Di Irene Arroume
LA PORTA è coperta da rampicanti.
Non ci sono indicazioni per arrivare alla porta. L’auto ha percorso varie curve per la montagna, l’unico motivo per andare avanti, l’impossibilità di invertire la propria direzione. Svariate volte ha rischiato di sbandare verso il bordo e cadere nel precipizio per via del buio , ma ha ripreso il cammino. La prima piazzola era già occupata da un camper e una famiglia — un uomo, una donna e due bambini, insieme a un cane.
La seconda piazzola invece era vuota, se non per un edificio dal legno ricoperto di muschio altro almeno tre piani. La struttura era posizionata panoramicamente in mezzo a due picchi di montagna, e le stelle incorniciavano il tetto a spiovere. La porta è in mezzo ad altre due porte, sbarrate da travi di legno così come le poche finestre.
Jonah Michael Steward sposta le foglie dalla porta, nota che non c’è una maniglia, e neanche una serratura. Tocca il legno dove si sarebbe dovuto trovare il pomello con i polpastrelli e poi piano appoggia completamente il palmo sulla superficie. I fari sono ancora accesi.
Un battente a forma di testa di lupo, da cui fauci pende un pesante cerchio di ottone, ha sbeccato il legno e tolto lo strato di pittura. Jonah allunga la mano e tocca il ferro, talmente freddo che scotta contro la pelle. Solleva il cerchio dalla porta, lo lascia cadere contro il legno. Il rumore infrange il bisbiglio della pioggia per qualche secondo.
Pensa che è solo un edificio abbandonato, così come appare.
Però c’è rumore di serrature, e poi la porta si schiude.
«Di cosa sei alla ricerca».
La voce è femminile. Tono profondo, cadenza musicale. La porta è tenuta attaccata alla trave per una spessa catena d’ottone, un paio di labbra rosse si intravedono in contrasto alla luce proveniente dall’interno.
Jonah respira piano, ha ancora la mazza tra le mani, alta e diretta verso la porta. La lascia quindi cadere ai suoi piedi, il suono stordente si fonde con quello della chiusura della porta.
Poi, l’entrata si spalanca.
II.
JONAH MICHAEL STEWARD varca la soglia, e si ritrova in una sala più grande di quella che l’edificio potrebbe contenere.
Ci sono delle porte che non dovrebbero portare a niente perché l’edificio da fuori è troppo piccolo. Mentre, dove dall’esterno si potevano vedere le porte, all’interno sono presenti solo pareti laccate di bianco. La sala è illuminata da un lampadario decorato di rosse pietre pendenti e la luce riflette verso il pavimento nero a creare un esagono luminoso. Jonah fa attenzione a non pestare gli aloni con i piedi, e si posiziona al centro.
Delle scale si annodano su loro stesse in una spirale, i gradini sono di vetro nero alternato con del vetro rosso. Si trovano nella metà destra della sala, mentre a sinistra c’è un tavolo nero laccato, ricoperto di fogli macchiati di inchiostro.
Agli angoli della sala, in fondo dietro al tavolo e dietro alle scale, ci sono vecchie lampade ad olio appese, ma sono spente.
Sulle pareti ci sono fotografie in bianco e nero, ma le facce delle persone sono sfocate dal flash della fotocamera. La sala rappresentata è chiaramente la stessa dove Jonah si trova in quel momento.
«Non ho spento l’auto», sussurra tra sé e sé. Quando si volta verso la porta d’ingresso, vede una serratura e anche un pomello.
E quando sta per toccare il metallo, «Se lo ha dimenticato, allora non le era necessario», la voce femminile si palesa.
Jonah esita, poi si gira verso la donna. La prima cosa che vede sono le labbra rosse, poi una folta chioma argentata. Gli occhi sono incorniciati di nero, la pelle brilla quasi d’oro sotto la luce. Un neo, in basso al labbro inferiore a sinistra. Tutto ciò che si trova al di sotto non è importante.
«Nome?»
Jonah osserva le labbra muoversi.
«Se non hai un nome, possiamo dartene uno noi».
Solo allora Jonah si rende conto che la donna è in piedi dietro al bancone, una piuma tra le mani. L’inchiostro cola su un foglio.
«Ce l’ho un nome», ma non lo pronuncia.
La donna non è confusa, sa che a volte chi entra nell’hotel può essere disorientato.
