Ines, il pomeriggio, se ne stava in cortile a leggere. Quando sbucavo dal tunnel mi sorrideva con gli occhi appena socchiusi, per ripararsi dal sole, e mi faceva segno di sedere accanto a lei, sul prato perfettamente curato. Chiudeva il libro, teneva il segno della pagina a cui era arrivata con un filo d’erba, e mi guardava. Leggeva romanzi, riviste e saggi di cui io non avevo mai sentito parlare, anche se lei sosteneva fossero famosi. Ero sicuro si sbagliasse. Passavamo qualche minuto ad ascoltare il volo degli uccelli. Era sempre lei a interrompere il silenzio, con continue domande. Voleva sapere ogni cosa della vita dall’altra parte. Io rispondevo che si stava bene, che c’era lavoro per tutti, cibo per tutti. Non una preoccupazione riusciva a superare il muro. Lei si metteva a ridere e poggiava una mano sulla mia spalla.
Ines mi proponeva spesso di entrare in casa sua. Diceva che voleva farmi sentire dei nuovi dischi che aveva preso al mercatino, oppure che in giardino aveva freddo, che aveva caldo, che tirava troppo vento. Io, con un cenno educato del cappello, rifiutavo. Dalla finestra, intravedevo in casa sua oggetti che mai avevo visto prima, se non alcuni, tra la merce di contrabbando che ogni giorno mio padre sequestrava nelle case della città. Era mio dovere starci lontano. Per questo, un pomeriggio, litigai con lei. Per rinfrescarmi dal sole afoso sulla fronte, le avevo chiesto dell’acqua. Uscì dalla cucina con due bicchieri e una grossa caraffa contenente del liquido color caffè annacquato. Avvicinai il volto, per provare a coglierne l’odore e farmi un’idea di ciò che Ines volesse offrirmi. Al posto del tanfo bruciante di alcol che mi aspettavo, delle bollicine inodori mi invasero le narici e gli occhi. Guardai Ines, rosso in volto e con le lacrime che mi parevano frizzanti anch’esse. “Assaggiala, è Coca-Cola. Ne vanno tutti pazzi, sono bravi a fare le bibite gli americani.” Mentre lo diceva il suo sguardo rideva, abbronzato e sereno. In quel momento però, non mi parve bella come al solito; aveva perso il volto dell’innocenza a cui ero fatalmente affezionato, per sostituirlo con quello del nemico. E lo aveva fatto con una noncuranza inaccettabile.
Quel giorno, quando rientrai nel piccolo appartamento quadrato in cui vivevo con mio padre, mi sentii per la prima volta un traditore. A cena tenni la testa bassa, con il ciuffo biondo cenere a nascondere la mia consapevolezza disfatta. Mio padre aveva cose più importanti a cui pensare. Mentre muovevo la forchetta, incapace di ingoiare un solo boccone, mi raccontava dei soliti problemi avuti al lavoro. Parlò di gente che era riuscita inspiegabilmente a scappare, mostrando infedeltà a ciò per cui migliaia di uomini avevano dato la vita. Voltavano le spalle alla verità, diceva, a una vita in cui non manca nulla, per inseguire un’illusione. Ogni parola che usciva dalla sua bocca era un’ulteriore percossa al mio animo scomposto.
Per qualche tempo stetti lontano da Ines. Ogni tanto mi capitava di fermarmi davanti alla panetteria abbandonata, sotto cui avevo trovato il tunnel che portava a casa sua. Appoggiavo la bicicletta sporca ad un lampione e guardavo il muro, cerniera chiusa dei nostri mondi. E mi maledicevo per la curiosità che mi aveva spinto sin da piccolo a visitare luoghi abbandonati. La stessa curiosità che, bestia insaziabile, mi aveva spinto a percorrere quel tunnel. Non potevo rimanere troppo a lungo in quella posizione, il passaggio inaspettato di qualche guardia mi avrebbe messo nei guai. Non mi andava di avere problemi per cose da ragazzino; come lo erano un po’ di intraprendenza davanti a edifici in disuso e un’amicizia passeggera con una ragazza nuova, con cui non avevo amici in comune che mi prendessero in giro davanti a lei. Odiavo essere lo zimbello del gruppo.
