«Il Signore t’accompagni, fratello.» tuona Baldassarre all’indirizzo dello sconosciuto al quale ha appena tagliato la strada. Polo, sul sedile del passeggero, artiglia la cintura di sicurezza come un infante terrorizzato farebbe col petto della madre. Sa che quando Baldassarre, fiero clochard e ateo agguerrito, augura conforto religioso a qualcuno significa che ha raggiunto il decimo grado nella scala Mercalli dell’incazzatura; nonostante ciò, il tono resta cortese e aulico, degno del più celebre santone da strada di Lambrusco di Sotto.
«Non trovi inaccettabile che, al giorno d’oggi, un mezzo di servizio deficiti ancora di sirene?» domanda al “collega” mentre evita di una spanna un’anziana in carrozzella sulle strisce.
Pallido come un turista teutonico a Rimini, Polo si concede un attimo per rifiatare «Se le avesse sarebbe più strano», dopodiché solleva con una schicchera l’interruttore a sul cruscotto «Questo va bene comunque?».
L’allegro motivetto da carillon si diffonde dagli altoparlanti del furgoncino dei gelati e i due “diversamente domiciliati” (termine coniato da Baldassarre) lasciano che sia l’assenza di eloquio ad argomentare per loro.
È Polo a interrompere lo stallo: «Eccolo, ecco il 29» addita l’autobus una ventina di metri più avanti, con la mano libera cinge la spalla dell’amico. In pochi secondi l’aggressivo scatto del furgone lo porta ad affiancare la sezione anteriore del mezzo pubblico e, abbassato il finestrino destro, i due iniziano a sbracciarsi e gridare.
«Ferma! Ferma!»
«Accorruomo!»
Il conducente dell’autobus si volta lentamente e l’elevazione del sopracciglio nell’occhiata che rivolge loro li rende immediatamente consci dell’effetto che può suscitare la visione di due barboni strepitanti su un camioncino, specie se quello alla guida sfoggia una chilometrica peluria facciale ed evidenti origini mediorientali.
La falange media dell’autista si erge in risposta all’invocazione. Polo, così battezzato dalla comunità locale di senzatetto in virtù della sua predilezione dei trasporti pubblici come giacigli, si accascia sul sedile «Tranquillo, c’è una fermata al prossimo incrocio. Lo becchiamo lì.»
Baldassarre, con sclera sanguigna, sentenzia «Dicoti no» e affonda il piede sull’acceleratore.
Le pupille del barbuto pilota palleggiano tra la strada e l’obiettivo mentre il motore del furgone ruggisce in agonia. Polo spalanca palpebre e labbra, ma il grido resta incastrato in gola. L’istante successivo è già troppo tardi; Baldassarre strattona il volante per conquistare la pole position, il camioncino sobbalza e prende il volo come un giocattolo scagliato via dalla manata di un infante capriccioso.
Il mondo attorno ai due uomini si offusca e si congela durante l’acrobazia a mezz’aria; uno scopre di aver iniziato finalmente a urlare, pur non ricordando esattamente il momento, l’altro continua a timonare come se potesse davvero fare la minima differenza.
Il furgone dei gelati atterra su una panchina, lo schianto secco del legno che si spezza ripristina il fluire del tempo con l’irruenza di una diga in frantumi.
La coppia di frastornati tapini metabolizza lentamente l’accaduto tra gemiti e ululati. Dietro di loro, l’autobus sfila con pacatezza sul dosso stradale, quasi a deriderli; i passeggeri si accalcano ai finestrini per ammirare il furgone incidentato.
Baldassarre torce ripetutamente la chiave d’accensione, sfoggiando una conoscenza di fauna e teologia tale da indurre l’agnostico Polo a improvvisare un segno della croce verso la Mecca.
Qualche rantolo dopo il mezzo annaspa in un primo sussulto vitale, poi un ringhio sforzato copre il colorito vilipendio inferto dal santone a una qualche religione indo-americana e, con un ultimo colpo di reni, l’inseguimento riparte.
Polo spazzola via i frammenti del parabrezza che gli adornano la giacca come grossolane paillettes, le nocche sbucciate dipingono baffi rossastri appena visibili sulla lana verde scuro.
