RATT HALL


Vedeva la gente scappare, non voleva essere presa anche lei. Si trovava in un palazzo di dodici piani a Ratt Hall, la cittadina dove tutto ebbe inizio. Era sul tetto e guardava giù con la speranza di non diventare come loro. 

   «Piuttosto che trasformarmi mi butto», pensò. 

Guardava continuamente in giro, soprattutto a terra. 

   «È da lì che potrebbero arrivare,» pensò, «solo da lì.» 

Ogni tanto guardava la strada, ma lo scenario non cambiava, c’erano sempre persone che urlavano e correvano. Riusciva malapena a dormire. Appena chiudeva occhio gli incubi si impossessavano di lei. Passarono giorni, settimane, forse mesi, non lo sapeva. L’unica cosa di cui forse era consapevole è che mentalmente stava cedendo. 

In una di quelle lunghe serate in cui stava mangiando insetti, cercando di sopravvivere come poteva, le apparve davanti suo nonno.

   «Ti ho trovata, nipotina.» Corse ad abbracciarlo. 

L’odore di muffa, feci e urina che ogni giorno le tormentavano il naso per un attimo scomparvero. I rumori si fecero muti e i pensieri che aleggiavano nella sua mente sparirono. Cominciò a piovere. Il tintinnio metallico delle gocce che cadevano dentro i secchi che usava per raccogliere la pioggia cominciava a farsi sempre più forte ogni secondo che passava.  Lei non aveva ancora mollato la presa di quell’abbraccio. Era assorta da quel momento. Una volta finito quel gesto d’affetto e aver guardato di nuovo in faccia suo nonno, urlò. Dallo spavento perse l’equilibrio e cadde, sbattendo la schiena su un palo d’acciaio che fungeva da parapetto. Dopo un attimo di intontimento vide suo nonno che le si avvicinava, lentamente, rassicurandola che sarebbe stata una cosa di pochi secondi, che non avrebbe provato alcun dolore, nulla. 

   «Anche tu nonno? Anche tu?», pensò.

La pioggia divenne temporale. Il lampo dei fulmini la accecarono. Pochi secondi dopo sentì il rombo dei tuoni. Chiuse gli occhi. Non poteva credere a ciò che aveva visto. Una volta riaperti, però, suo nonno era sparito. 

Le visioni, dopo quella sera, non si manifestarono più, o almeno, furono meno intense, fino a quando, una mattina, mentre si aggirava su quel tetto, sentì un verso. Si girò e vide poco distante da lei un topo. Non si capacitava di come fosse riuscito ad arrivare fin lì. 

   «È un’altra visione.», pensò.

Il ratto si stava avvicinando, piano piano. Lei incominciò a fare un passo indietro e a incitare inutilmente l’animale a non muoversi, quando, all’improvviso, incominciò ad aumentare la velocità. Stammi lontano, stammi lontano, urlò, ma era quasi arrivato vicino ai suoi piedi.

   «Non è frutto delle mie visioni,», pensò, «è reale.»

Il topo la morse e, urlando dal dolore, fece l’ennesimo passo indietro e si ritrovò sull’orlo del tetto. Decise di buttarsi. Non voglio vivere come uno stupido topo, disse. Furono le sue ultime parole.

A Ratt Hall, questi, sono episodi che avvenivano giornalmente da quando, mio padre, fallì un esperimento. Quel giorno cambiò ogni cosa, tutti i canali davano solo una notizia: “Persone mutano in topi”. Questo è ciò che per mesi venne trasmesso dalla televisione. Ogni aggiornamento, ogni precauzione, ogni teoria era messa in onda ventiquattro ore su ventiquattro. Sembrava che il mondo si fosse fermato, o peggio, che stesse tornando al suo stato primordiale, il crollo della vita. È così che in tv lo definivano. 

