Di Virginia Cattaneo e Leonardo Targa
Il grido di un falco dalle ali nere squarciò il vespro. Era la prima creatura vivente che incontravo sul mio cammino da diversi giorni.
Lo vidi calare verso est assieme alle ultime luci del sole, e decisi che l’avrei seguito. Ero perduto, avevo preferito quel vecchio sentiero tra le montagne del New Mexico alla strada principale e ora quel rapace sarebbe stato il mio ultimo compagno di viaggio.
Attraversammo insieme la foresta, finché non incontrammo all’orizzonte una colonna di fumo. Con un ultimo grido, il falco calò tra gli alberi, scomparendo dalla mia vista.
Incredulo, raggiunsi una grande proprietà composta da tre edifici in legno, luminosa nell’oscurità della foresta.
Fu un uomo ad accogliermi. Un nativo. Uno dei pochi che non fosse rinchiuso nelle riserve giù a Brazos, in Texas. Mi offrì da mangiare e acconsentì ad ospitarmi per la notte. Mi promise che l’indomani mi avrebbe riportato sulla strada principale.
Seduti di fronte al camino, mi offrì del whiskey, e quando si piegò per servirmi notai che al collo portava uno di quei fischietti in osso di uso dell’esercito, spezzato al centro.
“Questo è ciò che rimane di una grande leggenda, e di una terribile tragedia, viaggiatore.” Mi spiegò quando gli chiesi della provenienza dell’oggetto “La leggenda di Sentiero-della-Danza-Nera.”
“Il fischio del generale Gideon Hargrave attraversò le colline tra cui era accampata la tribù Motsai del popolo Comanche. Veniva anche chiamato “Redfield” tra i suoi commilitoni, titolo guadagnato per il sangue nativo versato durante la guerriglia avvenuta sulla Pianura di Sant’Agostino. Un grande comandante, dicevano, in grado di guidare i propri soldati con il suono del suo fischietto ricavato dal corno di uno stambecco e dei versi del Levitico.
Lingua-di-Sole stava conciando la pelle di un bufalo, mentre il suo compagno di vita, il guerriero Sentiero-di-Cenere, si prendeva cura del suo cavallo assieme al figlio, Radice-Bruciata. Il fischio fece alzare la testa all’uomo, che vide l’intera brigata armata di fucili calare dalla vicina collina. Era troppo tardi.
Iniziò a piovere fuoco dai fucili dell’esercito di mercenari, una raffica di proiettili colpì le tende mentre le grida terrorizzate dei Motsai si alzarono nell’aria.
Hargrave, urgendo il suo cavallo al galoppo, recitava: “Voi state oggi per impegnare battaglia coi vostri nemici; il vostro cuore non venga meno; non temete, non vi smarrite e non vi spaventate dinanzi a loro!”
In una mano brandiva un crocefisso d’argento e nell’altra stringeva il revolver. Sparò a un giovane guerriero che aveva avuto a malapena modo di alzare una lancia, proiettando un’ombra di cervella sulla tenda vicina.
Sentiero-di-Cenere prese l’ascia dal fianco e con un ululato brutale si lanciò al combattimento. Disarcionò uno degli uomini con la sola forza dell’ascia, la lama colpì l’uomo nel ventre e questo cadde sul terreno con gli intestini all’aria. Vide un uomo tentare di incendiare la tenda del capo tribù e si lanciò su di lui, aprendo il cranio del cavallo con un solo colpo. Ma un dolore terribile lo prese in mezzo alle scapole, la pistola di Redfield lo aveva colpito con precisione letale. Un secondo colpo gli trapassò il cuore.
Lingua-di-Sole gridò il nome dell’amato, ma venne travolta da uno dei cavalli in fuga. Fu gettata in terra e il mondo si ridusse solo alle grida soffocate delle sue genti, all’odore del sangue e del fuoco, al dolore che pulsava attraverso il suo naso frantumato, alla stretta che tirava indietro i suoi capelli e al coltello puntato alla testa, che le stava incidendo lo scalpo. Un secondo fischio segnò allora la ritirata degli uomini. La lama si fermò. Aprì gli occhi e vide suo figlio venire strappato dalla terra su cui si era rannicchiato e costretto sul cavallo di Redfield. Cercò di muoversi, ma non aveva più forze e il suo grido disperato fu soffocato dal fumo delle tende bruciate.
Quando si risvegliò del campo non erano rimaste che macerie. I cadaveri dei suoi fratelli, delle sue sorelle, e dei figli del suo popolo giacevano a terra in una pozza di sangue nero. Silente e sconfitta, Lingua-di-Sole si abbandonò alla terra.
Si risvegliò il giorno seguente, e per prima cosa pensò alle sue ferite. Fece un impacco con alcune delle erbe conservate nella tenda del capo tribù. Chiuse il taglio sulla testa con dei piccoli anelli di bronzo, quindi decise di riposare, per decidere con calma cosa fare.