«La prossima volta freghiamo un’ambulanza»
«Non indulgere in facezie e dirigimi, il marrano guadagna terreno»
«Prendi il vicolo a destra, al cassonetto verde taglia per il prato»
«Oh, non è il bugigattolo in cui dimorava la buonanima di Alfio? Sarebbe d’uopo onorarlo con un brindisi, ante o poi»
«Chi è che facezia, ora?»
«Touché»
Il furgoncino scarta arrogante nella strettoia, il carillon ancora suona imperterrito, seppur singhiozzante.
«Là, il 29» indica Polo, con il busto sporgente dal finestrino.
«Ravvisi il marmocchio?»
«Non mi sembra, forse non è ancora sceso» la vedetta stringe gli occhi e si ripara col palmo, prima di starnazzare in preda a spasmi «Cazzo, no invece, eccolo lì. C’è un porco che lo sta allacciando.» Alla fine del parchetto, qualche metro prima della fermata, un ragazzino sui dieci anni si dibatte dalla ferrea presa di un controllore sul suo braccio.
«Poffare, così non lo acciuffiamo più»
«Fa qualcosa»
«E cosa, di grazia?»
«Non so, distrailo, spaventalo se vuoi, ma fa qualcosa»
«Così sia»
Il tono basso e deciso di Baldassarre in quelle ultime, fatidiche due parole, rimbomba come una campana da messa funebre nel cranio di Polo, che potrebbe giurare di sentirlo riverberare in ogni centimetro quadrato della pelle accapponata.
Le ruote del camioncino fanno un paio di giri a vuoto sul terriccio, poi conquistano l’aderenza necessaria e spingono due tonnellate di ferraglia in avanti, sul marciapiede. Baldassarre, forte di anni di film americani piratati dal pc della biblioteca, aziona il freno a mano. Polo urla di nuovo. Il controllore non ne ha il tempo. Allertato dallo stridio della frenata, riesce appena a proteggersi il volto con le mani prima di venire travolto dal muso del furgone.
«Merda, l’hai ammazzato»
«Dissento»
«L’hai ammazzato» ripete Polo, quasi in trance.
«Ritengo sia ancora in vita.»
Polo spalanca la sua portiera, paonazzo «Tu vedi che lo sia, io piglio il moccioso» e, mentre Baldassarre si appresta a soccorrere la vittima, si rivolge al ragazzino che fissa la scena, inebetito «Tu. Vieni qui.»
L’ordine perentorio del clochard riscuote il giovane dallo sconcerto e lo induce a indietreggiare di qualche passo.
«Qui, ho detto»
Il secondo ammonimento ha l’effetto di un colpo di pistola sparato da uno starter alle olimpiadi; il bambino si gira e inizia a correre, l’uomo sputa un ringhio lamentoso e parte a sua volta.
Sotto gli occhi dei curiosi avvicinatisi all’autobus dopo lo strike di Baldassarre, barbone e monello si allontanano come lepri dalla scena del delitto, scavalcando il recinto di un magazzino per poi sparire tra container e muletti.
«Che vuoi da me?» strilla il ragazzino senza guardare l’inseguitore.
Polo apre la bocca, ma quasi si strozza nel soffocare il grido. “No, se glielo dico corre fino a crepare d’infarto” obietta a sé stesso «Voglio che ti fermi, subito.»
«Fanculo!»
Per tre volte Polo arriva a sfiorare il bambino, con le grinfie protese in avanti; per tre volte questo gli sfugge. Prima scarta di lato a ridosso di un groviglio di imballaggi, facendovi inciampare sopra l’uomo. Poi passa in mezzo ai pali di un’impalcatura, troppo ravvicinati per l’inseguitore, che è costretto a fare il giro. Infine, raggiunta la recinzione esterna del complesso, il cacciatore sogghigna, schiumante di rabbia e spossatezza. Sogghigna perché vede che la “vittima” non ha più vie di fuga. Sogghigna perché ha vinto.
Poi il ghigno gli si scioglie sul mento, quando il ragazzino si tuffa in avanti e passa attraverso una fessura tra le maglie del recinto.
«No!» Polo si getta verso il foro, grande quanto basta per accogliere testa e spalle del tapino, prima di intrappolarlo come la tela di un ragno. E come una mosca lui si contorce, si dimena, grugnisce ogni volta che il filo di ferro gli uncina la carne. Sguscia fuori dalla giacca, ormai irrecuperabile, a guisa di serpe che abbandona la muta.
