Di Francesca Negrini
Alla me di 12 anni e alla mia più cara amica Costanza.
And I sound like an infant
Feeling like the very last drops of an ink pen
A greater woman stays cool
But I howl like a wolf at the moon
And I look unstable
Gathered with a coven round a sorceress’ table
A greater woman has faith
But even statues crumble if they’re made to wait
I’m so afraid I sealed my fate
No sign of soulmates
I’m just a paperweight
In shades of greige
Spending my last coin so someone will tell me
It’ll be ok.
The prophecy, Taylor Swift.
“Dall’amore del padre degli Dei e di una donna mortale scelta dalla luna, nascerà colei che governerà la Grecia nella grande guerra, come unica prescelta, frutto dei lembi di Zeus. Cacciata dalla sua patria, crescerà in tempi lontani, e farà ritorno solo quando l’ultima nave sarà approdata sotto le mura nemiche”.
Eco aprì di scatto gli occhi, aveva dormito un’ora. Sentiva profumo di terra arida e di mare, una voce fuori la chiamava; era Ulisse.
Vedeva la sua ombra da fuori la tenda, dritta e possente. “Dobbiamo andare”, le diceva. Eco si alzò stropicciandosi gli occhi. Cercava lo specchio, il lavandino, la spazzola ma non aveva nulla; non c’era nulla lì.
Quando uscì, con indosso una tunica di seta bianca, Ulisse era già sparito. Seguì la strada tra le tende; i soldati erano in fermento mentre Eco gli passava accanto, tutti vestiti delle loro armature, intenti ad affilare spade e lance, come se quello sarebbe stato l’ultimo giorno di pace prima della guerra. Nessuno la degnava d’uno sguardo, di un grugno, di una scossa del capo; piccola e minuta, Eco camminava a testa bassa con la mano davanti agli occhi per proteggersi dalla luce dell’alba. Poteva solo guardarli per qualche istante e impadronirsi della loro ira, della loro forza, della loro prestanza mentre passava e, in un secondo, scompariva nella grande tenda.
Quando entrò Ulisse e Nestore stavano parlando chinati sul tavolo. Eco si avvicinò e guardò le mappe che ormai pensava di conoscere a memoria, aspettando che si alzassero in segno di saluto.
“Agamennone sta arrivando”, disse Nestore.
Eco aveva sentito il suo nome dai soldati; lo pronunciavano come fosse quello del padre severo, con i denti stretti e scandendo ogni lettera, tenendo una mano sulla spada e l’altra sul petto, descritto come un Dio rabbioso sceso dall’Olimpo per fare giustizia sugli uomini. “Ucciderebbe senza sforzo cento uomini alla volta”, dicevano. “E’ come una bestia furiosa”, le disse Ulisse il suo primo giorno all’accampamento.
Prima che lei potesse proferir parola, gli spessi drappi della tenda si aprirono ed entrò uno spicchio di luce: Agamennone rimase all’entrata e li guardò. Il bronzo dell’armatura risplendeva e ne faceva vedere tutte le ammaccature e i graffi. Eco Lo immaginò in battaglia, sporco di sangue, a gridare al Cielo. In mano teneva la lancia dritta, pronta a trafiggere chiunque gli capitasse a tiro, esattamente come lo avevano descritto. Eco sentì i suoi piccoli occhi penetrare piano ogni strato della sua pelle fino ad arrivare alle ossa, come la più affilata delle spade. Ulisse lo invitò ad entrare, nessuno fece le presentazioni.
Eco si era ancorata alla sedia, concentrandosi unicamente su quello che Nestore le aveva detto qualche giorno prima:” La spada e la paura sono le due cose che uccidono un uomo sul campo ma tu, che sei al comando, non puoi né morire né avere paura.” E così Eco si tenne con la schiena dritta, sentendo le vertebre inclinarsi sotto il peso dello sguardo di quell’uomo che neanche conosceva, colma di paura fino all’ultimo centimetro del suo corpo ma con lo sguardo alto.
“Cosa stiamo aspettando?Lo sto domandando a te”, chiese lui rivolto ad Eco, sedendosi al capo della tavola. Eco tenne la bocca serrata sapendo che, se avesse parlato, il suo sguardo sarebbe crollato con lei.
“Le stiamo spiegando come colpire un uomo, come difendersi, quando attaccare da est e quando da ovest, se e quando è meglio farlo di notte o di giorno”, gli spiegò Nestore.
“Non si impara la guerra, si fa”, disse lui.
“Tu sei un guerriero nobile e capace, Agamennone. E’ la tua forza a parlare per te”, rispose Ulisse.
“I miei uomini sono insofferenti, ad aspettare chiusi nelle loro tende un’ordine che sembra non arrivare mai. Sento la loro ferocia, come cani incatenati”.
