In fondo alla sala si stavano formando lunghe code per compilare i moduli e avere accesso al trattamento, alle tre uscite giovani sorridenti, addosso un completo beige. Davano le spalle alle porte di vetro e distribuivano spille con scritto TIME’S UP.
J uscì da una porta laterale, sgomitando contro la folla che si accalcava vicino al palco, desiderosa di stringere la mano al sindaco e alla ministra e fare una foto con loro. Fuori, era stato allestito un piccolo podio con un microfono in mezzo allo spiazzo di cemento bianco. Gli agenti della sicurezza tenevano i giornalisti sulle scalinate, le telecamere accese, i microfoni in mano, pronti per raccogliere le dichiarazioni dei fautori dell’iniziativa. Ai piedi delle scale una giornalista faceva la cronaca in diretta. J si spostò dalla massa, provando ad allontanarsi, aggirando persone e polizia. Camminava a testa bassa, le mani nelle tasche della felpa. Teneva tra le dita la spilla ricevuta all’uscita, l’avrebbe buttata appena fosse stato lontano. Stava per imboccare una via laterale quando si sentì chiamare. Ignorò la voce ma insistette, stavolta più vicina. Tolse le mani dalla tasca e si girò. Marcus Temeran gli stava andando incontro, un completo blu dalle spalle troppo larghe e una cravatta celeste che si muoveva a ogni passo.
– J Abrams, l’ultima persona che mi sarei aspettato di vedere. Come stai? Fatti dare un abbraccio -. Non vedeva Marcus da anni ormai, dai tempi dell’università. Dopo la laurea J era stato assunto negli uffici dell’amministrazione generale, Marcus era andato a fare l’architetto in un’altra regione, J non ricordava quale.
– Pensavo che lavorassi a Carnabee, – disse J, che ora guardava il sindaco uscire, avvicinandosi verso il podio a passi lenti e misurati, le braccia aperte come il Cristo Redentore, pronto ad accogliere gli elogi della folla davanti a lui.
– Sono tornato per questo, – disse indicando la sala.
– È bellissimo J davvero. Forse sono di parte, ma credo che sia il più bello che abbiano mai fatto costruire. Ed è enorme. C’è un salone di bellezza, ci sono dei negozi se non vuoi portarti nulla da casa. E devi vedere le sale visite. Piccole oasi dove ti puoi rilassare con la famiglia prima del trattamento. Me lo farei fare anche adesso io. I ragazzi che lavorano alle risorse umane mi dicevano che si aspettano prenotazioni anche da fuori regione -.
– Di sicuro attira l’attenzione, – commentò J non sapendo dove inserirsi all’interno della conversazione.
– Ci ho lavorato anche io. Una di quelle cose per cui andare fieri -.
Era ovvio che Marcus gli stava dando tutte quelle informazioni solo per gongolare del suo successo, ma non trovò nulla da dire per fermarlo. Rimase a guardare l’imponente edificio alle spalle dell’amico, la cupola di vetro che rifletteva i raggi del Sole, sorretta da capitelli ionici di marmo bianco.
– Flinch farà un sacco di soldi con questo, – aggiunse Marcus. Robert Flinch era il più grande appaltatore di centri per il trattamento del paese. Un uomo alto e magro sui sessant’anni. Avvolto in un completo nero che evidenziava il pallore della pelle, l’espressione vuota dietro gli occhi verdi. Gli zigomi alti davano al volto un’aria tetra, quasi funebre.
– Lo sai che i miei hanno fatto già domanda per ricevere il trattamento? Entrano la settimana prossima -.
– Sono troppo giovani, – disse J pentendosene. – Hanno almeno ancora dieci anni prima di pensarci -.
– Forse – Per un attimo Marcus sembrò tornare finalmente un essere umano. – Mio padre ha avuto una brutta polmonite. Dice che è stanco. Non vuole prendere medicine che graverebbero sull’Istituzione. Mia madre ha deciso di seguirlo. –
– E tu cosa dici? – chiese J, le mani di nuovo in tasca.
– Dico che sono stato cresciuto da brave persone. È raro trovare oggi qualcuno che si renda conto che il bene comune è più importante dei desideri del singolo. Oggi tutti trovano una scusa per evitare il trattamento, come se non stessimo cercando di fare il bene di tutti -.
J non rispose e Marcus continuò – I tuoi invece? L’hanno già fatto? –
– No, – rispose J distogliendo lo sguardo, – Non ne hanno ancora parlato -.
– Beh ormai è ora che lo facciano. Perché dovrebbero rimanere? Posso provare a sentire se qua hanno posto per farlo con i miei, le nostre madri si divertirebbero molto a ricevere l’encomio insieme -.
J borbottò una risosta e si affrettò ad andarsene.
– Signore e signori, prego avvicinatevi. È un grande onore per me dichiarare ufficialmente aperto e operativo il nuovo centro per l’eutanasia! –
La folla applaudì entusiasta, molti si alzarono in piedi, le signore commentavano l’estetica della struttura, si domandavano quanto sarebbe costato fare domanda lì. Il sindaco sorrideva per le telecamere, gocce di sudore gli colavano copiose dalla fronte per riunirsi sul colletto della camicia azzurra. Strinse la mano a un uomo dal completo grigio scuro, Fridebarg se non ricordava male, uno dei più importanti appaltatori di centri per l’eutanasia del Paese. Accanto a lui la ministra alla Salute Julia Winston. All’età di cinquantasette anni aveva annunciato che sarebbe stata la prima a usufruire della nuova struttura, invitando i presenti e quelli in ascolto da casa a seguire il suo esempio. “Per un paese forte e prospero”, aveva ripetuto alla fine del suo discorso.
Seduto sull’autobus in direzione casa, J guardava la città che passava. Sui cartelloni pubblicitari uomini e donne di mezza età sorridevano con accanto lo slogan della campagna all’eutanasia; ai loro piedi i bambini li ringraziavano per il loro lavoro. Avrebbe lasciato un Paese sano e giovane. Due ragazze sedute dietro di lui parlavano dell’inaugurazione, fantasticavano su come avrebbero voluto che si svolgesse il loro trattamento. Su un sedile alla fine dell’autobus una ragazza piangeva. Teneva la testa china sul petto, tra le mani un fazzoletto. Quando si accorse che J la guardava, si asciugò di fretta le lacrime dalle guance e prese in mano il telefono. Si mise le cuffie, la musica partì. Tra una canzone e l’altra la pubblicità sponsorizzava un nuovo bonus per i neogenitori. Sceso dal pullman si incamminò verso casa. In ascensore una madre con la figlia stringevano in mano dei volantini. – Dobbiamo farli vedere ai nonni -, diceva la donna. Quando entrò in casa trovò i suoi genitori seduti in cucina.
– Ci sottoponiamo al trattamento, – annunciò sua madre.
Valentina Tanfani
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