Signor Muschio


Andavo sempre lì in vacanza, nella nostra piccola casa in legno in un paese vicino a Holland. La scuola era finita e mi aspettavano i folti alberi che coprivano i raggi del sole e l’odore della torta di ciliegie di nonna. Ma soprattutto, c’era John. Ci scrivevamo ogni tanto durante l’anno, ma l’estate era l’unico momento in cui ne ero soddisfatto. Non conoscevo la sua famiglia, non ne parlava mai. Lo riuscivo a incontrare sempre nello stesso posto, davanti a quell’alimentari in cerca di una nuova avventura. Durante l’anno non riuscivo a cogliere la bellezza che mi circondava, ma con lui anche un piccolo formicaio diventava una miniera d’oro. Mi insegnò ad andare in bici, rubavamo il tabacco e ce lo masticavamo in riva al lago, con i piedi a mollo nell’acqua gelata. Ma la cosa che riempiva di più le nostre giornate era collezionare le figurine di baseball; adesso non ricordo l’annata in particolare, ma in quel preciso periodo ci mancava davvero poco a concludere l’album. Molte delle figurine le avevamo procurate dai ragazzini del paese, ignari della qualità del nostro baratto. Altre rubate al solito alimentari che, ogni tanto, si riforniva di buste. John se ne procurò molte anche facendo a botte con i ragazzi più grandi; era un mostro, durante tutte quelle estati non l’ho mai visto fermarsi davanti a nulla. L’album era quasi completo, quella volta ci eravamo soffermati di più anche perché non eravamo mai arrivati così vicini al concluderlo. Scorrevamo le pagine in cerca di un errore, di qualche buco che avrebbe messo a repentaglio i nostri pochi risparmi. Nella quinta pagina comparse; non ricordo esattamente chi fosse, era un esterno destro insignificante. A John non andava giù che una nullità del genere avesse interrotto il suo cammino a un passo dal traguardo. Andammo a finire le ultime buste rimaste nell’alimentari, interrogammo ogni ragazzino per il ritrovamento di quella figurina, con le buone e delle volte anche con le cattive. Io ero lì con lui ogni volta; lo guardavo e non fiatavo, la mia presenza era di troppo nella sua ricerca, sarei stato un intralcio. Fu la prima volta che lo vidi crollare, lo ricorderò per sempre quel giorno. Ci salutammo quella sera, prima del tramonto; sparì verso il bosco senza lasciare una traccia e non lo incontrai per numerosi giorni. Più volte lo cercai al solito posto, ma sembrava fosse scomparso, sconfitto dalla sua stessa impresa.

Dopo la gita al lago con i miei, un pomeriggio passai vicino all’alimentari per controllare un eventuale arrivo di buste nuove, quando, alla cabina telefonica lì fuori, lo vidi; era in piedi su una scatola per raggiungere la cornetta con al suo fianco un secchiello pieno di monete e l’enorme elenco telefonico aperto.

“Che stai facendo?”, chiesi con tono sorpreso. Ero felice di vedere John con la sua solita energia.

“Dove le hai prese tutte queste monete?”. Mise una mano sulla cornetta per non farsi sentire e mi guardò frettoloso.

“Stai un attimo zitto, sto cercando di lavorare qui”. Facevo fatica a comprendere le sue parole, non sapevo neanche chi ci fosse dall’altra parte del telefono, e di quelle monetine non voleva proprio accennare nulla.

“Cosa stai facendo? Con chi parli?”, chiesi in modo insistente. 

“Ti ho mai deluso? No, non credo proprio”, tolse la mano e riprese la chiamata.

Non sapevo chi ci fosse dall’altra parte, ma le sue parole erano serie, un discorso da adulti che uscito dalla sua bocca faceva impressione. Continuava a mettere giù e inserire monetine, come gli zombi alle slot del bar vicino all’alimentari. Chiudeva e riapriva chiamate come in un call center, non sai mai cosa stanno per venderti ma non mollano mai quel dannato telefono, neanche con una pistola puntata alla tempia. Era tutto il pomeriggio che supplicavo John di dirmi cosa stesse facendo, ma non smetteva di ricaricare quel telefono e zittirmi a ogni tentativo. Me ne stavo seduto, fuori dalla cabina, a osservare le auto passare; dopo ore una mano mi toccò la spalla, avevo gli occhi pesanti.