Li aveva visti portare via suo figlio. Era compito di un guerriero recuperarlo, ma ora tutti i guerrieri marcivano ai suoi piedi. Il dubbio le occupò il resto della giornata.
Durante la notte insonne giunse all’unica conclusione possibile: se lei era l’unica superstite della tribù, ed era compito della tribù recuperare il bambino, ed era compito di un guerriero solcare questo sentiero di ossa e di sangue, di conseguenza sarebbe diventata lei un guerriero.
Si rifugiò nella tenda del capo tribù, Testa-di-Ratto-Rosso, e iniziò il rituale quella stessa notte. Quattro giorni e quattro notti dovevano essere passati in digiuno e contemplazione. Sentiero-di-Cenere, il suo amato, la fissava con gli occhi spalancati infilarsi nella tenda e lei occupava le sue giornate a tenere lontani gli avvoltoi e gli sciacalli da lui e dal resto della tribù.
Il primo giorno sparì il corpo di Fegato-Giallo, una sua cara amica. Lingua-di-Sole tentò in ogni modo di vigilare sui corpi, ma nel giro di una notte gli sciacalli se l’erano portata via.
Il secondo giorno ne sparirono altri ma in compenso arrivò la puzza. Lingua-di-Sole si coprì il volto con un lembo della sua tenda, lasciando scoperti solo gli occhi. Vi infilò all’interno fiori essiccati, per coprirne l’odore immondo.
Il terzo giorno prese coraggio e si accovacciò sul cadavere del suo consorte, fissò i suoi occhi vitrei e un moto di rabbia prese il suo petto.
“Come ti permetti?” grugnì con la bocca arsa dal caldo e dalla fame.
“Come ti permetti di marcire qui mentre nostro figlio viene rapito dal nemico? Alzati! Alzati ti ho detto!” E guardò gli altri guerrieri, buttati per terra come arbusti abbattuti dalla tempesta.
“Alzatevi! Vi prego alzatevi! C’è una guerra da combattere! È il vostro dovere! Vostro figlio ha bisogno di voi… Io ho bisogno di voi!” Singhiozzò, il suo cuore stretto da un dolore innominabile.
“Disonore! Disonore davanti agli spiriti! Davanti agli antenati! Disonore sul nostro nome, sulla nostra terra! Dovevate proteggerci! E invece… E invece.”
Lasciò che il suo corpo fosse scosso dalle urla e dal pianto, poi chinò di nuovo il viso martoriato sul cadavere e tese le mani:
“Scusa… Perdonami, stella mia.” E prendendolo per le vesti cercò di sollevarlo per stringerlo, ma un conato di vomito seguì l’ultimo dei suoi singhiozzi, costringendola a lasciarlo andare alla terra.
Il quarto giorno smise di pensare. Smise di vivere. Restò sdraiata sulla polvere del terreno battuto nella tenda. Sentiva i canti, i piedi dei suoi fratelli calpestare la terra seguendo il ritmo con cui il suo stomaco si contraeva per la fame, l’ira e la paura.
E così l’alba del rituale, senza riposo, venne infilzando i suoi raggi nei cadaveri brulicanti della famiglia che l’aveva accolta per una vita.
Prese la fiaschetta di Testa-di-Ratto-Rosso e bevve ad ampi sorsi il liquido medicinale in essa conservato. Non sapeva con cosa fosse preparato, se non che fosse fondamentale per il rituale. E così si dipinse il volto con il nero della cenere del falò, nero come il colore della guerra che avrebbe combattuto fino all’ultimo respiro. Scelse forme aguzze e compatte per invocare gli spiriti delle armi e della terra.
Uscì, con il volto ancora coperto, e prese l’ultimo cavallo sopravvissuto al massacro, che si era nascosto in una delle tende. Vi salì barcollante e si lanciò nel mare di sole e terra bruciata, spingendo l’animale al galoppo.
Si lanciò nel mare di sole e terra bruciata, gettandosi al galoppo sul suo cavallo.
La linea dell’orizzonte si confondeva con le vibrazioni della terra mentre un oceano di polvere avvolgeva ogni cosa. Si sentiva uno, uno con il cavallo stretto tra le sue cosce, come se i suoi zoccoli fossero i suoi piedi e i suoi giganteschi polmoni inalassero la sua stessa aria. Si sentì quadrupede, e ammirò le sue maestose zampe, e attraversata la tempesta di polvere si ritrovò in un gigantesco canyon, il letto sprofondava sotto i suoi occhi e le sue pareti si innalzavano fino a toccare il cielo. Forme frattali solcavano la pietra dividendola in migliaia di porzioni uniformi. Si lasciò scivolare a terra. Sbavava, schiumava dalla bocca come una cagna rabbiosa e in quell’ultimo istante di delirio si abbandonò completamente alla disperazione, finché un falco non sbucò dalla sommità del canyon e calò dall’alto, appoggiandosi su un distante albero. Albero era acqua. Lingua-di-Sole arrancò fino all’albero e lungo le sue radici l’acqua formava decine di cerchi concentrici per il saltellare degli afidi. Buttò il muso nell’acqua e una scossa elettrica la pervase fino alla spina dorsale, mentre si abbeverava avidamente. Il falco era ora poggiato su uno dei rami più bassi, e la guardava dall’alto. Ora Lingua-di-Sole alzava il muso e vedeva un grosso crotalo salire lungo l’albero e avvicinarsi al falco, quindi lei lo afferrò con un morso e lo sbatté a terra con la forza del proprio collo, una, due, cinque volte fino a quando l’odiosa serpe smise di muoversi. E mentre il sangue rettile le scorreva tra le fauci comprese di aver concluso la propria caccia e ritornò indietro sul proprio cavallo.