Logoro, ansimante e sanguinolento, si ritrova carponi a fissare il maledetto moccioso che abborda al volo un tram; sorride, il bastardello.
Il jingle del camioncino dei gelati gli accarezza le orecchie come un coro di voci bianche, ed ecco che dall’arca sgangherata fa capolino il sosia di San Pietro:
«Lesto, Polo. Dannata sia la mia prole se non agguantiamo il fanciullo!»
Il misero residuato bellico si obbliga a claudicare fino al sedile del passeggero, fa appena in tempo ad appoggiarvi i gomiti prima che il pilota interrompa il pit stop, lasciando un dito di copertone sull’immaginaria linea di partenza.
Il furgone macina l’asfalto con la ferocia di una leonessa a digiuno da un mese, Polo si riassesta un dito lussato ed entrambi iniziano a fischiettare il motivetto del carillon, enfatizzando gli acuti come se stessero intonando la Cavalcata delle Valchirie.
Poi, le sirene.
«Non dirmi che ti sei fermato a montarle»
«Certo che no, mi ritieni tanto grullo?»
«E allora da dove-»
Lentamente, all’unisono, i due derelitti spostano lo sguardo sugli specchietti retrovisori.
«Merda, gli sbirri.»
«Il ferreo braccio oppressore della legge.»
«E io che ho detto?»
«Gradisci che “faccia qualcosa”?»
«NO! Ci penso io»
Polo si alza con cautela, scannerizzando l’interno del furgone mentre raggiunge il portellone sul retro. Dita incerte sbloccano il gancio e l’anta si spalanca in un istante, sbattendo sul cofano della pattuglia appena dietro. I poliziotti rallentano e lo sportello scivola giù dalla carrozzeria per strisciare sul pavimento stradale, in un tripudio di scintille.
Gli agenti stanno gridando qualcosa al megafono, ma per Polo è solo un altro rumore di sottofondo, ovattato e distante. “Pensa, idiota, pensa” potrebbe pisciargli sul parabrezza “No, pensa, idiota”; potrebbe gettarsi addosso alla macchina e far scappare almeno Baldassarre “Non pensare, idiota”.
Con un grido incoerente Polo afferra il cassettone del gelato e lo ribalta.
Una cremosa slavina color arcobaleno travolge la Legge, che sbanda, scricchiola e infine si inchioda. I due tutori dell’ordine smontano gesticolando e abbaiando.
“Abbaiando?” rimugina lo scampato galeotto, giusto in tempo affinché una torma di cani, i guinzagli svolazzanti come aquiloni, saettino dal parco che affianca la strada, attirati dal profumo dolciastro.
In silenzio, Polo raggiunge il compare.
«Eri a corto di sciami di locuste, mio Signore?» Lo sfotte Baldassarre.
«Silenzio, infedele. Guarda, ce l’abbiamo.»
Poco più avanti, il tram termina la corsa e il ragazzino, con la goliardica flemma che solo un prepubescente può ostentare, salta giù.
Gli sportelli del furgoncino si aprono di scatto, uno crolla a terra; lo schianto allerta il bambino, che si volta con un sussulto solo per fissare quattro mani che gli afferrano gambe e braccia e lo sollevano in aria.
«Mollatemi! Aiuto!»
«Fermo e zitto, o ti taglio la gola» intima Polo con la voce più gutturale possibile. Mentre palpeggia i fianchi dell’ostaggio lancia rapide occhiate a destra e a manca, imprecando sottovoce.
«Eureka» esclama Baldassarre, quando estrae un foglietto stropicciato dalla tasca del ragazzino. Un biglietto della lotteria, per la precisione.
I due clochard lasciano andare gli arti del poveretto, che ruzzola sul marciapiede.
«Volevate solo quello?» domanda con tono stridulo, mentre si allontana ancora prono dagli assalitori.
«Perché, cosa pensavi?» replica sarcastico Polo, pur conscio dell’equivoco creato.
«Questo è il frutto di una decade e oltre di speranze tradite, addiaccio e dileggio, lattante» pontifica Baldassarre «Figuravi forse che non ti avremmo pizzicato, quando ce lo scippasti mezz’ora fa?»
«Non ve l’ho fregato, l’ho trovato per terra. Giuro» il ragazzino fa altri due passi indietro, poi si rialza.