“Sveglia, sveglia”, era John con l’album di figure aperto tra le mani, indicando lo spazio mancante. “Ho trovato il nostro esterno, è stato difficile ma un negozio non lontano da qui ne ha un centinaio di copie a un prezzo stracciato”. 

Quanta ironia, pensai. “Dove si trova esattamente?”, dissi strizzandomi gli occhi.

John borbottò qualcosa, non sentii e glielo feci ripetere: “Ludington”.

“Ludington? Non arriveremo mai fin laggiù, sei impazzito?”, dissi mentre guardavo il suo volto raggiante. Tutto sommato erano tre ore di macchina da dove ci trovavamo noi, però allora per noi era una vera e propria avventura.

“Come pensi di arrivarci?”, continuavo a ripeterlo anche se in cuor mio sapevo che John non mi avrebbe deluso, era sempre dieci passi avanti a me. Iniziò la spiegazione del piano; saremmo partiti la mattina seguente all’alba, un semplice autostop fuori città ci avrebbe portato a Ludington fino al negozio di figurine e con un secondo passaggio saremmo tornati indietro entro la fine della giornata, nessuno se ne sarebbe accorto. Suonava come un piano plausibile, d’altronde tra le due città c’era una grande circolazione e qualcuno ci avrebbe caricato prima o poi. L’unica differenza tra me e lui era la preoccupazione; se i miei l’avessero scoperto mi sarei ritrovato relegato in qualche istituto, mentre John era sempre più lontano dalla sua visione di casa. 

La mattina seguente era tutto in regola, mi ero preparato la sera prima dall’agitazione; un piccolo zaino comodo, numerosi snack per il viaggio e qualche soldo tenuto da parte in un calzino. Uscii di casa con i primi raggi del sole e mi diressi al punto di incontro passando per i prati umidi dal freddo notturno. John era puntuale davanti all’uscita del paese: “Sei pronto? Da qui faremo un’oretta a piedi, poi cominceremo a chiedere i passaggi, e con un po’ di fortuna prima di pranzo saremo lì”. A posteriori quella frase era ridicola, ma al tempo non stavo più nella pelle. John stava dando il massimo di sé e io ero al suo fianco, a godermi quella bellezza. 

Parlavamo tutto il tempo, mi raccontava di come in futuro sarebbe diventato un esperto dell’oriente, una terra piena di fascino e di cultura; per lui gli Stati Uniti erano un paese piccolo, con una misera storia di neanche duecento anni, e voleva approfondire culture millenarie per soddisfare la sua sete di conoscenza. Non si parlava mai di argomenti attuali, le nostre famiglie, la nostra scuola; durante l’estate erano parole proibite. Dopo aver superato i numerosi boschi che circondavano il nostro piccolo paese, arrivammo sulla grande autostrada che percorreva l’intero stato. L’asfalto ruvido e bianco sembrava infinito, un orizzonte senza fine dove minuscole automobili comparivano e scomparivano. Rimasi un attimo inerme di fronte a questa vasta spianata, non ero mai stato qui con le mie gambe.

“Dai muoviti, manca poco al benzinaio”, urlò John che si era già incamminato, sembrava a suo agio qui, in mezzo al niente. 

Arrivammo alla stazione di servizio più vicina, era un buco con due pompe e una piccola casetta dove l’addetto serviva il caffè a poveri automobilisti o camionisti che incappavano in quel luogo dimenticato da Dio. C’erano numerose macchine parcheggiate fuori a cuocere sotto al sole. Noi ci riposammo all’ombra dell’edificio, bevendo acqua dalle nostre borracce. 

“Allora sei pronto?”, John mise a posto lo zaino ed entrò nel locale in cerca di un passaggio. A me tremavano le gambe, a malapena riuscivo ad aprire bocca. Mi avvicinai a un signore, era molto robusto, la camicia a quadri e il cappello di una marca di gomme; è sicuramente un camionista, pensai. 

“Scusi, signore”, dissi balbettando”.

“Che c’è?”.