Quando la rividi, l’estate era quasi finita. Presi coraggio e attraversai quel tunnel, che un tempo percorrevo quasi quotidianamente. Sbucai nel suo giardino, ma non era sul prato a leggere. Guardai attraverso la finestra, non era neanche in casa ad ascoltare la musica, o a guardare la tele. Non era da nessuna parte. Le mie scarpe grigie mi stavano riportando da dove ero arrivato, quando sentii una voce alle mie spalle: “Fermati, figliolo” era il padre di Ines, con i soliti jeans proveniente da un altro continente “cosa ci fai qui?” La voce tremava e la sua fronte era corrugata dalla preoccupazione, “Io… io… cercavo sua figlia. Mi scusi, non importa, torno a casa.” Mentre finivo di parlare, la porta che dava sul prato si aprì. Erano Ines e la madre, che parlavano a voce bassa guardandosi inquiete. Quando mi videro spalancarono gli occhi e deformarono le labbra in una smorfia nervosa. Ines mi venne incontro e mi strinse in un abbraccio veloce, in quell’attimo percepii il suo corpo rigido e scosso. “Oh Erich, dovevi tornare proprio oggi? Dove sei stato tutto questo tempo? Devi andartene subito. Vai a casa, corri.” Era Ines che mi parlava, ma con una voce adulta, quasi anziana. Faceva paura. Mi sentii un bambino davanti a lei. I miei occhi erano incollati ai suoi in cerca di risposta. “Ti prego, non posso spiegarti, vattene. Non capiresti. E per te è pericoloso stare qua. Non tornare mai più. Oh Erich, non so se potremo rivederci.” Mi diede un bacio appena accennato sulla fronte e si girò di spalle portandosi le mani davanti al viso. Suo padre mi fece cenno di andarmene, accarezzando la spalla della figlia.
Quando sbucai dalla mia parte del tunnel, stava iniziando a fare buio, le giornate si accorciavano. Mi avviai verso casa con la testa bassa. Tiravo calci ai sassolini che incontravo per la strada, le mani in tasca. Un rumore di passi in lontananza mi obbligò ad alzare gli occhi. Quattro persone, una famiglia probabilmente, che si avviavano verso la zona abbandonata di Berlino. I Figli erano appena bambini, il più piccolo fece cadere il peluche che stringeva tra le braccia. Proseguirono senza raccoglierlo. Non si accorsero di me, nascosto dietro un cassonetto per la paura che mio padre venisse a scoprire che frequentavo quella zona. Erano stretti tra di loro, si guardavano intorno attenti a ogni rumore improvviso. Girarono l’angolo nella strada da cui venivo io e sparirono dalla vista. Poco più avanti incontrai due soldati. Dai simboli che portavano sulla giacca marrone, perfettamente inamidata, e sui caschi senza ammaccature, capii che erano di grado più basso rispetto a mio padre. Un lampo di fierezza mi fece sorridere compiaciuto. “Ehi, giovanotto, hai visto quattro persone passare?” Mi chiese il più alto dei due, con rughe rabbiose che gli dipingevano il volto di odio. Un brivido mi scese lungo la spina dorsale, obbligando i muscoli a un istante di gelo. La mia testa parve incapace di razionalità per qualche secondo, finché non sentii un dolore acuto sullo zigomo e un rumore sordo al timpano. Mi portai la mano al volto e vidi sangue misto a lacrime in una sfumatura straziante di rosa sul palmo. Il soldato mi aveva tirato un ceffone. “Sono… sono andati da quella parte,” non sembravano essere soddisfatti, “verso la zona abbandonata. Non so altro vi prego.”
Mi lasciarono lì, seduto sul ciglio della strada. Con la guancia ricoperte di sangue e il viso pieno di vergogna.