Jonah si avvicina, facendo nuovamente attenzione a non pestare i riflessi sul pavimento, fino a che non si trova faccia a faccia con la donna, solo il tavolo a separarli.
L’inchiostro continua a colare.
«Michael».
La donna sorride, poi abbassa lo sguardo verso il foglio e il rumore della penna sulla carta suona in unisono con il sussurrare del suo nome dalle rosse labbra.
III.
JONAH MICHAEL STEWARD percorre le scale di vetro rosso e nero. La placchetta attaccata alla chiave indica la camera 1:30 al secondo piano. Jonah aveva guardato la donna con espressione confusa quando aveva notato il numero della camera, ma era scomparsa nel momento in cui aveva abbassato lo sguardo per leggere la placchetta.
Il primo piano della struttura è tenuto segregato dietro a un’altra porta, che Jonah prova ad aprire ma senza risultati.
Il secondo piano è aperto, illuminato da candelabri simili a quello della sala, ma più piccoli, attaccati a un alto soffitto a scacchi bianchi e neri. Le pietre pendenti sono solo tre, e ci sono tre lampadari in tutto il corridoio, ogni tre porte.
Una è rossa, l’altra è nera.
Una è rossa, l’altra è nera.
Jonah osserva di nuovo la placchetta.
I numeri a segnare le porte non sono numeri, ma orologi. Perfettamente tondi, con numeri romani e lancette di colore rosso se la porta è nera, e di colore nero se la porta è rossa.
Il giullare ha tolto le scarpe e il suo cappello con le campanelle per non farsi sentire dal nuovo soggiornante. La donna si arrabbierebbe di nuovo, e le dita gli fanno ancora male dall’ultima volta. Non è consono spaventare i nuovi arrivati.
Jonah cerca la porta con l’orario segnato sulla placchetta, e quando la trova inserisce la chiave nella serratura. La sua porta è nera, con le lancette rosse. Quando schiude l’uscio, sente un sogghigno.
Si gira in fretta verso l’entrata del secondo piano, da dove proveniva il suono, ma non vede nulla e nessuno.
Il giullare trova divertente il modo in cui il nuovo soggiornante ha esitato nel mettere la chiave nella serratura.
Riluttante, Jonah si rigira verso la porta per aprirla completamente. Subito appena entrato non perde tempo a chiudersi dentro la camera per poi nascondere la chiave nella tasca destra dei jeans.
Il giullare si avvicina alla stanza 1:30, si mette di fronte alla porta e prova a sbirciare dall’occhiello dentro la stanza, ma non vede nulla. Si mette una mano sulla bocca per coprire la risata mentre saltella sul posto e appoggia l’altra mano alla maniglia.
La stanza ha il pavimento a scacchiera, bianco e nero, e il soffitto è rosso opaco. C’è un altro di quei lampadari con i pendenti, e le pareti sono nere e ricoperte di dipinti e fotografie. Il letto è a baldacchino, con le lenzuola di seta e le tendine attorno di colore rosso. Un grande armadio guardaroba, nella parete a fianco alla porta. Una volta aperto, si possono vedere vestiti e completi sia eleganti che non, in attesa di essere indossati.
Jonah decide di guardare dall’occhiello per controllare, cerca di convincersi che la risata non era una risata ma era solo il rumore delle giunture della porta.
Quando avvicina l’occhio, dall’altra parte non vede niente e nessuno.
IV.
JONAH MICHAEL STEWARD trova la melodia familiare.
I tasti del pianoforte sono completamente neri e laccati. Visti da lontano non c’è differenza tra un tasto e l’altro, ma le dita della donna si muovono con armonia tra le note del grande pianoforte.
Jonah si avvicina, ma la donna continua a guardare dritto verso lo spartito.
«È molto vecchia come sonata».
«Ne sono al corrente». Le labbra rosse restano inespressive, le dita continuano a muoversi sulla tastiera.
Jonah posa un dito sul tasto più alto, lo tiene premuto.
La donna smette di suonare, volta il viso verso di lui. Gli occhi si assottigliano impercettibilmente, e Jonah lascia la presa sul tasto. Il suono continua a echeggiare nella sala comune.
«Chiedo scusa per averla interrotta–».
«Le serve qualche assistenza?»
Una risata si unisce all’eco della nota. Una smorfia appare sulle rosse labbra. I piedi dello sgabello strusciano sul pavimento, dei campanelli suonano e la stanza diventa un’orchestra. Con passo veloce la donna cammina verso l’entrata, Jonah segue i movimenti delle sue spalle fino a che dietro di lei non appare una figura piegata in due all’altezza del busto, la quale si estende e allunga una volta che la donna lo strattona per le spalle.
