Mi svegliai senza la minima idea di dove potessi essere, col sole negli occhi, il terreno sotto di me, e tre alte mura di pietra che mi circondavano. L’ultima cosa che ricordavo era la mia scrivania, sommersa di libri di scuola. Nient’altro. Guardai attorno e mi mancò il respiro. Che fosse un sogno? Mi diedi un pizzicotto sul braccio, sentii il dolore ma niente accadde. Era impossibile, comunque, che un sogno fosse così vivido. La parete dietro di me era fredda al tatto, troppo liscia e perfetta perché la potessi arrampicare. Le altre due si allungavano in un sentiero che sembrava non avere una fine; l’unica strada. Cominciai a camminare. Il silenzio mi circondava, il mio respiro si faceva più pesante a ogni passo. C’era il sole, ma i raggi sembravano non raggiungere la terra. Come se fosse solo un disegno nel cielo.
Camminai per diversi minuti, finché non intravidi qualcosa. Poco lontano la strada si divideva in due. Un bivio. Guardai prima a destra. Era un sentiero uguale a quello che avevo percorso finora. Liscio e pulito, illuminato dal sole. Poi guardai a sinistra. Il sentiero era scosceso, le mura storte, delle pietre erano cadute e bloccavano parte della strada. Non ero mai stato molto bravo nelle decisioni, ma in quella situazione la scelta mi sembrò evidente. Presi la strada a destra, continuando il mio cammino. Non passò tanto, però, che qualcosa mi fece inciampare, e caddi a terra. Mi girai, per capire cosa fosse stato, e urlai. Il cuore iniziò a battere forte alla vista di quella forma irregolare, contorta. Lì, ai lati della perfetta strada che avevo scelto, c’era un cadavere. Un uomo adulto, con occhi spalancati in orrore, vuoti di ogni segno di vita, e la pelle bianca, macchiata da tagli rossi che gli segnavano il viso. Sangue bagnava i vestiti e il terreno accanto a lui. Scappai via, tornando sui miei passi, da dove ero venuto, col cuore in gola e lacrime che minacciavano di cadere. Corsi veloce, scappando da qualsiasi fosse la causa della morte di quella persona. Ma mi fermai, urlando ancora. Perché lì dove poco prima c’era la strada e il bivio, ora c’erano solo detriti. La pietra si era sgretolata, il terreno era scomparso, lasciando spazio al nulla. Mi avvicinai, stando attento alle crepe che mi circondavano i piedi, e tremando allo scricchiolare della roccia. Guardai in basso, ma non si vedeva il fondo del precipizio. Era tutto buio lì sotto. Come se la strada fosse stata risucchiata da un buco nero. Mi tirai indietro e, con un profondo respiro, continuai verso la strada che avevo scelto. Guardai dall’altra parte quando incontrai ancora quel corpo, mi sforzai di camminare ogni volta che ne trovavo un altro, e aumentai il passo quando da lontano sentii il suono di versi disumani.
Da quel punto in poi ci furono altri bivi, ognuno con la stessa scelta del primo, una strada ben battuta e l’altra scoscesa e difficile da percorrere. Scelsi sempre la seconda. Il terreno rendeva il cammino più arduo. Più camminavo più si alzava la nebbia e il cielo diventava scuro. La terra si riempiva di radici e le rocce, prima lisce, venivano frantumate da piante che sembravano nascere dal loro interno. Ma non trovai più corpi, e quello mi bastò per scegliere ancora e ancora quella via.
Poi mi venne in mente. Se prima le pareti erano troppo lisce per essere scalate, ora erano frantumate, scheggiate da piante e rami che creavano facili appigli. Per la prima volta da quando mi ero svegliato sentii uno spiraglio di sollievo. Iniziai a scalare, aggrappandomi a rocce e rami. La stanchezza mi appesantiva il corpo ma non mi lasciai andare. Continuai ad arrampicarmi, per non più di tre metri d’altezza, finché le mie mani non toccarono la superficie più alta. Mi tirai in piedi, e dall’alto finalmente vidi tutto. Era un labirinto. Così immenso che non si vedeva la fine. Dietro di me la strada che avevo percorso aveva continuato a frantumarsi nel nulla, ma non sembrava volermi far cadere nel vuoto, solo non farmi tornare sui miei passi. Davanti a me la strada era lunga, ma lontano, al limite della mia vista, il disegno del labirinto si stringeva in quello che doveva essere per forza il centro. Era chiaro che non potessi tornare indietro, era il centro che dovevo raggiungere. Forse lì ci sarebbe stata l’uscita. O forse avrei trovato la morte.
