Jenny era in piedi davanti al palazzo dell’azienda MindTech. Faceva caldo e la luce del sole si rifletteva sulle vetrate trasparenti dell’edificio.
La ragazza indugiò un paio di minuti prima di entrare. Guardò l’orologio: le 11:01, era in perfetto orario.
Entrò nel palazzo, al piano terra un tale via vai che quasi non si riusciva a camminare. Dopo aver strisciato tra la gente, Jenny passò davanti all’ascensore e optò per le scale. Salì fino al decimo piano e raggiunse la sala d’attesa. Si presentò alla segretaria.
“Buongiorno, sono qui per la simulazione.”
“Certamente, il suo nome?”
“Sono Jenny Coleman del New York Times. Mi hanno incaricato di scrivere un articolo sul fenomeno del momento.”
“La stavamo aspettando Jenny,” disse la segretaria con un sorriso inquietante mentre recuperava dei fogli sul tavolo. “Deve compilare questi moduli, ci vorrà solo qualche minuto.”
Sul primo foglio era richiesto l’inserimento dei dati anagrafici e di menzionare le tre maggiori paure, il resto trattava le informazioni sulla privacy. Il contratto non menzionava effetti collaterali o conseguenze psicologiche e fisiche. Appose la propria firma e consegnò i moduli alla signora dietro la scrivania.
Qualche minuto dopo comparve un uomo. Si presentò come il dottor Gregor; alto, robusto, sbarbato e con occhi color ghiaccio. Probabilmente aveva una cinquantina d’anni.
Il medico la invitò ad accomodarsi nello studio. Jenny si sdraiò sul lettino bianco, le mani intrecciate e i muscoli irrigiditi. Si guardò intorno: era tutto così bianco: dal soffitto alle pareti, dai mobili alle sedie, dal pavimento alle finestre. Al muro erano appesi dei quadri con diversi titoli di laurea in psichiatria e neuroscienza.
“È uno strizza cervelli,” notò Jenny.
“Mi sono laureato in psichiatria a trent’anni, poi ho capito di essere più interessato alle neuroscienze cognitive. Con il tempo ho voluto combinare sia la parte psicologica della mente umana sia la parte anatomica e biologica. Un connubio eccezionale!”
Jenny sospirò. “Uno strizza cervelli,” ripeté.
“Non amo questo termine. A ogni modo, così è nato MindTech. Anni di ricerca hanno portato a qualcosa.”
“Sono un po’ in ansia per la simulazione.”
“Seguirò la procedura con lei. Si rilassi,” le disse, mentre estraeva da una boccetta un chip verde, simile a una pila. “Immagino sia già informata. Il chip viene appoggiato sulla tempia e manda le informazioni al lobo temporale, precisamente all’amigdala, il complesso nucleare che gestisce le emoz…”
“Sì so cos’è,” lo interruppe Jenny. “Ho fatto anatomia al liceo.”
“Non è doloroso,” riprese il medico. “Ma la sua mente la porterà in diversi luoghi e potrebbe essere destabilizzante.”
L’ansia lasciò posto alla curiosità.
“Mi sono informata al riguardo,” disse lei. “Fisicamente rimarrò in questa stanza. Mentalmente sarò altrove. Roba del futuro insomma.”
Il medico sorrise. “Corretto, lei non si muoverà da qui. Lo prenda come un sogno in cui, però, ha la possibilità di prendere decisioni.”
“Dove mi troverò dopo aver cominciato?”
“A questo non posso dare una risposta. Sarà il suo inconscio a guidarla.” Il medico mise il chip alle estremità di una pinzetta. “È importante che non si faccia prendere dal panico. Trovarsi di fronte alle proprie paure o fobie è più difficile di quanto si immagini, ma lei deve ricordare che non è reale.”
“Nel contratto chiedete di menzionare le maggiori paure a scopo informativo?”
“Per farci un’idea di come potrebbe andare la procedura. Solo lei potrà vivere l’esperienza, io guarderò su questo schermo e in base alle frequenze capirò se è rilassata o se il panico avrà la meglio. Quando è pronta, cominciamo.”
“Sono pronta,” disse Jenny.
In realtà non lo era per niente.
Il medico annuì e posizionò il chip sulla tempia della ragazza. Lei chiuse gli occhi e la sensazione fu quella di sprofondare.
Quando li riaprì era in una piscina. Guardò le mani che accarezzavano la superficie dell’acqua e d’istinto urlò terrorizzata. A parte lei, nessun altro. Non aveva mai imparato a nuotare; a quattro anni era quasi affogata e il trauma l’aveva sempre tenuta lontana dall’acqua. Dopo qualche istante di paura si rese conto che non stava annegando: le gambe si muovevano in modo ritmico e la tenevano a galla. Per la prima volta la ragazza visse l’esperienza di restare in una piscina senza paura di calare a picco. Provò ad avanzare, aprì le braccia per darsi la spinta nell’acqua cristallina. Era una sensazione piacevole, così tanto che Jenny si mise a pancia in su e si godette i raggi che le scaldavano la pelle. Sapeva di trovarsi dentro a una sorte di simulazione, ma tutto sembrava reale. L’acqua, il sole sul viso, la sensazione di stare a galla.
Nuotò per raggiungere il bordo della piscina, ma nel momento in cui infilò la testa sott’acqua si ritrovò in una casa di legno. Si guardò intorno: una testa di cervo imbalsamata attaccata alla parete, un vecchio fucile da caccia in mostra sul mobile, le tende a quadri rosse e bianche. Era la baita dei nonni. Lei la considerava la casa degli orrori. Sempre infestata dai ragni.