«Ti avevo ordinato di non farti vedere».
«Difatti non mi ha visto». Tra una risata e l’altra, la donna gli tira uno schiaffo. La mano le resta macchiata di bianco, e la faccia del giullare viene sfregiata dal nero delle labbra sbavato sulla guancia opposta.
«Torna nel labirinto».
Il giullare la guarda e si avvicina fino a un palmo dal suo viso per sussurrare: «No».
Jonah sente un altro rumore secco di pelle contro pelle, e le campanelle riprendono a suonare in sintonia con altre risate. Osserva la donna trascinare via per un orecchio l’alto ragazzo, che inciampa tra un passo e l’altro.
Il giullare viene portato fino alla porta. Smette di ridere, implora la donna di non farlo uscire, di non cacciarlo, ma la donna gira il pomello e spinge il giullare tra le foglie. Chiude la porta, e il disperato bussare rimbomba sul legno, nelle pareti e nel pavimento.
V.
JONAH MICHAEL STEWARD varca la soglia trattenendo il respiro, una volta assicuratosi che nessuno lo avrebbe seguito.
Il sentiero è soffocante. La risata riecheggia nell’aria.
Una sottile nebbia offusca la vista. Jonah non riesce a vedere i suoi stessi piedi.
La voce si tramuta nella melodia che la donna aveva suonato al pianoforte, con una risata tra una nota e l’altra. Jonah segue l’eco, e quando va incontro a un vicolo cieco, la voce riecheggia dalla parte opposta.
Il giullare pensa che sia divertente.
Un picchiettio sulla spalla destra — Jonah si volta con velocità scattante.
C’è un’ombra, tra le foglie del labirinto. Si muove velocemente verso la parte opposta del sentiero, e il temporaneo silenzio si riempie nuovamente di risate e foglie secche calpestate. Jonah inizia a correre, segue il rumore dei passi dell’ombra fino a che le siepi si interrompono.
C’è una torre. Una struttura di mattoni rossi e calcite color nero, i piani sono almeno due, pensa Jonah. Non ci sono finestre.
Davanti alla porta l’ombra prende forma. La risata non riecheggia più. Jonah fa un passo in avanti.
«Hai detto che ti chiami Michael», la voce è imponente, profonda, non come ci si aspetterebbe dal ragazzo.
«Difatti è il mio nome».
«No», dice. «Il tuo nome è Jonah».
«Mi chiamo anche Michael».
«Perché hai mentito? Coloro che mentono vengono sempre puniti».
«Le ho detto uno dei miei nomi. Non ho mentito».
Il ragazzo scoppia a ridere. Si piega in due, con una mano sullo stomaco e le ginocchia flesse. La risata sovrasta il respiro affannoso di Jonah, riempie completamente il labirinto. Alcune foglie tremano, come colpite dal vento.
Jonah fa altri due passi nella direzione del ragazzo. Ha due rombi rossi attorno agli occhi serrati, i capelli sono unti e spettinati, le mani sporche di nero. Il viso è bianco latte, se non per una guancia sfregiata dal nero delle labbra.
La risata si ferma d’improvviso.
«Nulla qui è quello che sembra».
VI.
JONAH MICHAEL STEWARD non è solo nell’hotel.
Sono per di più coppie di anziani, e qualche uomo e donna senza accompagnatore. Una sola coppia è di giovani — la ragazza tiene tra le braccia un fagotto a cui ogni tanto accarezza il viso.
Il palco è illuminato da lampade ad olio grandi quanto i palloncini che adornano i lati del cortile. La porta per arrivarci si trova dietro la scrivania della donna, semi-nascosta dalle scale a chiocciola.
Jonah aveva provato ad avere una conversazione con una delle donne che reputava tra le più attraenti, ma non importa quanto vicino le parlasse o quanto alto il suo tono di voce fosse — la donna guardava dritto di fronte a sé, un leggero sorriso sulle labbra pallide e i neri occhi spenti.
Le luci si affievoliscono, ma restano abbastanza per illuminare il giullare mentre appare sulla scena. Indossa un cappello con sei punte e sei campanelli. I piedi restano scalzi.
La voce è distante e acuta, non si distinguono le parole.
Le persone attorno a Jonah ridono.
Poi applaudono.
Ridono di nuovo.