“Questi non sono i tuoi uomini, Agamennone. Non su questo campo”, rispose Nestore, seduto accanto a lui.
Eco, aggrappata alla sedia, non smetteva di fissare Agamennone: guardava la sua postura dritta, ascoltava quel tono di voce forte e squillante che la faceva stare lì, in silenzio, come una bambina finita per sbaglio al tavolo dei grandi. Sentiva il sangue ribollire nelle vene davanti al timore misto al rispetto che provava per quell’uomo.
“Non saranno i miei uomini ma è me che vogliono al comando”.
“Sono io il comandante”, disse Eco a quel punto, rompendo il suo silenzio, sguinzagliando l’unica arma che aveva a disposizione. Le mani strette ai braccioli della sedia tremavano mentre lui, svelto, venne verso di lei. Eco rimase immobile sul posto, lui era a pochi centimetri dal suo viso, che la fissava. Sentiva il suo fiato lurido e la barba ispida pungerle la pelle.
Ulisse aveva fatto un passo verso di loro, solo il tavolo a creare distanza.
“Voglio versare il sangue di quei cani dei troiani, lo vogliamo tutti noi. Siamo nati per questo, abbiamo lasciato le nostre mogli e i nostri figli. Alcuni finiranno qui la loro vita”, Agamennone parlava a denti stretti. Eco pregò suo padre per non farla morire impalata su quella sedia. A quel punto lui si avvicinò al suo orecchio, ed Eco rabbrividì.
“Non sei degna del sangue che ti scorre nelle vene, né di comandare gli eroi su quel campo”, sibilò.
“Adesso basta”, disse Ulisse, sbattendo una mano sul tavolo. Da fuori si sentì un rumore sordo, come fosse un tuono; mentre Ulisse li aveva raggiunti dall’altra parte del tavolo. Agamennone teneva una mano sulla spada, lo sguardo così minaccioso che le parve potesse far iniziare una tempesta li, dentro la tenda.
Ulisse si voltò leggermente per guardare Eco. “Cosa ti ho sempre detto? Che sei come un tuono, perché quello ti scorre dentro”, poi si voltò e guardò Agamennone in cagnesco.
“Fuori da questa tenda, al di là delle mura, ci sono uomini indegni che ci deridono, che hanno mancato di rispetto al cadavere del re mio fratello, che hanno rubato la sua amata sposa!”, urlò lui.
“Se attaccherai ci farai uccidere tutti, perché avrai fatto un torto al padre degli Dei”, disse Ulisse.
“Sarà lei a salvarci e dare l’ordine”, disse Nestore dietro di lui.
Agamennone, con la mascella serrata, guardò Eco con lo sguardo bieco e le nocche bianche strette sull’elsa della spada. Lei non smise di pregare un secondo, a testa alta e con la bocca serrata; poi lui uscì, e Il suo passo pesante sollevò la polvere rossa, che Eco guardò volteggiare nell’aria per qualche istante, prima di appoggiarsi di nuovo al suolo. Fuori il sole era sparito e la tenda pareva buia come fosse arrivata la notte.
Ulisse si girò piano e tornò a sedere. “Se vuoi stare qui devi imparare a combattere le tue battaglie”, le disse.
Eco scosse la testa e sbatté gli occhi, le caddero delle lacrime, a cui tranciò il tragitto prima che potessero cadere a terra.
Il sole tramontava dietro l’accampamento mentre Eco stava uscendo dalla tenda scortata da Ulisse.
“E’ usanza accompagnare il comandante alla sua tenda dopo ogni concilio”, le diceva. Camminava accanto a lui che, con andatura eretta, veniva salutato da ogni uomo con un cenno del capo. Lei, di parecchie spanne più piccola, faticava a stare al suo passo.
Ripensava a quello che le aveva detto Nestore poco prima. “Per uccidere un uomo gloriosamente trapassa il suo petto da parte a parte con la spada, dritto sul cuore. Fai arrivare l’elsa fino in fondo, e il suo viso sarà vicino al tuo tanto che lo sentirai esalare il suo ultimo respiro”, le disse. “Rubare l’ultimo respiro di un guerriero in battaglia ti darà forza”.
Eco pensava a se stessa, vestita di bronzo, brandire una spada e lanciarsi sul cuore di un uomo per trafiggerlo, per ucciderlo, senza mai riuscirci. Arrivati alla tenda Ulisse chiese se poteva entrare e lei acconsentì.
“Dobbiamo dare l’ordine al più presto, o lo farà Agamennone”, disse, rimanendo dritto davanti all’uscio della tenda.
