Makhabel


Una ragazza dai capelli corvino cammina imperturbabile fra i corridoi stretti e fiocamente illuminati dell’Academè; fuori è notte fonda e regna il silenzio. Fra le braccia tiene un paio di libri e a tracolla un contenitore cilindrico, occupato da varie pergamene ben curate.
Nonostante porti scarpe formali, con il tacco basso, non emette un suono, non disturba il silenzio carico di trepidazione. Svolta a destra. Si sta già pregustando il momento; le basta fare ancora qualche passo e la incontrerà. Solo una porta le divide. Bussa. «Eliane?
Finalmente! Ce ne hai messo di tempo. Entra pure, ho già preparato il necessario per il rituale.» Isabelle sta in piedi davanti a un tavolo lungo, gremito di strumenti meccanici, beute varie, libri e sottili canaletti che convergono al centro, dove si trova un fumante alambicco. La nebbia densa emessa dal contenitore avvolge tutta la stanza, ma non è così densa da impedire la vista. Eliane saluta con un cenno Isabelle. «Allora, Eliane, iniziamo? Ho già svolto un paio di passaggi del rituale, ma ora mi serve la tua assistenza. Sono eccitatissima!» Eliane la guarda, alza un sopracciglio e si mette lentamente ad approntare il
resto del rituale. «Ah, ovviamente non scorderò mai quanto sei stata disponibile. Il professor Alanvard sarà così fiero di me! Non potrà fare a meno di accettarmi come sua apprendista», blatera ancora Isabelle lanciandosi verso il formulario appoggiato sulla sedia. Riesce a malapena a interpretare quei glifi; quindi lo passa a Eliane che, con un gesto leggermente stizzito volta pagina. Il rituale viene completato e l’alambicco al centro del tavolo inizia a pulsare, il fumo diventa rosa e un profumo pungente si diffonde nell’aria. Al che Eliane prende l’alambicco, lo sgancia dai canaletti e ne beve il contenuto; tutto sotto gli occhi
sbarrati e l’espressione attonita della compagna. Il corpo della ragazza dai capelli corvino inizia a contrarsi, qualcosa sotto la pelle ribolle. Davanti a Isabelle non c’è più la ragazza di prima, ma una figura alta, completamente nuda, dalla pelle grigio smunto, le unghie nere e appuntite, gli occhi rossi, i capelli lunghi e unti, le sue fattezze maschili; e senza dire una parola si avventa su Isabelle.

A Tembrine la luce del sole penetra a malapena attraverso l’occulta coltre di nere nubi che ne invade costantemente i cieli. Levaire guardò verso l’alto e si chiese se un giorno si potranno dissolvere, per sentire la carezza del sole sulla pelle. Ma come si fa a volere qualcosa che non si è mai sperimentato? Non riuscì a darsi una risposta; il procedere del pensiero di Levaire venne interrotto dalla richiesta di un cliente. I suoi grandi occhi azzurri, tratto tipico della razza mezzelfa alla quale appartiene, gli si rivolsero come a tentare di esprimere una muta scusa. Il mezzelfo non si poteva più permettere pause, non nel caotico
pub in cui lavorava, “l’Uccello Canoro”. Tornò al lavoro un po’ di malavoglia, ma la giornata stava per giungere al termine e sarebbe tornato a casa. Nessuno avrebbe voluto ritrovarsi fuori di casa dopo il calar del sole; la densità dell’oscurità, a quell’ora, era tale da rendere inutilizzabili gli atomizzatori d’ombra, piazzati a ogni angolo delle strade. Si era sempre chiesto come funzionassero, anzi lo aveva ripetutamente domandato anche a Eliane che, però, non riusciva a farglielo entrare in testa. La tua predilezione per le discipline scientifiche e pari alla mia pazienza, Levaire, gli diceva spesso lei. C’entrava l’assorbimento
dell’oscurità, e poi seguiva un procedimento di dissolvenza che non creava luce, ma “toglieva” le zone di ombra, anche perché gli atomizzatori non potevano comunque sostituire le comuni fonti di luce, come i lampioni. Un concetto che Levaire comprendeva a malapena. Lui era sempre immerso nella musica, lo si trovava sovente con un libro o uno spartito in mano. Amava anche imparare nuove lingue e scoprirne le origini ma, nonostante questa inclinazione accademica, non si sentiva portato per la magia, men che meno per la
Arcanotechné. Lanciare incantesimi e inventare strumenti magici non faceva per lui. In questi campi, però, Eliane era un prodigio; le sue umili origini non le avevano impedito di accedere all’Academè, la più prestigiosa scuola arcana di Tambrine. I due erano cresciuti insieme, nel Distretto mediano. Ora, all’età di diciannove anni, sapevano di dover prendere
strade diametralmente opposte, ma non ci pensavano e si godevano l’affetto, e amore, reciproci.