Alla sua risposta mi ammutolii, la sua voce profonda aveva sconfitto tutti i miei intenti. John mi prese per la spalla e mi trascinò via: “Ma sei impazzito? Quelli come lui ci mangiano, bisogna essere scaltri. Vedi quello lì? Quello sarà il nostro passaggio”. Indicava un signore sulla quarantina, una camicia azzurra abbottonata fino all’ultimo e degli occhiali squadrati. Leggeva il giornale e sorseggiava una tazza di caffè bollente, anche troppo per il caldo estivo. È sicuramente un turista, pensai, mentre osservavo le sue scarpe lucide, minimamente toccate dallo sporco di quella autostrada polverosa. La mia analisi venne interrotta da John, che andò senza esitare da lui. Gli fece vedere la mappa e gli spiegò della nostra meta, fu una conversazione veloce. Mentre gli parlava, indicava anche me, facevo parte del suo piano e mi spinse ad avvicinarmi. Il signore mi guardò incuriosito, aveva uno sguardo mite, ma molto rassicurante; l’avrei definito come un piccolo cespuglio di muschio, fresco e innocuo. 

“Certo, non ci sono problemi. Devo andare anche io a Ludington”, disse il signore. Il nostro entusiasmo era alle stelle, da lì in poi sarebbe stato una passeggiata. Finì il suo caffè in un sorso, posò il giornale sul bancone e pagò frettolosamente con alcuni spiccioli che aveva nella tasca dei pantaloni. Io avevo ancora dei timori, ma la sicurezza di John sul suo volto mi rassicurava, lui non si sbagliava mai. Usciti dal posto andammo nel parcheggio e ci indicò la sua macchina; era una Mercedes nera, sedili in pelle, finestrini oscurati. 

“Che bella macchina!”, dissi stupito, era magnifica, il sogno di ogni bambino come me, troppo confinato dai piccoli paesi per pensare di vederne una.

“Faccio l’autista a Chicago, sono qui di passaggio per un lavoro importante”. Ovviamente non stavamo neanche a sentire le sue chiacchiere e salimmo a bordo: io mi misi dietro, non volevo aprire bocca durante il viaggio, mentre John era già davanti a commentare ogni particolare degli interni. Il signore, che ora non ricordo come si chiama, direi signor muschio al momento, si stampò un sorriso in volto, fiero della sua vettura. 

Mise la freccia ed entrammo in quella distesa bianca senza fine. Il sole picchiava forte e ormai pregustavo il sapore di quella figurina, di quello spazio finalmente riempito. Lì davanti non smettevano di parlare, John voleva sapere tutto sul lavoro del signor muschio; lo sguardo era illuminato come quello di un figlio che gioca la prima volta a baseball con il padre; non l’avevo mai visto così. Io mi limitavo a guardare fuori dal finestrino, in attesa che quelle due ore passassero. Le chiacchiere erano numerose, così decisi di chiudere gli occhi e pregare che finissero. 

Di colpo li aprii, John mi agitava la gamba con una mano: “Sveglia, sveglia, c’è la polizia”. Non capivo molto di quello che stesse succedendo; il signor muschio era in piedi a parlare con due agenti vicino alla loro auto, mentre noi eravamo rimasti chiusi qua, senza vie di fuga. 

“Che facciamo? Cosa succede?”, iniziai a perdere il fiato. Non riuscivo a stare fermo, un uccellino in gabbia. Mi arrivò un ceffone organizzativo: “Devi calmarti, ho un piano”. John, guardandosi alle spalle, passò al posto del guidatore. Caricò l’acceleratore di forza, le mani serrate sulla pelle del volante e il finestrino abbassato: “Addio!”. L’ultima cosa che vidi furono il signor muschio con le manette ai polsi e uno dei due agenti giratosi di scatto. Loro invece videro due ragazzini alla guida di un’auto schizzare via. John era un asso al volante: “Me l’ha insegnato mio padre quando avevo sei anni”, disse guardandomi con un sorriso spiaccicato, era la prima volta che lo nominava. 

Alle porte di Ludington c’erano disseminati numerosi posti di blocco; avevamo tra le mani l’auto di un pesce grosso. Arrivati fin lì però, non potevamo più tornare indietro. Girammo le poche vie del piccolo comune, nascondendoci nel traffico, e in pochi attimi ci trovammo al fatidico negozio; una catapecchia che tirava avanti con figurine di baseball talmente comuni da essere introvabili. 