Il giullare percorre le scale del palco.
Scende tra il pubblico.
Si avvicina a Jonah.
Si mette a cavalcioni sulle sue gambe.
Avvicina il proprio viso al suo, lentamente. Sorride, i denti sono bianchi e luccicanti, dritti e di grandezza uniforme. Le labbra sono screpolate sotto il rossetto nero. Gli occhi sgranati hanno lo stesso colore del ghiaccio. Prima che possa toccare con la bocca le labbra di Jonah, butta il capo all’indietro e si mette a ridere.
La gente attorno a lui applaude.
VII.
JONAH MICHAEL STEWARD percorre le scale a chiocciola dietro a tutti gli altri residenti.
Dopo esattamente quindici scalini, la folla attraversa la porta del primo piano. Quando Jonah si ritrova davanti all’entrata, la porta è spalancata. Osserva dall’uscio le persone fermarsi di fronte ad altre porte, le quali si aprono una ad una, lasciandoli entrare dentro le stanze tutti insieme.
Il corridoio è identico a quello del secondo piano.
Le porte non sono numerate, e non hanno né maniglie né serrature. Jonah prova ad appoggiarsi a una, spinge con la spalla, ma non si apre. Prova quindi con quella opposta, ma anch’essa non si muove. Pensa che magari le persone le hanno bloccate dall’interno.
«Cosa gli hai detto?»
«Io non ho detto nulla».
Jonah sente uno scricchiolio. Quando si volta verso il rumore, la fonte è l’ultima porta sulla parete destra. Si è schiusa di qualche centimetro. Da dentro proviene una luce abbagliante.
Jonah ci corre incontro.
«Sei un bugiardo».
«Non sono un bugiardo».
La porta gli si chiude alle spalle con un pesante tonfo. Non c’è nessuno tranne lui, le altre persone precedentemente entrate scomparse.
La stanza è un labirinto di specchi. Di fronte a lui vede l’immagine riflessa di se stesso. Ha i vestiti che indossava quando è entrato all’hotel, mentre lo specchio al lato opposto riflette la sua immagine pari a com’è nella realtà. Gli specchi si snodano nell’area della stanza.
«Dovresti essere punito per questo».
Il giullare ride, le lacrime gli macchiano le guance e il trucco sugli occhi si scioglie.
Jonah vaga tra i riflessi veritieri e bugiardi, fino a che falsità e realtà si mescolano tra loro e in mezzo agli ultimi due specchi appare un’altra porta.
«Voglio tornare a casa».
La donna sorride, poi accarezza la stessa guancia ormai rossa dagli schiaffi.
Oltre la porta la stanza è buia, tranne una candela sopra al comodino a fianco al grande letto matrimoniale. Le lenzuola sono di seta nera, così come il negligé rosso che indossa la donna — lo stesso colore delle labbra. È sdraiata sul letto, con le gambe incrociate e una mano sul ventre. L’altra gli indica di entrare con un cenno.
Quando Jonah si avvicina al letto, la donna si alza sulle ginocchia e si avvicina. Gli bacia il collo, le lunghe ciglia gli solleticano la pelle. Jonah stringe i lunghi capelli argentati nel pugno destro.
«Mi vuoi bene?»
«Certo che ti voglio bene, ma non devi dire bugie».
Il giullare guarda la donna con occhi rossi e pieni di lacrime. Poi la abbraccia, stringendola vicino a sé, e la camicia bianca si macchia di pittura.
VIII.
JONAH MICHAEL STEWARD osserva la donna suonare.
La melodia è diversa da quella che solitamente performa. La sala è vuota.
«Non sapevo ci fossero altri residenti».
«Non aveva mai domandato, di conseguenza non ho ritenuto importante farglielo presente».
«Dove sono tutti?»
La donna continua a suonare impassibile.
«Dove sono?»
Le rosse labbra esalano un lungo respiro, poi la donna smette di suonare per voltarsi lentamente verso Jonah con una profonda ruga tra le sopracciglia.
«Nelle loro stanze, con grande probabilità».
«Perché?»
«Perché questo è un hotel, dove la gente ha la possibilità di avere una propria stanza».
«Come mai non escono?»
La donna raddrizza la schiena, si risiede composta sullo sgabello e riprende la melodia dal punto in cui si era interrotta. Jonah stringe i pugni: «Dov’è il giullare?»
Le mani diventano pesanti sui tasti, il suono riecheggia nella sala.
