Fece una lunga sorsata dalla cannuccia, il liquido si lasciò dietro una scia acre sulla lingua. I suoi amici tardavano a rientrare. Pensò che magari avessero incontrato qualcuna di interessante. Fece tintinnare il ghiaccio nel bicchiere. Lui aveva una concezione molto diversa di ciò che riteneva interessante. Se qualcuno avesse attraversato il bar nel lasso di tempo di quei pensieri, forse lo avrebbe visto sorridere tra sé.
Era seduto su uno dei divanetti a bordo pista e osservava oziosamente la folla che si agitava a poca distanza. Sotto le luci intermittenti sembravano cellule di un grande organo sanguinante, che pulsavano all’unisono. Con uno sbuffo si lasciò sprofondare nello schienale di pelle, mentre la musica techno gli riempiva i timpani. Di tanto in tanto un bicchiere schizzava a terra, ma nessuno pareva badarci. Le suole delle scarpe sgusciavano sul pavimento allagato come interiora svuotate. La scena gli provocava una sorta di ribrezzo, mescolato a un’eccitazione formicolante che gli si era accumulata alla base dello stomaco. Era una visione che lo disgustava e attraeva allo stesso tempo.
La plastica fredda del bicchiere gli condensava in mano, sentiva l’acqua accumularsi sotto le giunture delle dita. Reclinò la testa all’indietro, aspettando che l’alcol entrasse in circolo. D’un tratto si ritrovò a guardare il mondo dal basso in alto, in un bizzarro sottosopra.
Fu allora che la vide per la prima volta.
Era alta, e trangugiava un cocktail aranciato appoggiata alla parete in fondo al locale, lontana dalla massa. La vide pizzicarsi con una mano la stoffa iridescente del vestito, all’altezza delle anche, mentre la sua gola rimbalzava contro la trachea realizzando grosse boccate. Nate si drizzò a sedere e si voltò.
La ragazza aveva posato il bicchiere svuotato su un tavolo lì accanto, e ora si ravvivava i capelli scuri. Chissà se anche lei aveva le dita bagnate di condensa, pensò.
Il ragazzo scolò ciò che restava della sua bevanda, mentre quell’eccitazione di poco prima si faceva più intensa. Dopodiché, come per una foga inaspettata, si ritrovò inspiegabilmente in piedi. I suoi occhi sgomitavano febbrili tra la folla, per non perderla di vista.
Abbandonò il bicchiere da qualche parte e si avviò a lunghe falcate in direzione della ragazza. La calca e la nebbia creata dalle macchine del fumo lo fecero imprecare. L’aveva quasi raggiunta, quando i loro sguardi si incrociarono.
Lei aveva occhi piccoli e allungati, nero pece, penetranti nonostante i metri che ancora li separavano. Era rimasta ferma a guardarlo avvicinarsi, mordicchiandosi l’unghia dell’indice. All’improvviso qualcosa nei suoi occhi lo fece bloccare.
Così come si era ritrovato in piedi in una corsa sfrenata per raggiungerla, ora il ragazzo era ritto immobile a una manciata di passi dalla sua meta. Sentiva le pupille di lei punzecchiarlo come aghi sulle palpebre, come orticaria, come un’infezione purulenta che infiamma i dotti lacrimali. Nate sostenne il suo sguardo, le braccia abbandonate lungo i fianchi e la mente offuscata, come in dormiveglia. Schiuse la bocca ma non ne uscì parola.
Fu lei a parlare per prima.
“Ti serve qualcosa?”
Non rispose. Più lei lo guardava, più Nate sentiva i polmoni disidratarsi nella cassa toracica.
La ragazza lo affiancò.
“Vuoi ballare?”
I polmoni erano ridotti alle carcasse di due spugne essiccate che raschiavano le mucose.
“Ma hai pippato?” Le sopracciglia di lei si congiunsero in una strana espressione divertita.
“Voglio dire, no! Non ho pippato.”
“Certo…”
“E… mi andrebbe di ballare.”
Lei gli concesse un mezzo sorriso.
Nate notò che aveva un incisivo laterale molto storto, quasi girato di novanta gradi e perpendicolare alla gengiva. Per qualche ragione questo dettaglio lo rassicurò, sciogliendo la tensione che gli irrigidiva la mascella. Il ragazzo scosse la testa, e gli parve di udire il cervello rotolargli nel cranio come una piccola biglia vitrea.