“Eccoci, la missione è conclusa”, dissi guardando John. Lui non mi ricambiò lo sguardo ed entrò con i soldi in mano. Dentro il locale era il negozio più comune, con i clienti più comuni e il commesso più comune. La faccenda non fu entusiasmante come sperammo, nessun tesoro del tempio alla Indiana Jones, nessuna botola nascosta alla David Copperfield, solo un semplice scambio di denaro per una misera figurina. 

“Tutto qui?”, disse John con l’esterno destro in mano. Avevamo riempito quel vuoto, ma non ci sembrava che fosse la fine. Eravamo in una città sconosciuta in ritardo sulla tabella di marcia. Iniziammo a correre per la noia e decidemmo di raggiungere l’auto; era completamente circondata dalla polizia, gli agenti intorno mostravano fotografie con le nostre facce e uno di loro si accorse di noi. 

“Corri!”, urlò John mentre avevo già cominciato a dirigermi dall’altra parte. Tre uomini iniziarono a seguirci per le vie trafficate di Ludington; schivavamo le persone come birilli mentre ci urlavano di fermarci. Le mie gambe stavano cedendo, il mio fiato era incontrollabile, ma loro non si sarebbero arresi. Trovammo un mercato e ci infilammo sotto una bancarella del fruttivendolo. 

“Ho un piano, non ti preoccupare”.

“Non ce la faccio più con i tuoi piani. Ti ho seguito fino a qui e ora siamo ricercati, non ho più intenzione di ascoltarti”. 

Smise di parlare, il suo sguardo crollò. Ancora oggi non so cosa gli successe, ma da quel momento le cose cambiarono. Senza preavviso uscì dal nostro nascondiglio e iniziò a correre, attirando l’attenzione degli agenti. Io proseguii poco dopo, non sapevo cosa avesse in mente. Stavo percorrendo la strada a ritroso fino alla macchina nera e lo vidi, senza voltarsi, sfrecciare per le vie inseguito da due volanti. 

Da quel momento non ricordo molto; fui catturato, mi portarono in commissariato e lì rincontrai John, nella cella con gli adulti, una mosca tra le rane. Mio padre entrò con lo sguardo pietrificato, era in tono con il muro grigio della sala d’attesa. Mi disse di stare lontano da quel criminale, un ragazzino cresciuto da disadattati, emarginati, che gridavano al complotto dello stato e si erano rifugiati nel nulla. “Povero bambino”, diceva mio padre nel vederlo dietro le sbarre, una vittima dei genitori. Per me era solo un uccellino con un paio di ali nuove, chiuso in una gabbia troppo stretta. 

Non lo vidi più da quel giorno e ogni estate lo aspettavo sempre lì, davanti a quell’alimentari. Speravo che ricomparisse con qualche album nuovo di figurine o nuovi aneddoti sull’Asia. Chissà se, alla fine, è riuscito ad arrivarci.

Crescendo ho smesso di frequentare quel villaggio e iniziai a viaggiare il mondo; abbandonai quelle sbarre che John aveva mandato in frantumi da tempo; era evaso e l’unico ad averlo seguito ero io. 

Ora, dopo molti anni, sono tornato qui, nel piccolo paese vicino a Holland. I miei hanno deciso di vendere la casa definitivamente e quindi sono venuto a salutare per l’ultima volta. Ci sono molti momenti che mi hanno segnato tra queste pareti in legno, e tanti attimi in queste strade mal asfaltate che sono ancora cicatrizzati sulla mia pelle. Passando davanti all’alimentari ricordo ancora quelle figurine, le risse, i furti di caramelle; eravamo in cima al mondo del piccolo paese del lago Mitchigan. Un forte rumore spezza le mie memorie, è quella dannata cabina; non riesco a dimenticare quel forziere pieno di monetine luccicanti. Non vedo nessuno in circolazione, mi guardo intorno e sembra che ogni passante sia scomparso. Mi avvicino alla cornetta e la alzo, pronunciando poche parole: “Ti ho mai deluso? No, non credo proprio”.

Pietro Mella Bitti
pietromella.studia@mohole.it


Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *