Legami


Non c’è più. Andrea si accasciò sul pavimento. Gli occhi sbarrati rivolti verso il corpo pallido erano come spilli conficcati in una bambola vudù, ma lui non voleva fare del male a nessuno, voleva solo che nonno Gio tornasse. I baci sulla guancia e gli asettici “condoglianze”, ricevuti al funerale e nei giorni successivi, non lo confortavano affatto. Gli ricordavano quanto gli mancassero le vigorose strette del nonno che era in grado di spezzare le noci a mani nude e le lotte di wrestling in salone che si concludevano con le risate. 

Sei andato a scuola, gli chiese la madre. L’unica risposta fu il brusio delle foglie nel vialetto.

Allora? Appoggiò gli occhiali sul tavolo e squadrò Andrea. 

Ti odio.

Tratti così tua madre? Vergognati!

Non te ne frega un cazzo che non c’è più.

Andrea si mise in spalla lo zaino e fece per spingere la maniglia della porta. Aspetta. La mano della madre sul polso. Sono stanco di aspettare. Si slegò dalla stretta e corse fuori.

La villa dai vetri rotti, accerchiata da un giardino incolto, si faceva spazio al di là del cancelletto arrugginito, quattro viali di distanza da casa di Andrea. Ricordava ancora il viso scavato e la sedia a rotelle abbandonata in un angolo mentre gli altri anziani camminavano con il bastone e giocavano a carte; le infermiere, invece, chiacchieravano all’ombra degli alberi. 

La pioggia scrosciava sul suo collo, in prossimità dell’apertura della mantella rossa. Sprofondò nell’erba e con la vista annebbiata si mosse a tentoni. Il rombo di un tuono lo fece sussultare, si lanciò sulla sedia a dondolo sotto il porticato. Oscillò e si girò a guardare lo schienale. Era inciso il nome del nonno. Sentì una spinta da dietro e cadde di lato. Il braccio sanguinava. 

L’odore d’incenso si mischiò a quello di umidità e gli occhi del ragazzo si accesero. Corse all’interno dell’edificio. L’aria era più gelida di quella fuori. Un grido. Si guardò intorno: il lungo corridoio era diventato una sala piena di bare. L’ombra sulla parete e Andrea si avvicinò. 

Le vene sui polsi fuoriuscirono e si legarono al petto di una figura dal viso scavato, punteggiato da macchie marroni. Muoveva le braccia su e giù e quando il ragazzo si avvicinò ebbe un attimo di timore a farlo. Gli sollevò le palpebre. Si accorse che non aveva le pupille.

Cosa ti è successo, gli domandò con la voce spezzata dal tremolio.

Non sorridi più.

Ma ora che sei qui sono felice. 

Dovrei essere dall’altra parte. 

Non mi vuoi con te?

Certo, ma guardami e guardati.

Le unghie affilate dell’uomo sfiorarono la spalla di Andrea e lo ruotarono verso uno specchio.

I ciuffi inzuppati spuntavano dal cappuccio della mantella e si avvizzivano sugli occhi incavati e avvinghiati da chiazze nere. Sbarrò gli occhi.

Vedi? Stai morendo anche tu.

Ma è impossibile.

Ti sei fermato e quando ti fermi il tempo scorre più veloce.

Mi manchi tanto.

Anche tu piccola peste. 

L’uomo afferrò le vene e le strinse forte, trascinò il ragazzo a sé. 

Non te ne andrai. 

Le unghie si allontanarono dal pavimento e lo stritolarono. Le grida: Che stai facendo? 

Le ossa di Andrea si frantumarono. Cenere eravamo e cenere torneremo, insieme, disse l’uomo.

Un ombrello tra le due lapidi e i fiori soffocati dalla pioggia.

Marco Omodei
marcoomodei.studia@mohole.it


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