Ma ora che avevo raggiunto la cima della parete sarebbe stato facile continuare. Dovevo solo camminare e dall’alto avrei visto tutto, e sarei stato lontano da qualunque essere facesse quei versi, da chiunque avesse ucciso quelle persone.
Così feci un passo. Ma non riuscii a farne un altro, che la terra iniziò a tremare. Guardai alle mie spalle. Il dirupo, che fino a quel momento aveva seguito a distanza i miei passi, si stava sgretolando a vista d’occhio. Corsi. Più veloce che potevo, senza guardare il vuoto che si creava dietro di me. Pensando solo a non cadere, a correre lungo la parete. Ma il vuoto mi stava raggiungendo. Lo sentivo sotto i miei passi, nella roccia che si frantumava proprio sotto i miei piedi. L’adrenalina mi rendeva cieco, e caddi dal muro, atterrando su una radice che mi tolse il poco respiro che mi era rimasto. Sentivo le orecchie fischiare, non riuscivo ad aprire gli occhi. Il fianco mi faceva male e il dolore si estendeva lungo tutta la schiena. Non riuscivo ad alzarmi. Con gli occhi serrati aspettai di cadere nel vuoto del precipizio.
Ma il dolore passò. I suoni tornarono, e quando anche il respiro si fu calmato mi accorsi che la terra non tremava più. Aprii gli occhi. Il terreno aveva smesso di sgretolarsi a pochi metri da me. Nello stesso istante in cui ero caduto a terra, si era fermato.
A quel punto non avevo altra scelta che continuare lungo il sentiero.
Camminai per ore. Ma potevano essere minuti e non avrebbe fatto differenza. Il silenzio stava iniziando a farmi impazzire, la strada infinita mi faceva girare la testa. Oppure era la fame, che mi bruciava lo stomaco.
Mi fermai quando le gambe minacciarono di cedere. Sapevo di non poter addormentarmi, che non sarebbe stato saggio, ma mi cadevano le palpebre. Riuscii a resistere solo perché, anche quando chiudevo gli occhi, non smettevo di vedere quella strada, quelle mura infinite, quella nebbia bianca e densa che mi faceva pesare il respiro.
Ma presi fiato, e mi concentrai sulla meta, sul centro del labirinto che non doveva, non poteva, essere troppo lontano. Certo… non ero sicuro che volesse dire salvezza, e la mente continuava a riportarmi alla memoria leggende di mostri e labirinti. Non ero materiale da eroe mitico. Ma non permisi a me stesso di pensarci. Anche perché l’unica scelta che avevo era continuare, e sperare che ciò che mi aspettava fosse meno mortale della fame, della sete, o della stanchezza.
Ero lì fermo, seduto su una delle radici che emergevano dal terreno, quando lo sentii. Quel rumore che avevo udito diverse volte nelle ultime ore. Un verso che mi ricordò: fame e sete non erano gli unici modi in cui sarei potuto morire lì dentro.
Guardai verso il suono. Poco lontano, nella nebbia, due occhi gialli mi fissavano. Rimasi immobile. La forma era quella di un lupo, ma era quasi alto il doppio. Cercai di non aver paura, di non tremare, di alzarmi il più lentamente possibile, senza fare rumore. Altri due paia di occhi spuntarono nella nebbia. Era un branco. Io ero la preda. Quello più vicino a me ringhiò, il suono viscerale mi fece rabbrividire. Non so chi iniziò prima a correre, se io o loro. Ma da un momento all’altro stavo scappando. Correvo tra le radici, le rocce, cercavo di non cadere, ma la nebbia era alta, e i lupi erano veloci. Raggiunsi un bivio, girai, correndo ancora, inciampando, rialzandomi subito dopo. Poi pensai al precipizio. Raggiunsi la prima sporgenza che vidi e iniziai a arrampicarmi, salendo appena in tempo per scappare dalle fauci di quelle bestie. Ma erano enormi, e quell’altezza non li fermava. Iniziarono ad arrampicarsi, e io feci il primo passo in avanti. Il terreno iniziò a tremare, la roccia, lontano, a sgretolarsi. Uno dei lupi aveva raggiunto la cima del muro. Scappai dalle bestie, dal dirupo. Mi guardai indietro e sorrisi. Alcuni dei lupi erano già caduti nel vuoto. Corsi ancora, finché rimase solo quello dietro di me. Era vicino, ma il baratro lo era ancora di più. Lui cadde, io saltai, e appena toccai terra, il terreno smise di muoversi.
Respiravo con fatica. Il petto mi faceva male, la testa girava, non riuscivo a prendere abbastanza ossigeno nei polmoni, non abbastanza in fretta. Per un attimo pensai di svenire. Ma piano piano, con una mano sul petto, sentii il cuore calmarsi. Non sapevo quanto tempo fosse passato prima che riuscissi ad alzarmi e continuare a camminare.