Buttò il rettile davanti al fuoco spento e si dedicò ad accenderlo per la notte. Quando il sole tramontò il fuoco ruggiva nell’oscurità, e dalle tende dei compagni Lingua-di-Sole prese ciò di cui aveva bisogno per partire. Questi sarebbero stati i doni che le sue genti le avrebbero fatto nel suo passaggio alla vita di guerriera.
Così Lingua-di-Sole si strappò le vesti dal corpo e poi le bende dalla testa e dal viso. Prese la cenere calda e se la gettò sul corpo pitturandosi di nero il seno, le cosce e il ventre, alzò le braccia e urlò con l’ultimo fiato che aveva in corpo: “Alla guerra!” e iniziò a danzare.
Il rituale richiede che i guerrieri della tribù danzino assieme al loro nuovo compagno, accompagnandolo tutta la notte fino a che tutti avessero perso le forze. E così lei fece, agitando i suoi arti nudi sopra la terra, sotto la luna e attorno al fuoco, lanciando urla verso i cadaveri gonfi e putridi dei suoi compagni, danzando tra la putrescenza e la necrosi della loro carne. Gridò, gridò così tanto e così a lungo che le si ruppe la voce, e giurando vendetta e invocando la morte apriva le braccia per accogliere gli spiriti nel suo corpo.
Finito il rituale cadde in terra al fianco del proprio uomo con un unico grido.
Ora Lingua-di-Sole era morta, e il suo cadavere giaceva nel suo legittimo sepolcro, tra le braccia del suo amato. Ora a solcare la terra restava solo: “Sentiero-della-Danza-Nera.”
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“Per due volte l’aquila dai piedi piumati depose le uova sulla collina davanti alle tende abbandonate. Il coyote raccolse le armi e partì per recuperare il suo cucciolo.”
“Sembra molto tempo.” Osservai mentre sbuffavo il fumo del sigaro sul vecchio camino.
“Lo è.” disse l’uomo spostando lo sguardo verso il fuoco. Non lo interruppi ulteriormente.
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“Danza-Nera riuscì a ritrovare gli uomini che avevano attaccato il suo accampamento. Erano guidati da un mercenario dal nome di Kit Burns. Si erano rifugiati in un villaggio presso quella che ora è conosciuta come Hillsboro, dietro alla vecchia miniera. Li riconobbe subito, se ne stavano bivaccanti di fronte al saloon con i loro cavalli. Il calore torrido del sole scottava la terra polverosa della piazza. La guerriera giunse davanti ai mercenari, erano cinque contro una, ma il viso della donna, terribile e solenne come le pitture di guerra che lo decoravano, non tradiva dubbi o paure. Aveva un armamentario abbastanza grande da poter riempire un intero reggimento di piombo.
Un uomo guardò i compagni, sorridendo sbeffeggiante “Adesso iniziano anche ad arrivare da soli per farsi…”
“Silenzio.” sibilò Danza-Nera.
“State giocando? C’è posto?” chiese poi, rivolgendosi a Burns, indicando con il capo il tavolo su cui erano disposte delle carte e una serie di chip.
“Non è un gioco da donne.” rise uno degli uomini, poggiando una mano sulla Colt.
“Nemmeno la guerra è un gioco da donne.” rispose Danza Nera. Burns socchiuse gli occhi per un momento poi, con un singolo cenno della mano, la lasciò sedere. Iniziarono a giocare in silenzio.
Dall’entrata della miniera, una ferita aperta nel ventre della montagna, risuonavano i colpi dei picconi dei lavoratori, che solo così potevano scandire il loro lavoro disperato.
“Come ti chiami?” chiese Burns, lasciando che l’ombra della tesa del suo cappello oscurasse le proprie carte.
“Sentiero-della-Danza-Nera.”
“Comanche. Capisco. Quanto tempo ci hai messo a trovarci?”
“Due inverni.”
“Non lavoriamo più per Redfield.”
“Non mi importa.”
“Comprendo, la conquista è nel vostro sangue. Tris di Re.”