Nel mentre, una punta d’orgoglio scricchiolava sotto i tacchi a spillo della sua interlocutrice.
Si inumidì le labbra. Con un movimento fluido colmò lo spazio che li divideva, arrivando quasi ad accostarle la bocca all’orecchio.
“Scusa, non so cosa mi sia preso.”
In risposta, la ragazza arrossì violentemente. Lui, conquistata la posizione di vantaggio, dovette trattenere un ghigno.
A guardarla così da vicino notò che aveva tratti asiatici, nella sua voce non c’era l’ombra di un accento. Le labbra piene erano screpolate e approssimativamente coperte di rossetto color melanzana. Lei le tendeva e le arricciava a ripetizione, nel tentativo di renderle più invitanti.
“Come ti chiami?”
“Kamakiri.”
Nate la osservò tendere e arricciare le labbra. Sorrise.
“È giapponese,” aggiunse.
“Mi piace.”
Le dita della ragazza gli avvolsero il polso e lui si lasciò trascinare in pista. In verità non gli piaceva ballare. Detestava la calca e gli urti che immancabilmente comportava lo stare in mezzo alla ressa. Ma aveva appena deciso che ne sarebbe valsa la pena.
Nate seguì Kamakiri sotto le luci stroboscopiche. Osservò il suo corpo muoversi flessuoso sotto al vestito leggero che indossava, e la lingua gli affogò nella saliva. La stoffa riluceva debolmente, le lasciava scoperte le spalle, su cui risaltavano ramificazioni di un grosso tatuaggio che doveva occuparle gran parte della schiena. Un’improvvisa curiosità gli esplose tra le sinapsi come un fuoco d’artificio.
Ora, dove la ragazza gli stringeva il braccio si stava creando un sottile strato di sudore, a Nate piaceva l’idea che non si potesse stabilire a chi dei due appartenesse.
Arrivati al centro della pista, lei lo lasciò andare e si voltò a guardarlo. Ballarono per un po’ senza goffaggine e senza imbarazzo. Kamakiri ondeggiava con movimenti sinuosi, agitava le braccia sottili sopra alle loro teste. Nate fu tentato più volte di afferrarle, per stringerla a sé, ma non fu necessario. Lei gli stava tanto vicina che spesso i seni gli sfioravano il petto. Lui poteva sentire i capezzoli turgidi stuzzicargli la pelle sotto alla maglietta. Rabbrividì.
Attorno a loro si era creato un piccolo spiazzo che nessuno osava invadere.
Gli occhi neri della ragazza luccicavano come bottoni di vetro ogni volta che venivano colpiti da un riflesso.
Nate sapeva che normalmente una così sarebbe stata al di sopra della sua portata, e che se non fosse stato per quell’incisivo sbieco la sua autostima non gli avrebbe retto il gioco abbastanza da permettergli di ballare con lei. Ma invece il dente c’era, perpendicolare, e lui si sentiva come un re.
Ogni volta che lei percorreva il suo corpo con lo sguardo, era come se gli rovesciasse addosso miele fuso, come se i suoi occhi gli colassero bollenti sulla pelle. Kamakiri, Kamakiri, Kamakiri! Nate non riusciva a pensare ad altro.
La baciò, e un sapore agrodolce gli riempì la bocca, esplosione di una bacca matura d’estate sulle papille gustative.
Ballarono ancora, i bassi ritmati a palpitare nei polpacci.
Dopo un po’ il ragazzo le circondò la vita con un braccio.
“Usciamo,” disse.
I due sgusciarono indisturbati fino all’uscita di sicurezza, Kamakiri spinse la maniglia a pressione con la schiena. Una volta fuori vennero accolti dalla luce dei lampioni, che lanciavano aloni sfarfallanti sul cemento. Attraversarono il parcheggio deserto, la ragazza si stringeva forte al braccio di Nate, camminando rapidamente.
Si diressero verso l’auto del ragazzo, che era parcheggiata lontano, vicino al cancello. Aperta la portiera, si infilarono sui sedili posteriori. Nate fremeva. La pelle olivastra di lei era ruvida di freddo sotto alle dita.
I finestrini della macchina si appannarono in fretta.
Se qualcuno avesse attraversato il parcheggio in quel lasso di tempo, avrebbe visto una Honda Civic del 2011 agitarsi furiosamente accanto al cancello, ma non passò nessuno.
Venti minuti dopo, nell’abitacolo le narici si riempivano della fragranza pungente di coito.