Più avanzavo più le strade diventavano impercorribili, i bivi più frequenti, le pareti più strette tra loro. Sapevo che il centro del labirinto si stava facendo sempre più vicino. Mancava poco. A cosa? Non lo sapevo, ma la mia mente trovava il conforto in quell’unica consapevolezza che avevo.
Le gambe mi facevano così male che non sentivo più nemmeno il dolore. Il sentiero, sempre più stretto, sembrava avere meno aria. Quando avevano iniziato a diventare più strette, le pareti si erano riempite di rovi. Era come se il labirinto stesse cercando di trattenermi tra le sue mura, e quel pensiero era l’unica cosa che mi dava la forza di camminare ancora, anche se a ogni passo i miei vestiti, i capelli, la mia pelle si impigliavano in quelle spine. Mi coprii gli occhi con le braccia per proteggerli e avanzai alla cieca. La strada ormai era così stretta da costringermi a camminare di lato. Sentivo ogni ferita provocata dai rovi, ogni spina che mi entrava nella carne. Ma ero vicino.
Nemmeno me ne accorsi quando feci il primo passo fuori da quelle mura. Caddi in avanti, con gli occhi coperti dalle braccia ferite, che appoggiai contro il terreno. Presi fiato e alzai lo sguardo.
Lo spazio si apriva immenso davanti a me, in una grande piazza circondata da pareti di rovi. La terra che toccavo diventava, poco più avanti, una distesa di piastrelle candide. Era il centro. E lì, proprio in mezzo, c’erano due porte. O meglio… due archi. Uno abbagliava di luce, l’altro risucchiava l’aria in un vortice buio. La scelta mi sembrava ovvia, ma forse era l’adrenalina. Iniziai a camminare verso i due portali, ma appena sfiorai quelle candide piastrelle una scossa mi fece cadere a terra, che aveva di nuovo iniziato a tremare. Mi guardai alle spalle. Il labirinto stava venendo risucchiato nella voragine, da quel buco nero. Iniziai a correre verso le porte. Erano lontane ma potevo farcela. Quando le raggiunsi, però, mi bloccai. Guardai alle spalle, l’abisso si avvicinava sempre di più. Una scelta. E se fosse stata quella sbagliata? Mi avvicinai alla luce e la sfiorai con una mano. Era calda, forse troppo calda, come se quel sole che brillava alto sopra il labirinto avesse iniziato finalmente a dare calore. Poi toccai il buio dell’altra porta. Freddo, creava un formicolio alle dita…
Il fragore del terremoto si avvicinava. Mi girai. Mancava poco, pochi metri. Qualunque cosa sarebbe stata meglio di cadere. Presi un ultimo respiro, ed entrai nel buio.
Tutto il mondo si fece nero. Silenzioso. Nemmeno il mio respiro aveva un suono. Dietro di me la porta era sparita, assieme al labirinto. Che fossi caduto? Che avessi sbagliato? Che fossi morto?
Poi la vidi. In lontananza c’era un’altra porta, dalla quale proveniva una luce fredda e sottile, molto lontana da me. Camminai svelto verso di essa, ma più mi avvicinavo, più sembrava allontanarsi. Iniziai a correre, veloce. Nel silenzio echeggiò una voce che non riconobbi, ovattata in quel buio.
Continuai a correre, finché riuscii a sfiorarla, e il mondo cadde.
“Sam?” disse una voce “Sam.”
Aprii gli occhi. Il volto di mia madre mi guardava preoccupato. Mi alzai di scatto.
“Era un sogno?”
“Che cosa? Sam stai bene? Non riuscivo a svegliarti”
Mi guardai attorno. Era la mia stanza, così come la ricordavo. La mia scrivania piena di libri aveva la luce ancora accesa dalla notte prima. Era stato tutto un incubo?
Sorrisi a mia madre, “sto bene.”
Lei sospirò. “Mi hai spaventato, non ti svegliavi più”
La rassicurai e lei uscì. Guardai fuori dalla finestra, il sole mi scaldava il volto. Non capivo. Era sembrato tutto così reale. La testa mi faceva ancora male, e sentivo ancora quella stanchezza che mi spezzava il respiro, quella fame. Quel dolore. Mi guardai le mani. La pelle era graffiata. Il sangue non ancora del tutto secco mi sporcava le dita. Mi alzai e raggiunsi lo specchio. Alzai la maglietta, scoprendo un grosso livido sul fianco. Presi un respiro tremante. Poi vidi, dietro il colletto, sopra la scapola, un segno nero. Mi avvicinai allo specchio, scoprii la pelle.
Era scritto in lettere piccole e precise:
‘congratulazioni per la vittoria.’
Matilde Cattaneo
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