Camminò lenta nel corridoio mentre il parquet cigolava sotto i piedi a ogni passo, poi udì un rumore al piano di sotto. Si affacciò sul pianerottolo e vide le scale ricoperte da loro. Portò una mano alla bocca per soffocare un grido e si rifugiò nella camera dei nonni, sbattendosi la porta alle spalle. Calò un silenzio tombale che le mise i brividi. Sentì qualcosa caderle sui capelli. Alzò lo sguardo: il soffitto era tappezzato di ragni. Ne cadde un altro e un altro ancora, così la ragazza si ritrovò sotto una pioggia di aracnidi. Si girò in direzione della porta per scappare dalla stanza, ma come in un incubo, la parete era vuota. Nessuna porta, nessuna maniglia, nessuna via di fuga. Intanto i ragni continuavano a cadere, le ricoprirono la testa, le entrarono nella maglietta, altri nelle orecchie e nel naso. Jenny chiuse gli occhi, per un attimo pensò di soffocare. Ripeté più volte tra sé e sé che nulla era reale.
Quando li riaprì era in un ascensore, piccolo e stretto. Lo sentì iniziare a scendere. La ragazza strinse i pugni e tentò di respirare in modo calmo. In un attimo i bottoni dei piani si illuminarono in modo simultaneo. L’ascensore ebbe un sobbalzo e si bloccò. Poi iniziò a precipitare. Con il cuore in gola, la ragazza portò le mani alla testa e urlò di tirarla fuori dalla simulazione.
Il buio.
Poi una voce lontana.
“Respiri Jenny. È qui con me, è al sicuro.”
Jenny si ritrovò di nuovo nella stanza insieme al medico. Si guardò intorno spaventata, l’uomo teneva tra le mani una pinzetta con il chip verde.
“Ma cosa…,” balbettò Jenny. “È stato terrificante.”
“La sua reazione è più che comprensibile. Beva un po’ d’acqua, tenga,” il medico le porse un bicchiere.
“Non ho sete.” Rispose secca. “Ho pensato di morire. Sembrava reale,” disse portandosi le mani alla gola. Le sembrava ancora di precipitare.
“È riuscita a sconfiggere una delle sue tre paure, la più grande. È un grande traguardo se consideriamo che è la sua prima simulazione!”
Jenny socchiuse gli occhi. “Come sa che era la mia più grande paura?”
Il medico si irrigidì sulla sedia. “È stata la prima che ha menzionato tra le tre, nel contratto. La prima è sempre quella più grande.” Si trascinò con la sedia fino a un armadietto e ripose il chip in un cassetto con il nome di Jenny Coleman. “Pura psicologia Jenny, nulla di più.”
La ragazza si strinse nelle spalle. Il fenomeno di MindTech era esploso solo un mese prima, ma molti l’avevano già provato. Nessuno che lei conoscesse, ma le testimonianze erano state tante. Molta gente aveva ammesso di aver superato le proprie paure. Tuttavia, in quel momento ogni aspetto le sembrava ambiguo. Non si fidava più delle parole del medico.
“Non posso dire altrettanto riguardo ai ragni e agli ascensori,” riprese l’uomo mentre annotava qualcosa su una cartella.
“Quanto tempo è durato?” Chiese Jenny.
“Circa tre minuti.”
La ragazza sgranò gli occhi. “Tre minuti? A me sembrano passate ore.” Guardò l’orologio. Le 11:25.
“Tutto regolare cara Jenny. Quando sogniamo ci sembrano sempre passate ore, poi al nostro risveglio ci accorgiamo di aver dormito solo qualche minuto. O viceversa”
“Non è la stessa cosa…”
“È capitato che alcuni pazienti avessero allucinazioni o perdite di memoria nei giorni successivi alle cure,” la interruppe l’uomo.
“Non erano menzionate nel contratto,” contestò Jenny. “Non è una cosa da poco.”
“Sono rari i casi, circa uno su mille. Erano soggetti predisposti a psicosi, ma nella sua cartella non leggo precedenti di malattia mentale. In ogni caso è mio dovere farglielo sapere.”
Jenny scese dal lettino barcollando e si mise in piedi di fronte a lui. “Niente di tutto ciò era scritto nel contratto. Prenderò provvedimenti legali. Ecco cosa scriverò nel mio articolo.”
L’uomo le sorrise, le prese la mano e gliela strinse per salutarla. “Lei è ancora sotto shock Jenny. Si conceda qualche giorno per rimettersi e poi ci sentiamo. Spero di rivederla presto e poter continuare la seduta.” E così si congedò.
Jenny si ritrovò davanti all’ascensore. Le porte si aprirono, entrò e premette il pulsante del piano terra. Non appena il mezzo iniziò la discesa, le luci iniziarono a funzionare a intermittenza. Jenny confusa si chiese cosa facesse all’interno di un ascensore. Si ritrovò nel buio per un paio di secondi, e quando le luci si riaccesero abbassò lo sguardo e notò il suolo ricoperto di ragni. Urlò, ma questa volta nessuno poté tirarla fuori da lì.
Chiuse gli occhi e respirò profondamente. Li riaprì. Jenny si trovava fuori dal palazzo. Si guardò intorno confusa. La gente camminava per la strada, faceva caldo, il sole si rifletteva sui vetri.
Una scena familiare, come un déjà-vu. Guardò l’orologio: le 11:01.
Paola Masala
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