Quella sera mio padre non tornò a casa e io non riuscii a prendere sonno.
La mattina dopo entrò che era ancora buio, io stavo seduto al tavolo a fissare la parete. In silenzio, prese la bottiglia quasi finita che avevo aperto la sera prima e ne fece un sorso. Ingoiò con disgusto quell’alcol da quattro soldi e il suo volto riconquistò un colore rosato. Non si accorse delle mie ferite. “Questa città è piena di ingrati” disse, strappandomi dal disordine dei miei pensieri, “cosa pensano di trovare dall’altra parte? Il lusso? Le belle donne? Un futuro migliore? Beh, non è così. Non ci arriveranno neanche dall’altra parte, quei bastardi. Li prenderemo e li uccideremo tutti. Dal primo all’ultimo.” La sua voce si faceva sempre più dura e vedevo i suoi muscoli irrigidirsi nei pugni. “Cos’è successo papà?” Provai a intercettare il suo sguardo ma pareva ormai troppo distante. “Quel tunnel, quel cazzo di tunnel. So che c’è da qualche parte. Ma stasera li fermiamo, eh!” Mi diede una pacca sonora sulla spalla. “Abbiamo scoperto che hanno organizzato una fuga anche per stasera, giù dalle parti della zona abbandonata. Non ci fregano un’altra volta. Li abbiamo in pungo quei luridi traditori. Nel pomeriggio li andiamo a prendere.” Prese un altro sorso dalla bottiglia, “anche tu da grande diventerai bravo come me a proteggerci dai disertori, te lo dico io, ti conosco. Mi farai onore quando ti sacrificherai anche te per quello in cui crediamo. ”
Appena mio padre andò a letto a riposare, uscii di casa. Il sole era già sorto; le vie erano piene di guardie. Scelsi una strada più lunga, ma più sicura. Corsi, con il fiato rotto e gli occhi sempre allerta. Arrivai all’imbocco del tunnel che le gambe mi tremavano e il cuore mi assordava. L’ho fatto decine di volte, ripetevo ininterrottamente a bassa voce. Non riuscivo a muovermi. I piedi parevano pesare tonnellate, le mani avvinghiate avidamente alla parete scavata. Guardai dietro di me, pensai alla mia casa, ai miei amici, alle strade di Berlino. Pensai al peluche del bambino, abbandonato sulle strade della sua infanzia. Entrai nel tunnel.
A casa di Ines dormivano ancora tutti. Bussai rumorosamente alla porta che dava sul giardino. Uscirono tutti e tre, ancora in camicia da notte e coi capelli scompigliati. Gli occhi, impastanti dal sonno, si sbarrarono immediatamente nel vedermi. Ines non era mai stata così bella. Presi le sue mani tra le mie, guardai tutta la famiglia: “Non c’è tempo, stanno arrivando. Dobbiamo portare tutti da questa parte nella mattinata. Vado a chiamare io quelli che devono attraversare, non c’è alternativa. Dove sono nascosti?” I tre mi stavano a sentire con la bocca spalancata. “Vengo con te, devo pur capire se si vive veramente bene dalle tue parti, come mi fai credere.” Mi disse Ines con le labbra forzate in un sorriso imbarazzato e lo sguardo impaurito.
Attraversammo il tunnel una dietro l’altro. “Ci credo che arrivi a casa mia sempre sporco. Pensare che io dai miei amici ci vado in macchina.”
Quando uscimmo dalla mia parte del mondo, mi disse che dieci persone si erano accordate per fuggire da Berlino Est per mezzo del tunnel quella sera. E che le ultime che aveva aiutato erano state nascoste in uno degli edifici abbandonati, forse la vecchia fabbrica di bulloni per le automobili.
Ne trovammo sedici di persone pronte alla fuga. Si erano aggiunti all’ultimo una coppia di anziani e una famiglia con due figlie adolescenti. Si dissero dispiaciuti per l’inconveniente di essere in più del previsto, ma non intenzionati a tornare indietro. Nessuno si aspettava che loro tornassero indietro.