Che bello tornare nella propria Pelle dopo così tanto tempo, pensa Makhabel; adorava le
giovani biondine come Isabel. Indifese, petulanti, ingenue, così facili da manipolare. Non si
era nemmeno accorta dello scambio e che Eliane non aveva mai parlato con lei. La
guardava, bocconi sul pavimento, nuda, le vesti completamente lacerate. Si era a malapena
opposta, dopo l’iniziale penetrazione. Sulle vergini i suoi poteri avevano più effetto e la
trasformazione avveniva più rapidamente. Makhabel se ne rammaricava qualche volta, il
divertimento durava poco, e con Isabel non era durato molto, non lo aveva nemmeno colpito
una volta; che spreco, aveva pensato. Ma ora non importa più, quel che importa è esser
riuscito finalmente a riprodursi. Isabel, ricoperta di unghiate, sangue e altri liquidi violacei
era in procinto di completare la trasformazione in un’Entità. Il canto lontano delle cicale
distrae per un attimo Makhabel, il retro della testa inizia a pulsare lentamente e un ronzio
pungente gli infesta le lunghe orecchie. Con uno sbuffo di frustrazione, ritorna a indossare la
Pelle di Eliane e, a lunghi passi, si allontana dalla camera.

Levaire vide un gatto, tutto nero e dal pelo unico; striature dorate decoravano il suo magro
corpo, e il pelo corto ne esaltava la forma. Lo riconobbe subito. Era il gatto di Eliane, una
creatura misteriosa, dall’intelletto superiore rispetto a ogni altro membro della sua razza.
Nari era il suo nome e si presentava saltuariamente alla finestra del mezzelfo per scroccare
un po’ di cibo, affetto o semplicemente per farsi notare. Questa volta, però, Nari era
inquieto. La coda ondeggiava freneticamente, saltellava qua e là, ignorando persino l’offerta
di cibo. A Levaire venne il sospetto che la sua amica fosse in pericolo, quindi si alzò dal letto
sul quale stava leggendo. Era ancora vestito; gli bastò indossare i suoi comodi stivali per
essere già pronto a seguire l’agile creatura magica. Nari lo aspettava al piano di sotto, sul
pianerottolo dell’abitazione, ma non prima di avergli indicato di portare il flauto traverso in
legno. Levaire si dovette calare dalla finestra del primo piano, per timore di svegliare
qualche membro della sua famiglia. L’ultima cosa che voleva era svegliare il padre o la
madre malata… soprattutto non il padre. Il gatto lo condusse per le strade notturne,
guidandolo fra i tetti della città mentre teneva alla larga le Ombre che abitano
frequentemente la notte. Sarebbe bastato un loro tocco, soltanto un minimo contatto, per
vedere la propria forza venir meno. Se il contatto fosse stato prolungato, cosa che è nel

diretto interesse dell’Ombra, la vittima sarebbe potuta addirittura morire. Nari respingeva
queste Entità, Levaire ne era affascinato, ma non ebbe il tempo di chiedersi come tutto
quello avvenisse, molti dei misteri della magia gli erano ignoti ma era sicuro, anzi sperava,
che la magia che avvolgeva Nari li avrebbe protetti. L’incantesimo, però, si ruppe a un certo
punto, e alcune Ombre si diressero in direzione della coppia. Ora le vedeva da vicino, le
Entità che infestavano la regione di Inneris, della quale Tembrine è solo una piccola parte:
fiammelle crepitanti, danzanti nel buio, che svolazzano placidamente in ogni dove. Spiano,
affannate, alla ricerca di forme di vita vulnerabili alla quale sottrarre la scintilla della vita,
per poi nutrirsene con la vana speranza di tornare allo stato precedente, quello di forme di
vita mortali. Numerosi viticci ombrosi si estesero verso Levaire, gettatosi in una corsa
frenetica a per di fiato, il sudore gli imperlava la fronte pallida, i capelli ordinati svolazzavano
al vento. Davanti a sé solo Nari, che emanava una flebile luce dorata, a guidarlo; quando
questa luce scomparve, sotto di lui, poco più avanti, si sentì perso. Fu una sonora botta alla
testa, preceduta da una caduta sorprendente, a farlo riprendere. Attorno a lui un manto
d’erba ben curata, davanti a sé una luce vagamente soffocata, quella di una porta d’ingresso
verso la salvezza.

