Osvaldo


È un torrido quindici Giugno a Canzo. Aurora è di ritorno da scuola, adornata di minigonna, top e scintillanti goccioline che le imperlano la vistosa scollatura. Un grido dalle sue spalle la paralizza «Ma ti pare il modo di andartene in giro?» Conosce quella voce da mummia bigotta. È Osvaldo Gerosa, il suo ex insegnante di scuole medie, ora in pensione «Non hai un minimo di dignità? Sei una liceale, non una meretrice.» Aurora si volta, mentre ribatte caustica «E i cazzi tuoi, vecchio?» Gli punta il dito allo sterno «Pensa alla tua, di vita. Faccio i diciotto tra meno di sei mesi, sarò libera di vestirmi e divertirmi come mi pare o no?» Poi, senza attendere risposta, torna a dargli la schiena e riprende a camminare.

Nelle settimane successive Aurora fa in modo di passargli davanti almeno una volta al giorno. Ogni sera accorcia un indumento, ogni mattina aggiunge qualche batuffolo di cotone all’imbottitura del reggiseno e ogni pomeriggio gli sfila davanti, trionfale. Ha iniziato a fare la cameriera in un locale della zona. A fine turno rimorchia un relitto umano a caso e se lo porta al parchetto davanti alla casa della nemesi.

Una sera, però, mentre lei è di servizio al pub, Osvaldo fa il suo ingresso; l’anziano professore indossa tacchi alti neri, un rossetto viola e un top che gli copre a malapena i capezzoli e lascia in bella vista l’addome grinzoso. Qualche avventore si ammutolisce, altri ridono fragorosamente del pensionato scosciato. Lui sogghigna, fiero della lezione che sta impartendo ad Aurora. Sa che lei non può andarsene, costretta ad assistere, o peggio, a fare da comparsa al grottesco spettacolo inscenato dall’avversario.

La faida si inasprisce nel mese successivo. Osvaldo si costruisce una reputazione da matto del paese con i suoi atteggiamenti da drag queen; Aurora si fa tatuare sulla schiena “libera ed emancipata” in quattro lingue. Finché, ormai ad Agosto, lei scopre di essere incinta. I suoi partner la abbandonano. La gente la deride o la evita. Se prima dai parenti e dagli amici riceveva pressioni e consigli, ora ottiene disprezzo e pietà. Le poche parole di conforto, generiche come i bigliettini da compleanno, sono quelle che fanno più male, che più foraggiano il rimorso.

“Si raccoglie quel che si semina” vorrebbe dirle Osvaldo, ormai abituato alla sua pantomima, diventata un po’ una doppia vita, ma non ce la fa. Un giorno, al locale, il vecchio insegnante la sorprende in bagno, messo in allerta da singhiozzi e conati di vomito; le offre una spalla sulla quale piangere e un motivo per cui sorridere. Le insegna che, nonostante la giovane età, vale la pena preservare la vita, invece di distruggerla per capriccio, annegando dei rimorsi ed errori che potevano essere evitati. E lei, si accorge, gli ha insegnato quanto forte possa essere un semplice grido di appello. A quali estremi possa condurre, se inascoltato.

Ora è autunno a Canzo e il torrido cede spazio al tiepido. Aurora è di ritorno dall’ospedale. La sua maglietta ha una scollatura, ma è quasi casta rispetto a tre mesi prima. Osvaldo, al suo fianco, non indossa più tacchi o parrucche grottesche; le sorride mentre dice «Per fortuna è andato tutto bene. Ora sarei curioso di sapere il nome della bambina.» Aurora arrossisce «Lo saprai durante la festa, assieme alla mamma e agli ospiti. Non vedo l’ora di vedere la tua reazione, vecchio matto!»

Gabriele Abbiati, Stefano Amicucci


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