Annegare. Deve essere una morte dolce, pensava, cullati dall’acqua in un silenzio impenetrabile. Persino in quei Fiordi sempre spolverati di neve, riusciva a immaginare di scendere dalla barca e scivolare nel torpore; un brivido gelido e il buio. Sarebbe stato un bel luogo per una simile morte, la scena perfetta, come una moderna Ofelia. Osservò il proprio riflesso distorto dalle onde, un sorrisetto sulle labbra sottili. Non aveva nessun motivo per morire, avrebbe mancato di poesia, e poi nonostante fosse svedese aveva occhi e capelli neri, non era certo l’Ofelia di Millais. Immaginava certe cose per via dell’ostinato silenzio del suo accompagnatore; pensò che il giovane pescatore sarebbe stato felice di vederla scendere dalla sua barchetta in legno per sfuggire alla loro meta e ne rise.
Lui le lanciò uno sguardo torvo. Erano quasi arrivati. Non le parlava da quando, al molo, Johanne aveva deciso di ignorare i consigli dei locali e lo aveva pagato per portarla alla Grotta dell’Aquila. Avrebbe preferito qualcuno più propenso ad aiutarla, ma lui era l’unico a non aver rifiutato, convinto solo dall’offerta di denaro esagerata; sembrava che tutti i norvegesi della costa fossero superstiziosi.
Signorina, disse l’uomo, te lo devo chiedere. Sei davvero sicura? I fantasmi della grotta non sono una leggenda, è già capitato che qualcuno sparisse.
Lei lo guardò, scosse il capo con leggerezza.
Siete tutti paranoici, disse. Le sparizioni non sono altro che scherzi di pessimo gusto e forse un paio di sfortunati incidenti.
E allora perché nessuno ha portato via il relitto?
Suppongo sia incastrato o troppo fragile, dovranno studiare un metodo adeguato a non danneggiarlo.
Ma gli studiosi non sono mai tornati dai rari sopralluoghi, replicò il pescatore. Mai. Anzi, lo svedese dell’anno scorso è stato ritrovato con un pugnale nella gola. Suicidio, dicono. I vichinghi devono averlo fatto impazzire, questa nave è stata affondata proprio dagli svedesi, si prendono la loro vendetta come possono.
Johanne rise. Dici così solo per spaventarmi di più. Hai capito da dove vengo per l’accento?
No. Perché, sei svedese anche tu? chiese, un tremore nervoso nella voce.
Che importa? Grazie degli avvertimenti, ma non credo in queste cose. Ho delle fotografie da scattare.
Io ti ho avvertita.
Rimasero in un silenzio ostile, mentre lui tentava di accostare l’imbarcazione al misero ritaglio di roccia dell’entrata, le mani che stringevano i remi tanto da arrossare le dita e sbiancare le nocche. Si rifiutò di scendere. Toccò a lei portare l’attrezzatura, rischiando di scivolare a più riprese per il peso degli obiettivi nello zaino e impossibilitata a reggersi con le mani per via del cavalletto. Non l’avrebbe infastidita l’assenza di aiuto, se non fosse per la paura di finire in acqua con la costosa macchina fotografica.
Riuscì a entrare senza intoppi, contro ogni previsione, e il relitto le tolse il fiato. La nave occupava gran parte della spiaggia rocciosa, la chiglia lacerata poggiava sulla parete umida in modo da nascondere la polena. Il legno spezzato non sembrava essere marcio in nessun punto e le alghe avevano attecchito solo sotto lo scafo. Sul ponte intravedeva le vele lacerate, le asce, gli scudi. La luce di mezzogiorno penetrava a fatica.
Iniziò a scattare frenetica, in cerca di impostazioni e inquadrature, ma ben presto si trovò a dover aggirare l’imbarcazione. Non c’era altro passaggio se non nell’acqua che si insinuava fino al fondo della grotta, così camminò vicino alla riva, stretta nel giaccone. Gli scarponi non bastavano a impedire che il liquido gelido raggiungesse i calzini e provocasse brividi in tutto il corpo.