Eliane è esperta di evocazioni. Ma non riconosce il rituale che è stato approntato nella
stanza sottostante la propria, quella di uno studente del secondo anno, lo si capisce dalla
distanza in altitudine dei piani nei quali si trovano le varie stanze nell’Ala studenti. A giudicare dai tomi sparpagliati tutt’intorno, probabilmente usati come consulto per il
procedimento, il praticante ha esercitato una forma di Magia Planare, pensa Eliane, e la
confonde inizialmente per magia di Richiamo, me è probabilmente Alchimia Planare; gli
strumenti scientifici e tecnici usati come medium lasciano dedurre ciò, ma solo a un occhio
attento. Una disciplina pericolosa non praticata da studenti del secondo anno di
un’accademia appartenente all’apparato scolastico imperiale. Eliane si gratta la testa,
preoccupata e perplessa. Queste sensazioni si tramutano immediatamente in terrore quando
svolta a sinistra, oltre il lungo tavolo di mogano in centro alla stanza. Una figura umanoide,
appiccicata al suolo, si contorce mugugnando flebilmente, immersa in una sostanza densa di
colore violaceo e amalgamata a quello che sembra sangue. Nari è lì con lei, nella borsa. Salta
fuori, allarmato e comprende la situazione; un’Entità si sta formando davanti ai loro occhi.
Eliane frappone il tavolo fra sé e la nascitura Entità, lancia un semplice incantesimo di Tutela
su Nari e lo incarica di andare a chiamare Levaire. Se Nari ed Eliane avessero ragione
riguardo la natura di questa specifica Entità, la musica diverrebbe l’unica soluzione per
salvarla.

Nari si trovava sull’uscio e fissava Levaire, i muscoli in tensione. Il mezzelfo tentò di alzarsi,
contemporaneamente si spinse in avanti, verso l’entrata, ma scivolò sull’erba e ricadde a
terra, prono, fra il giardino e l’interno della struttura. Ansimava, il cuore nelle orecchie e la
camicia di lino impregnata di sudore. Si alzò, questa volta con più calma, e si chiuse la porta
decorata alle spalle. Nari continuò a fissarlo, come se uno sguardo così intenso potesse, per
osmosi o chissà come, trasmettergli la stessa concentrazione in cui era immerso lui. Levaire

si asciugò rapidamente il sudore dalla fronte, guardò in alto e capì di trovarsi nell’Ala
studenti, zona femminile, dell’Academè. Non era la prima volta che gli succedeva di trovarsi
“fuori orario” in quell’Ala della scuola. Nari gli graffiò debolmente le caviglie per riottenere
la sua attenzione, poi si diresse alle scale del primo piano. Un grido femminile divenne
presto la sua nuova guida fra i corridoi neri, non illuminati, come l’atrio che si lasciava alle
spalle. Corse senza preoccuparsi del rumore prodotto dai suoi passi pesanti o degli oggetti
urtati nell’oscurità. Nari lo superò, gli illuminò il cammino, ma entrambi andavano nella
stessa direzione: l’aula di Isabel. Levaire, trafelato, spalancò la porta dell’aula e soffocò un
rantolo disgustato di fronte al tanfo che assalì il suo olfatto; era come un profumo dolce, ma
amplificato centinaia di volte ed emanato da un grosso bozzolo viola livido che inghiottiva
un terzo della stanza. Eliane, nella parte opposta, recitava una nenia lenta. La ragazza
appariva spossata, larghi aloni di sudore facevano capolino da sotto le braccia, e Levaire si
sentì spaesato; una serie di eventi bizzarri erano ricaduti su di lui, voleva aiutare, ma sentiva
di non avere gli strumenti per fare nulla, Entità, magia e avventura non gli appartenevano,
erano così distanti dalla sua realtà quotidiana. Eliane interruppe il suo flusso di coscienza e
lo costrinse ad agire; indicò il suo flauto traverso, riposto in una custodia al fianco del
mezzelfo. Lo estrasse senza esitazione, le mani tremanti si fermarono immediatamente
quando vennero posate sullo strumento. E un fiume di note si riversò nella stanza. La
cantilena di Eliane cessò per lasciare spazio alla musica quasi sovrannaturale creata da
Levaire. Il bozzolo, rigonfio e dal profumo nauseabondo, iniziò a pulsare e delle urla
soffocate iniziarono a propagarsi dal bozzolo. Poi, la pulsazione lasciò spazio a una frenetica
vibrazione, mentre il suo volume scemava a vista d’occhio. Dopo poco, un flusso di materia
liquida, appiccicosa, calda e vagamente fumante invase metà della stanza e alla sua origine
c’era Isabel, ferita, dagli occhi sbarrati, dall’espressione distorta dal terrore e dal dolore, ma
viva. I due amici, affaticati nel corpo quanto nell’animo, si lasciarono andare a un abbraccio
potente. Sapevano di aver salvato delle vite, comprese le proprie, ma soprattutto quella
della povera ragazza. Il pericolo era passato, ma l’espressione di Eliane lasciava intendere
qualcosa; qualcuno si era introdotto nella scuola, o era sempre stato lì, e aveva attentato
alla vita di una studentessa per fini occulti. Forse il vero pericolo era lungi dall’essere stato neutralizzato.

Gabriele Abbiati
gabrieleabbiati.studia@mohole.it


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