“Cosa dovrei fare?”, chiese Eco, in tono secco. Nella testa risuonavano le parole di Agamennone, il suo fiato sul collo mentre la intimidiva.
“Loro si fidano di Agamennone, per loro lui è il comandante. Se lo seguiranno moriranno tutti, se non per mano dei troiani allora per volere di Zeus.”
Eco lo guardava, la mascella serrata e le mani strette in un pugno.
“E’ l’ora di capire perchè sei qui”, le disse Ulisse.
“Io non avevo una scelta. Ho lasciato casa mia, ho lasciato mia madre e per cosa?”, urlò lei.
“Nessuno ha scelta, e tu devi ancora imparare cos’è l’onore.”
Eco sentiva la gola secca e gli occhi, spalancati, erano fissi su di lui. Non c’era più odore di terra, né rumore da fuori, come se anche il campo fosse a riposo per la prima volta dopo settimane. Sentiva solo un lungo fischio nelle orecchie e la sua voce, chiusa in testa, che le diceva di non piangere.
“Fai una scelta, o la farà Agamennone per tutti noi”, disse Ulisse, a concludere, prima di congedarsi.
Eco sentiva pulsare gli occhi e le vene delle mani, così strette che le nocche erano sbiancate, mentre fissava il punto in cui poco prima c’era stato Ulisse.
Si ripeteva di muoversi, di darsi un contegno, ma intanto il suo corpo rimaneva immobile, intimorito dal fatto che sarebbe bastato un soffio di vento per frantumarlo e ucciderlo. Ma quando lo mosse, e fece un passo dritto davanti a sé, chiuse gli occhi ed esalò un lungo respiro: era viva.
“C’è un intero cielo da attraversare per arrivare alla luna, non è vero?”, disse.
Seduta sulla sabbia, Eco lasciava che l’alta marea le accarezzasse la tunica bianca e la punta dei piedi. La pelle d’oca sulle braccia tese.
Ogni sera Eco camminava lungo il mare, da sola, e si sedeva solo quando non sentiva altro che il rumore del mare. Li, da sola, l’alta marea della sera la cullava con le sue onde, per farla addormentare.
“Eppure da qui sembra così vicina, come se bastasse…”, allungò la mano verso la piccola sfera e finse di accarezzarla, nelle mani il vuoto.
Un’onda le sfiorò le caviglie, quella dopo le ginocchia e poi le cosce; le mani affondate nella sabbia bagnata.
“Da piccola mi portavi al mare quando ero malata”, disse, guardando la luna.
“Andavamo a Santa Monica e mi dicevi di respirare a fondo, che mi faceva passare la tosse. inspira, espira, mi dicevi”, disse, poi prese un profondo respiro e lo trattenne nei polmoni, per risputarlo fuori dopo qualche secondo.
“Io volevo nuotare…ma tu mi dicevi di respirare”.
Inspirò forte e trattenne tutta l’aria nei polmoni, le guance tese e gli occhi fissi al cielo. Il mare rumoreggiava e sentiva quello scroscio riempirla, entrarle dentro il naso, le orecchie, la bocca, bruciarle la pelle dal freddo.
“Mamma dimmi di respirare”, la voce le tremava.
Eco prese un altro respiro trattenendolo tra le labbra. Arrivò un’onda che le bagnò i fianchi, la pancia, le braccia fino ai gomiti; le mani intrappolate nella sabbia. Espulse l’aria e si accasciò a terra, l’acqua la intrappolò qualche istante e le entrò nella bocca, facendola sputare tra i singhiozzi.
“Dimmi cosa devo fare”, bisbigliò, gli occhi chiusi e la schiena, i capelli, le mani piene di sabbia.
Tutto a un tratto il rumore delle onde parve cessare, e senti un fischio così forte che ruppe l’aria. Eco si alzò e guardò il campo lontano dietro di lei, illuminato dalla luna. La terrà tremò per un attimo ed Eco, barcollando, si alzò. Il cielo, prima terso, si ricoprì di nuvole. Un fuoco lontano mandava fumo in aria, le urla rieccheggiavano dal campo. Eco incominciò a correre.
La bocca secca era piena di terra e di sabbia,Eco teneva le mani strette al corpo e i capelli bagnati si erano attaccati alla fronte.
“Sono dentro”, Ulisse marciava verso la sua tenda, ad ogni passo faceva battere la lancia a terra. In testa l’elmo rifletteva la luce della fiaccola che teneva in mano, lo scudo attaccato alla schiena si muoveva al ritmo del suo passo.
“Sono passati dal bosco, sono stati appostati e hanno aspettato. Ho mandato cento uomini”.
“Dovevo dare io l’ordine”, fu l’unica cosa cosa che Eco riuscì a dire, come un pensiero che era uscito dalla sua bocca, non rivolto a nessuno.
