscire dal mio letto comodo e andarmene fuori al freddo. Ma tutto sommato passare le giornate con Anna le rendeva piacevoli, iniziai a sentirmi a mio agio, a conoscere quello che mi stava intorno, a sentirmi parte del ristorante. Iniziai a pensare che forse poteva diventare qualcosa di più, di un semplice lavoro stagionale. 

Una mattina di gennaio mi diressi a lavoro, come sempre, ma quando arrivai davanti al lago, vidi da lontano Cristina, fuori dal ristorante, che portava un sacco nero verso il locale spazzatura. Si guardava intorno, e cosa ancora più sconcertante, non stava fumando. Era troppo lontano per vederle bene le mani, ma notai delle macchie rosse intorno alle dita. Quando arrivai entrai dal retro, verso gli spogliatoi del personale. Non lo feci per una ragione specifica ma semplicemente non volevo intromettermi in qualcosa che non mi riguardava. Vista da fuori la faccenda sembrava sospetta, ma poteva trattarsi di un grande malinteso. Quando iniziò il turno Cristina non si presentò. Ogni ogni mattina ci assegnava i compiti del giorno e se qualcuno doveva staccare prima per qualsiasi motivo, era in quel momento che doveva comunicarglielo. Chiesi ad Anna se sapeva cosa le fosse successo, ma lei mi disse di non saperne nulla, e che quella mattina era arrivata più tardi del solito, non l’aveva nemmeno incrociata all’entrata. Mi sembrò molto strano, sia l’assenza di Cristina che il ritardo di Anna, potevano sì essere due coincidenze, ma ormai la routine di quel posto mi impose di pensare diversamente. 

La giornata passò comunque normalmente, senza altre variazioni e Cristina si fece vedere nel pomeriggio, ma quando le chiesi dov’era stata, lei mi rispose: “Sarà meglio che ti faccia i cazzi tuoi, ragazzino”. 

Certo una risposta che farebbe insospettire chiunque, ma non detta da Cristina, questo era il tipo di gergo utilizzato da lei. Così il mio ultimo turno finì, mi preparai per tornare a casa e uscendo dal ristorante, Anna mi si avvicinò e mi prese sotto braccio. 

“Stasera torno insieme a te, sei contento?”

Cazzo se ero contento. Averla tutta per me e riuscire persino a tenerla per mano, sembrava un sogno. Ogni giorno ci speravo, che accadesse una cosa così, piccola e insignificante vista da fuori, ma tanto eccitante per me che la vedevo come il frutto che sta sulla cima dell’albero, il più dolce, quello irraggiungibile. 

Arrivati alle sponde del lago, lei si avvicinò a me, e pensai che fosse normale. Metteva i brividi di notte quel posto. Ma quando vidi i suoi occhi capii che non era solo paura del buio. Le mani iniziarono a tremarle e mi indicò un punto indefinito nell’oscurità, in direzione della sponda. Guardai senza farle domande e vidi solo un tronco che galleggiava, poteva sembrare uno strano essere, in agguato e pronto a saltarci addosso. Ma quando gli puntai la torcia contro, vidi perfettamente. Le braccia e il corpo galleggiavano, la testa rivolta verso l’acqua e i capelli bagnati che si diramavano come alghe. Urlai ma rimasi fermo, aggrappato al braccio di Anna, anche lei immobile. Avevamo paura di muoverci, come se facendo qualche passo verso il corpo, quello si fosse improvvisamente mosso e rianimato. Il cadavere però non si mosse, e noi iniziammo a correre verso il ristorante. 

Cristina chiamò la polizia. Non sembrava sconvolta, non volle nemmeno vedere coi suoi occhi la scena, come se già sapesse che era la verità, che c’era un cadavere nel lago, che galleggiava lì da chissà quanto, a gonfiarsi d’acqua sempre di più. Pensai a quanto fosse assurdo, che un corpo morto che non ha più bisogno di nulla, continua comunque ad accumulare dentro di sé ciò che ci tiene in vita. Era il momento per rassicurare Anna, che tremava ancora come una foglia. Quella sera rimanemmo svegli a parlare con la polizia, e quando chiedemmo la causa della morte ci dissero che si trattava di omicidio. La morte era datata a quella stessa mattina. Non ci passò nemmeno per la mente che potesse essere qualcuno che conoscevamo, eppure, quando arrivarono due genitori in lacrime a identificare il cadavere, Cristina ci disse che si trattava di Marco. Una strana sensazione mi incatenò tutto il corpo. Una persona che conoscevo era stata ammazzata, e buttata così, con noncuranza, in un lago, a pochi passi dal posto dove avevo passato l’intera giornata a ridere e scherzare. Poi mi ricordai di quella mattina, di Cristina e delle sue mani sporche di rosso, del sacco della spazzatura e del suo strano atteggiamento sospetto. Come fosse la cosa più ovvia del mondo, la vidi come un assassino, e raccontai tutto alla polizia. Decisi di starle lontano e tenere Anna vicino per evitare che potesse ferire altre persone. Venne portata via dalla polizia per accertamenti, e mi sentii come sollevato. Nella mia testa il caso era risolto, era tutto surreale ma quel problema era risolto. Avevo accusato di omicidio la donna che per mesi vidi ogni giorno, con cui parlavo, fumavo. La donna che mi aveva dato fiducia. E che forse aveva visto come un affronto imperdonabile il furto di Marco. 

Anna mi chiese di andare negli spogliatoi a prenderle le medicine per l’ansia, era sconvolta, più per le accuse a Cristina che per l’omicidio stesso. Aprii il suo armadietto. Vidi la scatola di calmanti e la presi. Era sporca di rosso, smalto, pensai. Anna portava sempre le unghie rosse. Il mio sguardo però, guidato da una sorta di sesto senso, si alzò verso le grucce con attaccati i vestiti di Anna. Il completo da cameriera, ben stirato e pulito, un giacchetto bianco e un impermeabile. Coperto interamente da schizzi rossi, macchioline ormai incrostate e asciutte. Ne grattai via un pezzo, che si staccò come intonaco dalle pareti. Non era smalto.

Greta Guantes
gretaguantes.studia@mohole.it


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