Le cosce nude di Kamakiri premevano su quelle del ragazzo, che le accarezzava le scapole, grato di quella pressione. Sorrideva, mentre lei disegnava con l’indice cerchi concentrici sul suo petto.
“Piccola, si sta facendo tardi…”
la ragazza sfregò piano la fronte contro la spalla di Nate, in segno di assenso.
“Forse dovremmo rientrare…”
Le dita di Kamakiri si fermarono bruscamente. Lui ne sentì il corpo tendersi, a contatto con il suo.
“Lo so, anche a me piacerebbe restare, ma i miei amici mi staranno cercando.”
Lei non replicò. Con un movimento lento cominciò a ritirare le braccia verso il grembo. Prese a sollevarsi piano, e quando si fu alzata del tutto restò ferma in una posa innaturale. Teneva le braccia piegate e le mani raccolte davanti al petto, una postura che ricordava un atteggiamento di preghiera. I capelli le coprivano in parte il volto.
Nate scoppiò in una risata e sollevò le mani ai lati della testa, come un bambino colto in flagrante. “OK-ok altri 5 minuti…” bofonchiò. Il suo volto era raggiante, e ignorò deciso un nodo in gola di inquietudine, che attribuì alla sensazione di essere in ritardo.
La guardava con gli occhi strizzati, avanzi di sudore contro la tappezzeria di nylon. Era felice, e Kamakiri bellissima, i suoi piccoli occhi come buchi neri assorbivano la luce bieca dei lampioni che filtrava dal lunotto posteriore.
Allora, d’un tratto, Nate udì un ringhio basso.
Il verso aveva preso a ribollire nella gola di lei, strozzato e gorgogliante.
D’istinto il ragazzo si irrigidì sul sedile. Il sorriso che gli scopriva i denti si incrinò di colpo.
In quel momento, la pressione prima tanto piacevole che esercitavano le gambe di Kamakiri contro i suoi fianchi cominciò a crescere. Il ragazzo si divincolò, ma le gambe di lei continuavano a stringere. La pressione aumentava, diventava sempre più forte, tanto da fare male. Poi, Nate sentì le ossa del bacino spezzarsi.
Un grido lancinante gli scorticò la gola.
Tentò di spingerla via. Urlò. Le colpì il viso.
Sapeva che era sbagliato ma la colpì con tutte le sue forze, e lei restò immobile, come se nemmeno l’avesse sfiorata. Kamakiri! Nate venne sopraffatto da una paura cieca che gli lacerò le cervella. Il sangue caldo zampillava sui sedili, colava fino alle caviglie, imbrattava le gambe della ragazza. Però lui non lo sentiva, non sentiva più i piedi, lei gli aveva tranciato il midollo spinale. Kamakiri, Kamakiri, Kamakiri! Emise un latrato, come un cane che crepa sgozzato. Il ragazzo le prese a pugni le costole fino a scorticarsi le nocche, ma lei non mollò la presa.
Nate aveva i polmoni scuoiati, macellati, le corde vocali sbrindellate, immaginò che gli restassero a penzolargli fuori dalle labbra.
La ragazza torreggiava su di lui, le mani strette a uncino contro la giugulare.
Nate emise un rantolo sommesso. Kamakiri! La sua faccia diventava sempre più violacea. Kamakiri! I bulbi oculari cremisi di capillari esplosi, fuori dalle orbite. Kamakiri no!
Le ginocchia della ragazza gli stavano strizzando i reni come una morsa d’acciaio e lui vedeva rosso, rosso, tutto rosso, e poi nero.
La kamakiri spalancò la bocca e ne uscì un ruggito sordo che sovrastò i lamenti soffocati del ragazzo. Dalle gengive della creatura spuntavano fauci come chiodi. L’incisivo storto non c’era più. Bava calda le colava lungo il mento, cadeva densa sulla pancia nuda di lui, dove le ossa avevano trapassato la carne. Affondava le unghie nel collo e il sangue scuro si raccoglieva nelle clavicole.
Se qualcuno avesse attraversato il parcheggio in quel lasso di tempo, avrebbe visto la Honda Civic dondolare ancora più violentemente di qualche istante prima.
Forse allora avrebbe udito urla lancinanti sovrastare il rimbombo della musica.
Forse avrebbe visto una giovane donna, con un enorme insetto sacro tatuato sulla schiena, lasciare l’auto con i vetri insanguinati, indisturbata.
Tuttavia, non passò nessuno.
Benedetta Presazzi
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