“Perchè non eri nella tua tenda?”.
“Se un uomo arrivasse ora pronto a uccidermi e io fossi sola, morirei”.
Ulisse continuava a camminare instancabile ed Eco stava dietro di lui, muovendosi piano, arrancando a ogni suo passo, finché non si fermò. Lui si voltò per guardarla, intorno a loro l’accampamento in movimento.
“Ho chiesto perché non eri nella tua tenda”. Eco alzò lo sguardo e guardò la luna nascosta tra le nuvole.
“Morirei, non è vero?”, chiese.
Intorno a loro uomini in armatura correvano, inseguendo le urla che riecheggiavano in lontananza. Eco vedeva i loro volti dietro l’elmo, i ghigni inferociti di chi voleva uccidere, di chi sapeva come ferire e di chi avrebbe incontrato la morte; poi vedeva se stessa piccola, bagnata, senza armatura e senza armi.
Ulisse, muto, sollevò lo sguardo e riprese a camminare dritto davanti a sé. Eco lo guardò allontanarsi finchè non scomparì tra gli uomini.
Eco, nella sua tenda, sentiva il rumore del guizzo del metallo e del legno che si scontrano, sentiva le urla degli uomini che imperversavano a pochi chilometri da lei. In contrasto il rumore del campo, silenzioso, come se ogni altro uomo si fosse inginocchiato nella propria tenda per pregare il Cielo, o maledirlo. A ogni battito d’occhi vedeva Agamennone in aria, fendere la sua spada nel petto di un uomo e, insieme, la lancia nel fianco di un altro. Vedeva Ulisse rimbalzare sui cadaveri dei suoi amici e dei suoi nemici, stesi a terra, boccheggianti tra la vita e la morte, per evitare l’avanzata. Vedeva Nestore rubare l’ultimo respiro di un uomo. Vedeva soldati morire a testa alta,l’onore come unico conforto. Vedeva uomini lontani da casa, vedeva sé.
Chinata sul suo giaciglio, le braccia strette al corpo tremante e la tunica, infradiciata dal mare, la facevano apparire come una bambina malata che sarebbe morta da un momento all’altro.
Con le ore che passavano, stremata dal rumoreggiare delle armi e dalla potenza delle grida, teneva le mani strette sulle orecchie e gli occhi chiusi, stretti il più possibile. L’unica cosa spalancata era la bocca, per pregare come le aveva insegnato Nestore.
“Padre mio, ti prego, salva gli uomini che combattono sotto il mio comando”, ripeteva. Sentiva che quelle parole, uscendo dalla sua bocca, perdevano tutto il loro valore perché lei, quegli uomini, sapeva di non averli mai comandati e che mai li avrebbe comandati. Unendo tutto il suo coraggio fu capace di alzarsi, aprire il suo corpo prima chiuso, e uscire. Fuori dalla tenda sentiva le grida ancora più forti, e vedeva una nube di fumo alzarsi in cielo. Eco la guardò qualche istante prima di iniziare a camminare verso il mare, il fumo dietro di lei. Ogni uomo che incontrava correva verso il bosco con la spada in mano dritta, pronta a fendere un colpo, senza che girassero mai lo sguardo verso di lei. Quando vide il mare dal bordo del campo iniziò a correre, cercando la luna nel cielo.
“Se sono figlia di un tuono, allora colpiscimi”, urlò, la voce coperta dal rombo di un fulmine, sotto la pioggia che iniziava a scendere rapida su di lei mentre si gettava in acqua. “Colpiscimi!”, ripeteva, facendosi sovrastare dalle onde; il cielo sopra di lei rimbombava. “Mira me, prendi me”, gridò. Si girò e vide a malapena i fuochi del campo dietro di sé, e non sentì più riecheggiare le armi sugli scudi, o i lamenti di chi, accasciato a terra, moriva. C’era solo il mare agitato e lei che nuotava senza sosta. “Avanti!”, continuava ad urlare, con tono euforico, sbattendo le braccia sulla superficie dell’acqua, finché un rumore simile a uno strappo imperversò nell’aria. Eco alzò lo sguardo e una forte luce la abbagliò: dal cielo, rapide, caddero delle saette bianche, che si gettarono nell’acqua, creando un cerchio intorno a lei. La sua pelle scintillava mentre i fulmini danzavano sul mare, creando scariche elettriche che le toccavano le braccia, la punta delle dita, il viso e i lunghi capelli. Eco sentiva le vene gonfie di sangue, pronte a esplodere, e respirava l’energia delle scariche come fosse ossigeno mentre, urlando al cielo, sentiva solo il cadere incessante dei fulmini intorno a lei e il mare che la portava sempre più in là.
Di Francesca Negrini