Girò le carte, rivelando una coppia nella sua mano. Gli altri uomini avevano già abbandonato la partita. Quando la donna girò le proprie carte, vide uno di loro stringere il calcio della propria pistola.
Si alzò di scatto e con le pistole sparò sui due uomini più lontani. Burns si buttò all’indietro, ribaltando il tavolo con un calcio, mentre i mercenari accanto a Danza-Nera estraevano le armi. Lei estrasse l’ascia e la piantò contro la mano dell’uomo alla sua destra, schiacciando la lama contro il muro del bar e recidendo medio, indice e pollice oltre alla sua pistola, che caddero per terra accompagnate da un getto di sangue. L’uomo alla sua sinistra cercò di afferrarle la vita ma lei gettò la testa all’indietro, spaccando il suo setto nasale con un colpo di nuca. A quel punto uno sparo giunse dall’edificio accanto, non aveva contato due degli uomini di Burns, che ora l’assediavano dall’edificio accanto. Piantò tra gli occhi dell’uomo avvolto a lei l’ascia con tanta forza da spaccarne il cranio come un’uovo di gallina, e si leccò le labbra osservando i fiotti di sangue esplodere dalla ferita. Mentre crollava su sé stesso prese la sua pistola e sparò sul monco accanto a lei in pieno petto.
Si rifugiò quindi all’interno del bar ma Burns emerse dalle profondità dell’edificio, la pistola puntata su di lei, e le intimò: “Fermati!”
Danza-Nera fu costretta a sollevare le mani e gettare le armi a terra. A quel punto Burns la portò fuori, sulla piazzola, in compagnia degli altri due uomini.
“Il tuo scalpo pagherà le loro tombe.” Affermò uno di loro mentre Danza-Nera veniva costretta ad inginocchiarsi nel mezzo della piazza.
La lama toccò di nuovo la sua fronte ma non ne recise mai la pelle. Uno sparo fischiò dalla cima della miniera e sul capo di Danza-Nera si riversò il sangue e la materia cerebrale dell’uomo alle sue spalle. La donna afferrò allora il coltello nel suo stivale e lo piantò nel piede dell’uomo che lo teneva ferma, balzò in piedi e corse verso la miniera seguita dall’urlo furioso del mercenario. I proiettili sembravano piovere ovunque intorno a lei, ma la loro traiettoria era imprecisa e lei era più veloce. Arrivò davanti a uno dei montacarichi, afferrò la corda che teneva ferma una pesante cassa e la tagliò con il coltello. Lasciò che la forza della carrucola la trascinasse fino alla cima dell’entrata della miniera e ne approfittò per estrarre dalla carne della sua guancia uno dei denti dell’uomo a cui era esplosa la testa.
Al di sopra un uomo dalla pelle nera era appostato con una Smith&Wesson 1854 calibro 44.
“Mi spieghi cosa cazzo pensi di fare?” Urlò l’uomo, voltandosi a guardarla, il viso contratto dalla rabbia e dalla confusione.
Danza Nera ignorò la domanda, aveva notato Burns alzare il fucile e puntarlo sull’uomo davanti a lei. In un attimo si gettò sullo sconosciuto, costringendolo a terra con il proprio peso, mentre il proiettile fischiava sopra le loro teste.
Preso alla sprovvista, l’uomo aprì la bocca per dire qualcosa, poi la richiuse. Indicò un secondo fucile, appoggiato lì vicino, e disse: “Solomon. Cerchiamo di uscirne vivi.”
E così fecero. L’uomo di Burns, quello con il coltello nel piede, venne colpito poco dopo dall’uomo dalla pelle scura. Videro Burns fuggire nella distanza, prendendo uno dei cavalli di fronte al saloon.
Quella sera l’uomo – So-lom-on, recitava Danza-Nera nella sua testa, scandendo le sillabe aliene – le offrì posto attorno al suo fuoco, per ringraziarla di avergli salvato la vita e di avergli assicurato la sua preda. Solomon, constatò la donna, era un uomo gentile e ordinato, aveva reciso le teste degli uomini con la stessa efficienza con cui aveva preparato il manzo per la cena, senza lasciare che una singola goccia di sangue macchiasse i suoi vestiti, nonostante avesse preso le teste dei mercenari e chiuse in un sacco. Tutto sembrava essergli naturale, si muoveva come l’acqua di un ruscello, senza fretta, adattandosi attorno a ogni ostacolo che incontrava, senza mai lasciare che questo lo disturbasse. Mentre lei aveva già assaggiato il primo boccone del loro pasto Solomon incominciò a pregare davanti al suo piatto ancora intonso.
“Signore, ti ringraziamo per la gioia di essere riuniti attorno alla tua tavola; che nessun luogo manchi della tua gloria. Ti rendiamo grazie, o Signore Dio onnipotente, per i doni della tua terra. Che i nostri cuori non manchino mai della tua grazia. Amen.”