Quando il gruppo arrivò alla panetteria abbandonata pioveva a dirotto. Si stringevano nelle giacche autunnali e proteggevano i figli dal vento fastidioso. Io mi guardavo intorno prudente, ma la visuale era drasticamente scesa da quando era iniziato il brutto tempo, e il rumore delle gocce che si frantumano a terra copriva tutto il resto. I primi ad attraversare il tunnel non ebbero problemi, Ines li aiutava a entrare mentre io facevo da guardia. Quando toccò all’anziano, eravamo circa a metà del gruppo, il passaggio nel cunicolo sera ormai pieno di fango, perché la gente entrava bagnata. Si scivolava con le mani a gattoni e si faticava ad andare avanti. Quel povero vecchio ci mise un’eternità ad arrivare dall’ altra parte. Lo sentivo arrancare e imprecare mentre litigava con la sua unica via di fuga e gridava il nome di sua moglie, che era già arrivata a dall’altra parte. Che folli, pensavo immaginandoli a Ovest abbracciati sotto la pioggia, lasciare tutto a quell’età e riiniziare da zero. Un brivido, che non aveva nulla a che fare con il freddo che mi penetrava nelle ossa, mi attraversò i muscoli per compiersi in un sorriso.
Mancavano quattro persone, oltre a me e Ines, quando sentii il rumore inconfondibile degli stivali perfettamente sincronizzati sull’asfalto. Non mi girai, non ne avevo bisogno. Urlai a Ines di far entrare tutti nel tunnel, contemporaneamente. Lei compresa, per ultima. I passi si avvicinavo, stavano venendo a prendermi. Disertore della patria, traditore di mio padre, fedele solo al mio destino di vinto.
“Non me ne vado senza di te, sbrigati” urlo Ines con le lacrime che disegnavano solchi luminosi sul suo viso infangato. Facevo quasi fatica a sentirla, sotto la marcia micidiale dei protettori dello Stato. La guardai un’ ultima volta, in tutta la sua fiera bellezza, guerriera incorruttibile. In silenzio, come quando ascoltavamo il volo degli uccelli nel suo giardino. Persi e ritrovati nell’incomunicabilità di quell’istante che apriva la cerniera di due mondi disgiunti. Ines entrò nel tunnel. Io mi girai verso mio padre.
Stava in piedi, con la pioggia che tingeva di scuro la sua divisa. Il caschetto a corniciare i lineamenti di quel volto così simile al mio. Il fucile in mano. Dietro di lui quattro soldati.
Mi guardava negli occhi, mio padre, ma sembrava non vedermi. Accecato dalla fedeltà politica. Uno sparo uscì dal suo fucile, sfiorò il mio orecchio con un fischio assordante. Colpì il muro, che crollò, chiudendo l’uscita del tunnel dalla nostra parte di mondo, mio padre, cecchino infallibile. Io rimanevo immobile, incapace di muovermi. Schiavo del suo sguardo impenetrabile. Si voltò improvvisamente. Io caddi in ginocchio, privato dei suoi occhi, fonte involontaria di forza.
Lo guardai allontanarsi con la camminata incerta. Si appoggiò al muro della panetteria e fece cadere il fucile sul pavimento bagnato. Io, guardandolo accasciarsi a terra, sentii un oggetto freddo appoggiarsi alla mia tempia. Era la canna gelida del fucile di uno dei soldati. Muoio per te, papà. Ti faccio onore.
Veronica Pajola
veronicapajola.studia@mohole.it
Una risposta a “IL TUNNEL DI DUE MONDI”
L’ho letto gustandomi le immagini, le sensazioni i suoni. Brava Veronica. Secondo me potresti renderlo anche più ricco , mi sembra di sentire il rumore dei tuoi pensieri che attraversano il cuore e la mente di Ines ed Erich. Prendilo per quello che è questo commento, non sono un’esperta….coraggio