«Lei mi sta interrompendo», la voce sovrasta quasi in modo innaturale il pianoforte. «Non apprezzo venire interrotta».
Jonah sente un brivido percorrergli la schiena. Si ricorda dell’automobile ancora accesa fuori dall’hotel. A passo svelto si avvia verso l’uscita — il pianoforte ha smesso di suonare e dei picchiettanti tacchi lo stanno seguendo.
La porta si apre ancor prima che Jonah possa toccare il pomello, e si richiude dietro di lui con un pesante tonfo. Il brivido lungo la schiena lo scuote a ritmo dei pesanti pugni provenienti dalla parte opposta. Sotto le scarpe percepisce le vibrazioni e le urla di disperazione.
«Che cosa hai fatto», la profonda voce canta, e Jonah si lascia guidare dall’eco verso la torre al centro del labirinto.
«Non ho fatto niente», il respiro affannoso maschera le parole, le indebolisce.
«Non ti credo», l’ultima parola viene allungata come una melodia. «Sei un bugiardo».
«Come si esce da questo posto».
«Scemo, non puoi uscire. Nessuno di noi può».
Jonah guarda il giullare con occhi lucidi per l’aria fredda. Il giullare ride.
«Non lo hai ancora capito? La donna di ieri sera, non era lei».
La porta dietro il ragazzo è spalancata, c’è una lampada al centro di un piccolo tavolo. Jonah con passo pesante percorre la distanza che li separa.
«Non lo fare».
Jonah prende la lampada, la tiene nel pugno serrato mentre esce di corsa dalla torre, nonostante gli avvertimenti del giullare, che lo tira per un braccio e stringe con forza all’altezza del polso. Lo tira dalla parte opposta, dentro la torre, strattonandolo con una forza quasi sovrumana. Jonah si allunga verso il giullare, poi gli morde l’avambraccio.
Stringe forte con i denti.
Il ragazzo lascia la presa, piangendo e urlando.
Jonah lancia la lampada tra le siepi, che cadendo si frantuma in mille pezzi.
Le fiamme divampano grazie alle foglie secche cadute a terra, e un acuto stridio porta Jonah a tapparsi le orecchie con mani tremanti.
«CHE COSA HAI FATTO?» La voce è così profonda che smuove il fuoco, lo porta a diramarsi tra le siepi. Il fumo si mescola con la nebbia, creando un vortice di bianco, rosso e nero.
«Che cosa hai fatto?» Il giullare è scosso dai singhiozzi, si trascina le mani sul viso, la pittura ormai quasi del tutto sciolta dal calore delle fiamme.
Jonah inizia a ridere.
IX.
IL GIULLARE corre tra le pareti del labirinto.
Evita il fuoco, e il respiro diventa difficile a causa del fumo. Quando arriva all’uscita, la porta si spalanca. Dietro, la donna ha le labbra rosse sbavate e i grigi capelli cadono dall’accurata acconciatura che la donna è solita portare. È inginocchiata sul pavimento — quando vede il giullare si alza con gambe tremanti.
«Ci ha traditi?» chiede.
Il giullare si volta per chiudere la porta dietro di sé.
«Bisogna avvertire i residenti», la melodica voce della donna è calma e monotona, Quando si volta, le persone già stanno scendendo in fila le scale. Il fumo passa da sotto la porta, lentamente riempie la sala e qualche anziano tossisce. Quindi, la donna allunga la mano verso il pomello rovente.
La piazzola è deserta, e il giullare è il primo ad uscire.
Si guarda intorno. C’è un’automobile.
«Torna a casa», la donna annuncia. Poi il giullare sente la porta chiudersi.
La donna inserisce la chiave nella serratura, la gira due volte.
«Seguitemi signori», dice, poi si avvia verso la sala da pranzo. Una volta che le persone si accomodano si siede allo sgabello del pianoforte.
«Sono felice di accogliervi questa sera e di darvi il benvenuto».
Dopo un profondo respiro, inizia a suonare, mentre il fumo nero oscura le luci e contamina l’aria.
Il giullare cade a terra sulle ginocchia, mentre osserva le fiamme che si espandono sul legno della porta. Le vittime successive sono le finestre, poi il soffitto.
Il suono del pianoforte riecheggia nel silenzio delle montagne insieme allo scricchiolio del fuoco.
Il giullare canticchia in armonia con la melodia della donna e sorride.
Arriveranno nuovi ospiti.
Di Irene Arroume