Finita la preghiera, Solomon aprì gli occhi, sciolse le mani giunte e portò lo sguardo sulle pitture nere che decoravano il suo volto. Al calar del sole Danza-Nera lo aveva osservato rimuovere i suoi occhiali e passare con un panno bianco le lenti scure e tonde prima di riporle in una piccola custodia. Non sembrava esserci differenza tra i suoi occhi e il vetro che li proteggeva. Le fiamme danzavano liberamente nelle sue pupille nere, riflesse sulla superficie di due laghi dalle acque tanto calme quanto profonde.
“È una preghiera” le spiegò.
“Lo so” rispose Danza-Nera “Ne ho sentite troppe.”
Davanti al fuoco, senza i suoi occhiali, l’uomo non riuscì a nascondere la sua sorpresa.
“Ho imparato la vostra lingua ascoltando, e gli uomini del vostro Dio sono sempre i più rumorosi.”
Questa risposta lo divertì, e anche questo non riuscì a nasconderlo, lasciando che la sua bocca si curvasse per un istante.
“Hai ascoltato le loro parole, ma hai mai provato a capirne il senso?”
“No. Perché avrei dovuto? È il vostro Dio.”
“È il Dio di tutti”
Danza Nera scosse la testa con forza “No. La terra, il sole, l’aria sono di tutti. Tutti camminiamo sulla stessa terra, ci scaldiamo sotto lo stesso sole e respiriamo la stessa aria. Il vostro Dio è vostro. Solo voi vi inginocchiate davanti a lui.”
“E voi allora davanti a cosa vi inginocchiate?” chiese Solomon, alzando un sopracciglio.
Lei strinse le spalle “Ognuno si inginocchia davanti a ciò che preferisce. Non è importante.”
“No? Allora davanti a cosa ti inginocchi tu?”
“Niente. Nessuno. Non posso. Devo continuare a camminare. Non posso fermarmi a inginocchiarmi” rispose infastidita, le sembrava la cosa più ovvia del mondo.
Solomon ci pensò un attimo “Starai andando da qualche parte di molto importante.”
A quelle parole la donna alzò finalmente lo sguardo dalla ciotola, ormai vuota. Senza rendersene conto, disse: “Non da qualche parte. Da qualcuno.”
“E quel qualcuno ti sta aspettando?”
“Certo!” rispose di scatto, lasciando che la sua voce si tramutasse in un ringhio.
“Sei molto fortunata, allora” disse Solomon, la sua voce ora più dolce, spostando lo sguardo verso le fiamme “Penso che il mio Dio sia l’unico che mi aspetti, ormai.”
Il fuoco stava iniziando ad affievolirsi, e Danza-Nera si alzò per mettere fine alle sue sofferenze, lasciandoli soli sotto il cielo stellato. Volse allora il viso verso l’alto e, senza guardare l’uomo, sussurrò piano: “Se è così, è un Dio davanti al quale vale la pena inginocchiarsi.”
Solomon rimase in silenzio per un momento, osservando il profilo della donna sotto le stelle.
“Grazie.” Mormorò, senza sapere bene a chi stesse parlando. La donna, o Dio.
Il giorno dopo Solomon aprì gli occhi e trovò Danza-Nera immersa nei preparativi per la sua partenza. Seguendola con lo sguardo ancora assonnato, le chiese:
“Dove stai andando?”
“A cercare il fuggitivo, non deve essere andato lontano.”
“Non ne vale la pena. La sua taglia non vale nulla.”
La donna fece una smorfia e scosse la testa.
“Non mi importa dei soldi.”
“E allora perché prendersi il disturbo?”
“Lui sa dov’è mio figlio.”
A quelle parole Danza-Nera si girò per guardarlo, nel suo sguardo brillava una sfida che Solomon sapeva non avrebbe vinto. Così, non disse niente.
Lei salì sul cavallo e partì verso Nord. Ma dopo qualche minuto a galoppo ecco che al suo fianco c’era l’uomo, sul suo cavallo.
“Torna alle tue taglie, uomo di Dio.”
“Anche quell’uomo è una mia taglia. Hai un piano?”
“Seguo le tracce di sangue.”
“Mh. No, non si trova così un uomo bianco in fuga.”
Prese un sorso dalla fiaschetta al suo fianco, e mentre la richiuse le disse:
“Dovrà fermarsi prima o poi in una città. Basta chiedere alla gente del posto.”
“Non parleranno con me… E nemmeno con te.”
“Infatti parleranno con i soldi che mi hai appena fatto guadagnare, Danza, e lo faranno molto volentieri.”
–
“Scommetto che mezzo New Mexico deve aver giurato di aver visto Burns!” dissi con una mezza risata, sorseggiando il bicchiere che mi era stato offerto dall’uomo.
“Ci misero molto. Abbastanza perché che gli uccelli tornassero dalla migrazione.”
–
Era inverno, e la terra arida del deserto era diventata gelida, appostati su un promontorio Danza-Nera e Solomon guardavano nella direzione di un piccolo campo.