«Vero, ma mi era volato via di mano da neanche un minuto.» incalza Polo «I tuoi genitori non ti hanno insegnato a non raccogliere robe per strada?»
Il bambino solleva un sopracciglio e indica col pollice alle sue spalle. Un edificio dimesso, la vernice sbiadita e scrostata in più punti, sul quale torreggia un’incisione.
Orfanotrofio “San Crispino martire” di Lambrusco di Sotto.
«Ci cacciano il mese prossimo perché la direttrice non c’ha più un euro. Speravo di vendere il biglietto a qualche pollo per fare due spiccioli»
I due straccioni fissano la palazzina in silenzio. Baldassarre stringe distrattamente il pezzo di carta e, lentamente, si sporge verso Polo.
«Tutto ci tolse, la divina provvidenza. Però un padre e una madre ce li godemmo, in tenera età»
L’altro deglutisce sonoramente, spostando gli occhi lucidi sul ragazzino. I vestiti sono stazzonati e usurati, mancano solo un paio di pulci per far concorrenza ai suoi.
Tutti e tre sussultano quando dalla via accanto tornano a farsi sentire le sirene.
Polo tentenna per un istante, poi digrigna i denti e afferra Baldassarre per il bavero «Al diavolo, non ho rischiato la pelle per tornare a fare il pezzente.»
Mentre la pattuglia si avvicina i due corrono via, con lo sguardo del ragazzino sulle schiene ingobbite.
Un mese dopo, i giovani ospiti dell’istituto “San Crispino martire” oltrepassano il portone con portamento da giudei ad Auschwitz. I più fissano a terra. Qualcuno si asciuga le lacrime con la manica di giacche troppo grandi. Uno solo si ferma davanti alla tutrice.
«E ora? Dove andiamo?»
La donna si schiarisce la voce e nasconde le mani dietro la schiena dritta, ma prima che possa rispondere qualcuno la precede.
«Ora si va a casa, figliolo»
Una ventina di occhi si posa sulla coppia di figuri in posa eretta e fiera davanti all’orfanotrofio. Uno indossa un completo di raso con filigrana in trama d’oro, che cattura e riflette ogni singolo raggio di sole di passaggio. L’altro un soprabito più sobrio, ma impreziosito da spille di platino che fanno capolino da sotto la lunga barba sale e pepe: una stella di David, una croce, una mezzaluna con stella a cinque punte; persino qualche buffo mascherone giamaicano. Dietro di loro una limousine immensa, più simile a un transatlantico, campeggia con gli sportelli aperti. Entrambi sorridono sornioni.
Il ragazzino è il primo a riprendersi dalla sorpresa e avvicina i due ricconi con passo pesante.
«Figliolo a chi?» Li apostrofa con tono acre, le nocche si sbiancano da quanto stringe i pugni «Non sono tuo figlio, stronzo!»
La direttrice grida qualcosa, ma Polo la interrompe alzando un palmo. Con l’altra mano estrae dalla giacca un plico di fogli e li porge alla donna, che sbarra gli occhi nel leggerli. Il sorriso dell’uomo non cede, scolpito nel marmo.
«Da oggi sì, pivello.»
è il caos. La direttrice dell’orfanotrofio ride con le guance rigate di rimmel, mentre uno stampede di orfanelli urlanti prende d’assalto la limousine, tra risate e grida. I due ex-barboni restano a osservare l’edificio in rovina, mentre qualche muratore già spunta dalle finestre. Baldassarre srotola una cartina dell’edificio, borbottando qualcosa sull’incompetenza ingegneristica delle generazioni di oggi.
«Se osservi con dovizia, Polo, puoi notare uno spazio vuoto qui, dirimpetto alla palestra. Perché non sfruttarlo a modo, dico io.»
Un maggiordomo li interrompe con un colpo di tosse, porgendo un vassoio d’argento sul quale poggiano due coppe di cristallo, colme di gelato.
Polo afferra la sua, rimirandola per qualche istante. Dopodiché il sorriso si allarga.
«Ci starebbe bene, che dici?» Domanda porgendo il calice verso il compare.
Baldassarre lo imita e le coppe tintinnano mentre risponde «Amen, fratello!»
Stefano Amicucci
stefanoamicucci.studia@mohole.it