Era quasi buio da quel lato, ma si vedeva la polena, una testa di drago intarsiata, ed era possibile salire sul ponte, sempre che il legno non cedesse. Johanne si avvicinò a passi lenti. L’aria era pesante, l’odore salmastro si sommava a un che di stagnante e ferroso che prima non aveva notato e si faceva più marcato a ogni passo, tanto che giunta alla nave dovette coprirsi il naso. Pensò ci fosse qualche animale morto nel relitto. Sfiorò la polena, concentrandosi sulla sensazione del legno ruvido, coperto da un velo di condensa. L’odore si fece più forte. Poi sentì le urla, il suono di corni, lo stridio del metallo. Fece qualche passo indietro, tremante, ma il piede perse aderenza e si ritrovò a terra, le mani affondate in una pozza di liquido viscoso, rosso cupo, tiepido contro la pelle. Sangue. La chiazza si espandeva come se il liquido fuoriuscisse dal terreno, fino a coprire del tutto la spiaggia. Lasciò macchina, cavalletto e zaino per correre verso l’uscita, ma appena toccò l’acqua si accorse che mancava l’appoggio. Il suo corpo sprofondò, i flutti si chiusero sopra di lei. Annaspò. Lasciò che l’acqua entrasse. Un rombo le invase le orecchie mentre si abbandonava al mare, incapace di muovere un solo muscolo. Stava annegando, non c’era niente di dolce.
Riprese conoscenza annaspando, qualcosa di appuntito sotto le ginocchia. Tremava. Il corpo asciutto, la stoffa calda contro la pelle. L’unica traccia di umido era sulle guance rigate di lacrime. Sollevò le palpebre. Era in ginocchio sulla spiaggia, il relitto ancora tra lei e l’uscita, i muscoli ancora rigidi come pietra.
Uno scricchiolio. Intravide delle figure in controluce muoversi sul ponte spezzato. Scese un uomo, passi accompagnati dal clangore del metallo. Ne delineò i contorni man mano che si avvicinava; la grossa stazza, il mantello di pelliccia, barba e capelli intrecciati. Trasportava pali e corde, andava verso di lei. La ragazza, accasciata a terra, restò immobile e lo guardò, inerte anche quando l’uomo la spostò rozzamente e legò braccia e gambe, la corda tanto stretta da limitare la circolazione sanguigna. Lo sguardo del vichingo era carico d’odio, eppure finito il lavoro si allontanò. Al suo posto, una donna. Non sapeva dire se fosse sempre stata lì o semplicemente non l’avesse vista arrivare. Abbigliata in modo simile all’altro, lo stesso sguardo furente, tra le mani un pugnale e un’ascia. Fece voltare Johanne con un calcio, a un tratto sentì la pressione delle rocce umide contro il fianco. Era nuda dalla vita in su, i seni schiacciati sul terreno duro. Bastava la presa salda della guerriera a tenerla prona, la lama contro la schiena, alla base della colonna vertebrale. Il pugnale affondò e l’urlo fece vibrare l’aria.
Le mancò la vista, per rimettere a fuoco ci volle tempo, un tempo in cui le sembrò di staccarsi dal corpo. No, non sembrava, era successo. Due lei stavano in quella grotta, entrambe a terra, a contorcersi e gridare. Osservava i movimenti della lama, gli spasmi del proprio corpo che non poteva controllare ma con cui condivideva le sensazioni.
Il sangue colava lungo la schiena, la pelle aperta a mostrare la carne viva. Il pugnale scorreva a sinistra delle vertebre, lento, dal coccige alla scapola e poi di lato, fino a staccare lo strato di carne che copriva le costole. La stessa cosa a destra, inesorabile. I grossi lembi di tessuto pendevano di lato come ali spezzate e prive di ossa, che spiccavano sulla schiena aperta, coprendo solo in parte gli organi interni. Lei stessa sembrava solo una frattaglia gettata sul pavimento di una macelleria.
La vichinga ripose il pugnale solo per sostituirlo con l’ascia. Metallo contro ossa, una scossa elettrica fino al cervello. Recise il collegamento tra costola e vertebra. Per ogni costola. Una alla volta. Numerosi colpi per ognuna, numerose scariche elettriche, convulsioni. Terminato il taglio, prese le costole tra le mani una a una e tirò. Le posizionava in modo che sporgessero all’indietro e verso l’esterno, foglie di contorno a un bouquet umano. Il corpo alla sua mercé era svenuto da un pezzo, ma l’altra Johanne era sveglia, subiva a pieno ogni minimo dolore. Li vide posizionare i pali, legare il corpo per i polsi, le braccia aperte. Uncini trafissero i lembi di carne attaccati ai fianchi, corde li tirarono all’esterno perché sembrassero inequivocabilmente ali. I pantaloni ridotti a brandelli, i seni martoriati, la lingua quasi spezzata in più punti e i denti coperti di sangue che le colava sul mento. La guerriera affondò le mani tra i suoi organi, strinse i polmoni lasciandola senz’aria e tirò fino a spezzare la trachea, fino a farla scivolare fuori dalla ragazza. Lei emise un rantolo e il buio l’avvolse.