Solomon prese la mira con il fucile. Il bersaglio si era appena seduto per la cena. Il primo proiettile colpì il ginocchio destro, aperto come un’arancia spremuta, la polpa viva esposta alla luce del crepuscolo. Il secondo costrinse l’uomo a terra, i tendini spezzati del ginocchio sinistro esposti alle prime stelle della notte.
Mezz’ora più tardi, Burns giaceva inerme in una pozza di sangue. Danza-Nera gli stava legando i polsi. Solomon si era messo comodo, dietro le lenti scure dei suoi occhiali osservò la donna trascinare per i capelli l’uomo che avevano braccato per più di tre mesi lungo il terreno polveroso.
“Sadico bastardo negro!” urlò Burns, cercando di alzare la testa verso di lui, ma Danza-Nera gli piantò il suo stivale sulla sua guancia, costringendolo ad agitarsi nella polvere come un verme.
“Puttana! Troia! All’inferno! Brucerai all’inferno! Sono così contento di aver ucciso tutti i tuoi merdosi compagni! Io-“ Danza-Nera premette con più forza sul mento dell’uomo, che lanciò un urlo terribile di dolore.
Solomon aprì la bocca per parlare, ma si interruppe quando vide Danza-Nera accovacciarsi di fianco all’uomo e portare il suo coltello lungo l’attaccatura dei suoi capelli grigi.
“Ascoltami, diavolo bianco” sibilò Danza Nera “Il giorno in cui hai condannato la tua anima c’era un uomo con voi, l’ho visto, l’ho visto portarsi via uno dei nostri bambini” la lama penetrò la carne, un lungo rivolo di sangue scese lentamente lungo il viso di Burns.
“No! No! Ti prego! T-Ti prego!” urlò l’uomo, i suoi occhi lucidi di terrore.
“Dimmi il suo nome” continuò Danza-Nera, e cominciò a sollevare la pelle dell’uomo, un fiotto di rosso ricoprì metà del suo viso e una delle mani di lei.
Solomon balzò in piedi per cercare di fermarla, la loro preda non poteva morire troppo in fretta. Ma Danza-Nera aveva già ritirato il coltello, piegando il suo viso a qualche millimetro di distanza da quello dell’uomo.
“Dimmi il nome di quell’uomo, e dove ha portato quel bambino.” sussurrò piano. “Oggi morirai, ma se mi dirai questo ti ucciderò in fretta, sarà l’unica grazia che potrò concederti”
Quando, mesi prima, Solomon si era ritrovato faccia a faccia con la donna, per un istante si era convinto di avere davanti a sè un demone, un diavolo dal volto nero, emerso come il carbone delle miniere, e ricoperto di sangue e frattaglie. Ora, osservando Danza-Nera china sul corpo martoriato di un uomo, un peccatore che avrebbe conosciuto le fosse più profonde dell’inferno, era sicuro di essere al cospetto di un angelo dell’apocalisse, un essere oltremondano che avrebbe eseguito sulla terra il giudizio del divino.
Rimasero in silenzio, Burns respirava a fatica, il sangue gli ricopriva ormai tutto il viso ma il suo sguardo era fisso su Danza-Nera.
“G-Gideon Hargrave” rantolò infine “Un… un ex generale, l’esercito l’ha richiamato per un’operazione speciale! Dovevamo liberare le terre dagli indiani che si sono rifiutati di andarsene!”
Danza-Nera portò il coltello sulla gola dell’uomo, e riportando la sua voce a un sibilo lo esortò: “Il bambino! Dove ha portato il bambino?!”
“Con lui! L’ha portato via con sé! Ha una proprietà oltre il Pecos! Ha detto- Ha detto che l’avrebbe cresciuto! Che per lui c’era ancora speranza di non essere…” lo sguardo di Burns scese lungo il viso di Danza-Nera “…d-di poterlo salvare, si, di poter salvare… la sua anima.”
–
Non fui io ad interromperlo questa volta, fu lui stesso a fermarsi. Portò la mano sul suo petto e strinse il fischietto che portava al collo. Io presi un altro sorso del whisky offerto e attesi.
“Come credi sia meglio affrontare il diavolo?” mi chiese infine.
“Non saprei,” risposi “preferirei non avere mai la sfortuna di incontrarlo e basta”
L’uomo rise alle mie parole ma in un attimo si fece di nuovo serio “Lascia che ti dia un consiglio, allora, nel caso dovessi essere veramente sfortunato.”
Per un istante il riflesso delle fiamme del camino colorò i suoi occhi di giallo
“Bussa alla sua porta.”
–
“Quella notte la luna piena illuminava i campi maturi di granturco. Solomon accese il lembo di stoffa imbevuto di paraffina nella bottiglia piena di carburante. La proprietà di Redfield contava due uomini sull’ingresso principale, uno sull’ingresso sul retro, due uomini sulle finestre, tre uomini all’interno della casa. Senza contare i servitori, ovviamente.