Le persone furono colpite da un’isteria di massa. Le strade si riempirono di gente che urlava e correva senza una meta. I supermercati furono i primi a essere presi di mira. Venivano saccheggiati fino a quando non rimaneva più nulla. Anche le stazioni di servizio furono svuotate fino all’ultima goccia. Le tangenziali e le autostrade si riempirono di macchine. File che duravano anche giorni pur di scappare da quell’inferno, ma non tutti ci riuscirono, anzi, solo una minima parte. I topi entrarono dai tubi di scappamento e dalle vie di areazione per poi mordere i malcapitati e trasformarli in roditori.

Avevo dieci anni quando accadde. Era una mattina come un’altra. Mi svegliai di soprassalto perché sentii dei rumori in casa. Erano le quattro di mattina, lo vidi dalla sveglia posta sul comodino. Mi alzai. Aprii la porta. Uscii dalla stanza. Guardai a destra e a sinistra. Non vidi niente. Accesi la luce. Al piano di sotto c’era mio padre che farfugliava qualcosa, non riuscii a capire. Vidi solo una scatola di legno poggiata sul tavolo. Ritornai a dormire. Quella stessa mattina la sveglia suonò circa quattro ore dopo. Mi alzai. La scatola di legno era sopra alla mia scrivania, ma non ci feci troppo caso. Mi lavai i denti. Mi vestii. Presi la cartella, ma in quell’attimo pensai che c’era qualcosa che non andava. Mi domandai perché mia mamma non mi aveva preparato la merenda. Andai verso camera dei miei genitori. Aprii la porta. Loro non c’erano. Girai per tutta casa, erano spariti. Anche mia sorella non c’era. Uscii e una volta fuori, il caos. Gente che scappava, gente che urlava di correre via. Impaurito rientrai in casa e di impulso accesi la televisione. Tutti i canali davano solo una notizia: “Caos a Ratt Hall. Invasione di topi”. Il presentatore del canale non fece tempo a finire la trasmissione che si trasformò in un ratto in diretta tv. Scioccato spensi la tele. Provai a chiamare mio padre. Non rispose. Riprovai. Ancora una volta c’era la segreteria. Salii in camera. Mi sdraiai sul letto. Ero confuso. Il mio sguardo cadde su quella scatola di legno. Mi alzai. La presi e l’aprii. Dentro, un foglio. Era firmato “papà”. Incominciai a leggere le prime parole di quella lettera: 

“Ho fallito, scusa figlio, ho fallito.

Da quel giorno sono passati dodici anni. I topi hanno continuato a trasformare le persone in altri topi e ora viviamo in bunker sotterranei collegati tra loro tramite gallerie. Il Mondo di Sopra, come lo chiamiamo comunemente, è inabitabile. Col passare degli anni è nata una colonia, la colonia sotterranea. Sono nati anche tre diversi gruppi: il gruppo di caccia, formato da persone agili e forti col compito di proteggere il gruppo provviste che è costituito per lo più da ragazzi e ragazze con meno di vent’anni. Sotto la protezione del gruppo di caccia sono scortati nel Mondo di Sopra per raccogliere più approvvigionamenti possibili. Per ultimo, ma non per importanza (come vogliono spesso sottolineare loro), il gruppo gerarchico, costituito dagli intellettuali. Diramano leggi e gestiscono la politica interna dell’intera colonia.

Io, ora, sono in stato di prigionia. Le celle sono meglio di quelle delle carceri del Mondo di Sopra, o almeno, è quello che mi racconta sempre Buck, il mio compagno di cella. È un uomo alto, robusto ma agile, coperto di tatuaggi su tutto il corpo. L’ho conosciuto nei primi anni di spedizione, fu lui a salvarmi la vita uno di quei giorni, faceva parte del gruppo di caccia.