Tornò cosciente. La spiaggia era lì, coperta di sangue, il relitto davanti a lei. Un profondo respiro e corse verso l’acqua. Non servì. Stava annegando di nuovo. Voleva lasciarsi andare, ma il suo corpo non accettava di cedere. Aprì gli occhi. Nel buio iniziò a distinguere qualcosa. Legno, forse botti, pietre, e cadaveri. Corpi in armatura cadevano intorno a lei, il sangue che fluttuava nell’acqua. Riuscì a schiudere le labbra, i polmoni corrosi dal sale, l’agognato silenzio. E poi la spiaggia. Asciutta, in ginocchio, i vichinghi che la raggiungevano dal ponte. Tentò di restare lucida, di capire il motivo di quella tortura, ma appena la lama affondò perse la ragione. Rantoli, urla, la voce che scortica la gola dall’interno. Sentì ogni ferita, ogni colpo, fino a diventare un grumo di sé che si guardava appesa ai pali. Fino a vedere i polmoni gettati a terra. Il buio. Ancora la spiaggia.
Tentò di nuovo di fuggire. Due, tre volte. Sempre l’acqua, l’annegamento, i vichinghi, l’aquila. Tornata l’ennesima volta sulla spiaggia non sentiva più il corpo, non aveva un corpo, non provava nulla. Nessuna sensazione tattile, nessuna consapevolezza di sé. Senza dolore aveva solo il vuoto. Si rannicchiò contro lo zaino, la guancia affondata nel sangue, i capelli che vi galleggiavano. Pianse, ma nemmeno sentiva le lacrime scorrere o i polmoni allargarsi di più in cerca d’aria tra i singhiozzi. Non era viva. Non era nulla. Solo il dolore poteva renderla qualcosa. Guardò l’acqua. Un lungo respiro senza effetti, qualche passo avanti. Il piede oltre la riva, il corpo pesante sotto la pressione. Bruciava ancora, sentiva ancora, il torace in procinto di esplodere e il rombo nelle orecchie. Sorrise. Un sorriso distorto, tutto denti, che permetteva all’acqua di penetrare solo pochi centilitri alla volta. Rimase con la schiena inarcata come durante un orgasmo, gli occhi sbarrati fissi sui cadaveri, il sale che corrodeva i tessuti dall’interno come il dono di un dio impazzito. Prima di scivolare nel buio riconobbe la donna che la torturava, gettata in acqua senza ferite, senza sangue. Povera, povera donna, pensò, morta per una semplice caduta non potrà andare nel Valhalla; un peccato, con un viso del genere sarebbe stata una valchiria perfetta.
Quel pensiero le rimase in testa al risveglio, quando legata vide l’altra avvicinarsi. Ma questa volta il calcio non la girò e non rimase nuda, questa volta il pugnale fu gettato ai suoi piedi e la vichinga parlò senza muovere le labbra. Ucciditi, disse, se vuoi essere libera. Johanne la guardò, il volto inclinato da un lato, corrucciata. Il bruciore dell’acqua era scomparso, senza l’aquila non sarebbe tornato nessuno stimolo e lei per la prima volta era certa di non voler morire. Prese l’arma tra le mani, i polsi ancora bloccati l’uno sull’altro dalle corde, e le tornò il sorriso animale. Puntò la lama. Poggiata nell’angolo del labbro, avanzò aprendo la guancia fino all’orecchio. Il sangue macchiava i denti scoperti, le colava sul busto, mentre la vichinga restava a distanza. Johanne continuò a sfigurarsi, i brividi che la scuotevano sembravano lasciarla estatica. Il volto lacerato era ormai irriconoscibile quando si fermò.
Non ti lascerò sola alla tua sofferenza, mia valchiria, disse con occhi spiritati, per poi alzarsi e baciare il volto gelido dell’altra, lasciandolo coperto di sangue.
Il pescatore aveva atteso per lunghe ore, nel silenzio del Fiordo. La fotografa non tornava, ma lui non era riuscito a fare più che alzarsi in piedi sulla piccola barca e tornare seduto, scosso dai brividi al solo pensiero di cercarla. Giunto il tramonto la chiamò a gran voce. Non ci fu risposta.
Quando la guardia costiera giunse a controllare il luogo lo trovò vuoto, nessuna traccia del corpo o dell’equipaggiamento, nessuna traccia di colluttazione, nessuna macchia di sangue. Le ricerche furono inutili e a distanza di anni l’indagine fu archiviata per mancanza di prove; nel piccolo cimitero svedese, sotto i pioppi del lato nord, fu eretta una lapide senza salma. C’erano sempre fiori freschi, ma la donna che li portava veniva vista solo dal custode, di sfuggita, nella penombra dell’alba. Se ne andava sul sedile passeggero di un vecchio Pick Up. Il giovane alla guida era sceso solo una volta, per posare un portafoto contenente la stampa dell’Ofelia di Millais.
Alessia Arpetti
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