Sapeva che questa sarebbe stata la sua ultima caccia.
Dall’altra parte Danza-Nera grattava l’acciarino nel granaio, le piccole scintille avrebbero dato fuoco al raccolto e la nottata si sarebbe illuminata di rosso.
Una pioggia di lingue infuocate partì così dal campo, e incendiò la casa di Redfield. Le grida non si fecero attendere, nell’aria risuonarono istruzioni su come spegnere l’incendio. Ma quando anche il granaio prese fuoco il panico si impadronì della notte.
Nascosto tra la distesa di grano, Solomon aprì il fuoco sull’uomo sul retro. L’uomo cadde con un urlo e ogni guardia ora puntava i propri fucili verso il campo, alla ricerca dello spettro che li voleva uccidere. Hargrave e il ragazzo uscirono poco dopo, due cavalli erano già stati preparati per loro. Adesso era compito di Danza-Nera inseguirli per recuperare il bambino.
Solomon sparò una seconda volta e uno degli uomini sulle finestre cadde di sotto con un tonfo secco. Gli uomini rimasti iniziarono a cercare riparo, ma il terzo proiettile del fucile riuscì a colpire l’ultimo uomo sulla finestra, lasciandolo cadere sul fianco.
Il quarto, un colpo sicuro alla testa di una delle restanti cinque guardie, non arrivò mai a destinazione. Il fucile che lo aveva servito fedelmente negli scorsi quindici anni si era inceppato. Se avesse cessato il fuoco, gli uomini avrebbero raggiunto la donna.
Il suo destino era deciso.
Si alzò in piedi, estrasse le pistole e si gettò correndo tra il granturco. Le pistole erano imprecise, riuscì ad avanzare abbastanza da colpire uno degli uomini rimasti al petto ma non prima che la sua vittima riuscisse a colpirlo alla spalla. La pistola gli cadde dalla mano sinistra, con la destra sparò in quella direzione, mancò, e un secondo proiettile gli centrò il ventre, costringendolo a terra. Gli uomini di Redfield rimasti uscirono allo scoperto.
Con un fucile puntato alla tempia, Solomon alzò lo sguardo sul suo esecutore e vide l’accetta di Danza-Nera aprire di netto il cranio dell’uomo.
Gli altri tre uomini si voltarono per spararle, ma la donna fu più veloce. La doppietta nell’altra mano fece fuoco atterrando l’uomo immediatamente alla sua sinistra. Gli altri due aprirono fuoco su di lei. Quattro colpi la ferirono, uno sulla coscia, uno sulla spalla e due nel ventre. Solomon afferrò il fucile abbandonato davanti a sé, perdeva troppo sangue, non sarebbe riuscito a mirare. Sparò in aria. I due uomini si girarono. Uno di loro colpì Solomon con un calcio alla testa E le lenti dei suoi occhiali andarono in frantumi. Danza-Nera sparò due volte. Colpì il petto dell’uomo più vicino, e il cranio del secondo. Ormai, la notte era stata inghiottita dalle fiamme.
Barcollò in avanti. Fu costretta a lasciare cadere a terra le armi. La sua intera esistenza si era concentrata ora nel suo petto, contratto nella disperata ricerca di ossigeno là dove avrebbe trovato solo cenere e morte.
Respirava, suo figlio? Soffocava ora? Questo fuoco. Sarebbe morto in questo fuoco? Questo fuoco appiccato dalle stesse mani che lo avevano cullato? Chi lo avrebbe cullato, quando sarebbe morto?
Un passo. Lo stomaco le si rivoltò nel ventre. Un altro passo. Il cuore sembrò fermarsi, trafitto dal dolore. Ancora un passo. Dalla gola alla bocca tutto si riempì di sangue e bile.
Un ultimo passo.
Una caduta.
Prime a raggiungere la terra, le ginocchia. Il dolore dell’impatto le strappò un grido, e il terrore nella sua voce straziata prese il posto di ogni pensiero. Si riversò a terra, il suo corpo ormai non le apparteneva più.
Chiuse gli occhi, li riaprì di nuovo, tutto era fiamme, fumo e ombre.
Un bagliore, una luce. A qualche metro di distanza i corpi dei suoi nemici. Riverso tra loro l’uomo che aveva giurato di proteggere. La montatura d’argento dei suoi occhiali brillava nell’oscurità. Eccola, la stella che l’avrebbe guidata a casa.
Le lenti scure erano andate distrutte, e gli occhi sbarrati riflettevano il bagliore delle fiamme senza trattenerne la scintilla. La piuma di falco tra i suoi capelli era ricoperta di sangue. Cominciò a trascinarsi.
“Aspettami.” E ancora: “So che il tuo Dio ti aspetta.” E ancora: “Rimani.” E ancora “Verrò io da te.” E ancora: “Non lasciarmi sola” E ancora: “Anche io ti aspetto.” E ancora: “Solomon.”