Sembrava essere un giorno tranquillo. Io e il mio gruppo eravamo in un supermercato. L’odore di marcio e di morte sembrava riempire ogni angolo di quel posto, ma di topi nemmeno l’ombra. Avevamo raccolto tutto il necessario, cibo in scatola, acqua sigillata in bottiglie di plastica e dei nastri adesivi, ma vidi in un’ala del supermercato del cioccolato. 

   «È da tanto che non lo mangio», pensai.

Dopo un attimo di esitazione decisi che dovevo prenderlo. Mi avvicinai. Guardai che non ci fosse nessun topo. Mi precipitai verso il bancone. Presi la barretta. La misi in tasca. Riguardai il bancone per prenderne un’altra. In quel momento vidi che spuntava, dove prima c’era la barretta che avevo preso, la testa di un topo. Mi misi a correre e gridare pericolo. I miei compagni iniziarono a scappare. Inciampai. Mi girai e vidi che il topo stava per arrivare. Mi rialzai. Feci un passo. Provai una fitta alla caviglia. Caddi di nuovo. Il topo ormai era quasi vicino a me. Pensai che fosse la fine. Chiusi gli occhi. Sentii un forte rumore metallico e del liquido in faccia. Riaprii gli occhi. Davanti a me, un omone. In mano aveva una pala sporca di sangue.

Nei primi anni della colonia ho partecipato attivamente a spedizioni di questo tipo, all’esterno, fino a quando mi incarcerarono. Mi diedero la colpa per gli errori che fece mio padre. Nella lettera che mi lasciò, infatti, c’era il motivo per cui il mondo è nel suo stato attuale, per cui siamo diventati, allegoricamente e letteralmente, noi stessi i topi. La lettera continuava così:

“Da quando ho scoperto che hai il cancro ho provato di tutto per trovare una cura. Iniziai a somministrare vari enzimi creati da me su dei semplici topi. Da un giorno all’altro, però, tutto degenerò. La mia intera troupe di scienziati si trasformò in ratti. Riuscii a insabbiare tutto, ma non mi resi conto che ormai era troppo tardi. Questa nuova malattia si è già diffusa in tutta la città e chiunque venga morso da un topo si trasforma esso stesso in topo.”

Rimasi scioccato per mesi, forse anni, ma non l’ho mai voluto ammettere a me stesso. Provai a non pensarci fino a quando non mi importò più nulla. Tutt’ora non so che fine abbia fatto la mia famiglia, incluso mio padre, ma non mi interessa più. 

   «Che si fotta», penso ogni volta. 

È per colpa sua se sono qui, in questa cella, da quando dopo una spedizione mi misero spalle al muro.

Ero con Buck, ormai era diventato la mia guardia del corpo. Eravamo appena tornati nel bunker quando otto persone del gruppo di caccia, sotto l’ordine del gruppo gerarchico, mi accerchiarono. Buck cercò di difendermi, tirò un pugno a uno di loro. Gli altri si avventarono subito su di lui. Venne ammanettato per poi esser rinchiuso nel carcere senza essere processato. Chiunque vada contro il gruppo gerarchico viene etichettato come eretico, quindi, viene messo dietro alle sbarre. Ammanettarono anche a me per poi condurmi nella Sala Nera. La Sala Nera era un piccolo scantinato dove passava poca luce, c’era solo qualche buco per far entrare l’aria. Lì venivano condotti tutti gli imputati per poi esser interrogati da un esponente del gruppo gerarchico. A me fece solo qualche domanda, cercai di capire perché mi avessero arrestato ma non rispose. Prima di esser condotto in cella mi disse: “noi sappiamo”. Non capii a cosa si riferisse fino a quando, quella sera, in cella, sentii delle guardie parlare. Stavano farfugliando qualcosa. Riuscii a capire solo parte del discorso. Stavano parlando di una lettera. Sentii anche il nome di mio padre. Capii che mi avevano incarcerato per i suoi errori e che fino al mio ultimo respiro avrei dovuto pagarli al suo posto.

Nicola Marchesin                                                                            nicolamarchesin.studia@mohole.it


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