Passi. Destro. Sinistro. Destro. Sinistro. Destro. Sinistro. Sempre più vicini.
Pregò i suoi fratelli, le sue sorelle, i suoi bambini. Era a loro che doveva la vita.
Un’ombra si stagliò sopra di lei. Le fiamme che divoravano il mondo scomparvero.
Ogni respiro suo respiro gli apparteneva. Ogni passo. Ogni morto. Tutto.
“Credi all’inferno?” chiese Gideon Hargrave, puntandole una pistola alla testa.
Quanto le mancava danzare con loro.
“Certamente” rispose un’altra voce. Danza-Nera alzò il capo.
Un’ultima danza. Un’ultima danza! Era tutto ciò che gli avrebbe chiesto, ora. Un ultimo dono! Le forze per un ultimo ballo! Un’ultima caccia!”
Il sangue. Sui suoi vestiti. Sul suo viso. Sulla sua carne. Sulla terra sotto di lei. Sull’uomo che amava.
Tranne suo figlio. Immacolato. Puro.
“Dimmi Thaddeus, l’inferno è un luogo?”
Era un ragazzo. Aveva il profilo di suo padre. Non la stava guardando. Teneva il volto girato verso l’uomo.
I suoi capelli erano stati tagliati.
“Non solo” rispose il suo bambino “A volte l’inferno è un luogo, a volte è la nostra stessa mente… e altre volte è una persona”
Il suo inglese era perfetto. Hargrave annuiva soddisfatto. Avevano lo stesso accento.
“Corretto” disse l’uomo, e si girò verso di lei. Il fischietto d’osso che portava al collo le ricordò per un momento la zanna di un serpente.
“L’inferno è eterno, ed è ovunque. Non c’è una fine, o un inizio. La verità, Thaddeus, è che alcuni di noi nascono con l’inferno già dentro di loro, nel loro cuore.”
Gideon Hargrave alzò la pistola, e senza guardare il ragazzo gli passò l’arma.
“Non importa dove andranno o cosa faranno, bruceranno sempre.”
Si toccò la fronte, poi il petto, infine ogni spalla.
“È il Suo volere.”
Danza-Nera guardò suo figlio prendere in mano l’arma e puntarla verso di lei.
Era un ragazzo. Aveva Il viso di suo padre. Ora la stava guardando.
Sua figlio la stava guardando. Suo figlio.
Era un ragazzo. Aveva il viso di suo padre. Aveva gli occhi di sua madre.
Aveva gli occhi di Lingua-di-Sole. Lingua-di-Sole era morta.
Era un ragazzo. Suo padre era morto. Sua madre era morta.
Avrebbe dovuto piangere. Nulla aveva più senso se non il dolore. Chiunque avrebbe pianto.
Il suo bambino.
Erano i suoi occhi. Aveva i suoi occhi. Erano i suoi occhi. Aveva i suoi occhi.
Il suo bambino. Il suo bambino. Il suo bambino.
Il suo bambino stava piangendo.
Danza-Nera guardò suo figlio stringere in mano l’arma e puntarla verso il demonio.
Lontano, un coyote ululava alla luna e un falco spiccava il volo verso le stelle.
Lontano, ancora più lontano, un villaggio in festa danzava intorno al fuoco per celebrare la fine di una guerra e la loro vittoria. .
Lontano, ma non così lontano, una donna partoriva il suo primo figlio, il suo primo bambino.
Lo sparo riecheggiò nell’aria come il grido di un guerriero.
La mattina seguente, il corpo di Gideon Hargrave, detto Redfield, fu ritrovato tra le ceneri.”
–
Come promesso, l’uomo mi riportò sulla strada principale. La sera prima, al termine del suo racconto aveva risposto pazientemente a tutte le mie domande. Eppure, camminando ora al suo fianco, un ultimo quesito si agitava nel mio cuore ma non me la sentì di proglierla fino all’ultimo istante prima della mia partenza.
“Il fischietto” chiesi senza preavviso, dopo avergli già stretto la mano “Perché l’ha tenuto?”
L’uomo, Radice-Bruciata, non rispose. Non si scompose, non si arrabbiò come temevo. Semplicemente, mi sorrise. si portò lo strumento alla bocca e ci soffiò dentro con forza.
Non successe nulla. Neanche un sibilo. Era ormai un oggetto inutile, nessuno avrebbe mai più udito il suo fischio.
In quel momento giunse alle nostre orecchie un ululato lontano. Sobbalzai.
Un lupo! No, non era possibile. Non poteva essere che un coyote.
Guardai Radice Bruciata, ma il suo volto era girato, volto nella direzione da cui era provenuto il grido.
“È ora di andare,devo tornare a casa.” disse semplicemente “Buon viaggio, forestiero.”
Di Virginia Cattaneo e Leonardo Targa