Voci naturali


Era un martedì come un altro, il sole splendeva nell’azzurro
cielo di New York. Alison Duff aveva scelto un martedì come un
altro per sparire togliendosi la vita, un martedì come un altro
che segnava la data del suo trentunesimo compleanno.
Il cellulare di Alison si illuminò, la schermata riportava il
nome di Spencer, ignorò il telefono e continuò a preparare il
borsone. La musichetta risuonò altre quattro volte, si stancherà
di chiamare, pensò. Sistemò in modo accurato le lettere di addio
e scuse sul tavolo, ognuna di esse aveva un destinatario: Spencer
Montgomery, mamma e papà e il nome impronunciabile del suo sponsor
degli alcolisti anonimi, Klajdi Achraf; con in mano la lettera
per quest’ultimo, Alison si sentì in colpa per una frazione di
secondo, pesò a quella volta che Klajdi la recuperò dal bar sotto
casa quando per l’ennesima volta aveva toccato il fondo, pensò a
tutto quello che aveva fatto per aiutarla e a tutte le volte che
lei gli aveva confidato di volersi suicidare, rabbrividì. Si
infilò la giacca e si preparò a uscire. Una volta davanti alla
porta semi aperta si domandò se fosse la cosa giusta da fare,
stava per voltarsi indietro per guardare la casa un’ultima volta
quando il citofono risuonò per tutto il pianerottolo; il viso di
Cory, il vicino di casa, era spiattellato in primo piano nella
telecamera del portone d’ingresso — Alison sono Cory, puoi
aprirmi? — lei non rispose nemmeno, si limitò a premere il
pulsante sul citofono, chiuse la porta alle sue spalle e si
incamminò verso le scale, intanto Cory si era precipitato su per
le gradinate.
— Te ne stai andando?
— C’è il custode, perché hai suonato a me?
— Oggi non è il tuo compleanno?

— Scusa Cory sono di fretta.
Le loro mani si sfiorarono ma Alison nemmeno se ne rese conto;
lui le urlò degli auguri strozzati ma lei era già fuori dal
palazzo. Quella mattina gli uccellini erano più rumorosi del
solito.
Aveva deciso di lasciare la sua routine invariata così andò al
suo bar preferito per gustarsi la colazione, una volta finita si
diresse verso l’ufficio per non far notare nulla di strano, lasciò
il caffè d’asporto sulla scrivania e avvisò la vicina di
postazione che sarebbe uscita a sbrigare una commissione, un
cenno del capo e nessuna parola, salì in macchina e si diresse
verso l’autostrada. Aveva scelto la Sunken Forest solo per
comodità, era vicina. Fino a prima dell’incidente ci andava con
i suoi genitori e i suoi fratelli una volta al mese, erano ormai
due anni che non tornava più; una volta il gruppo degli alcolisti
anonimi aveva organizzato una gita in quella foresta ma lei non
se la sentì di andare, l’avrebbero ripetuta anche da lì a pochi
mesi ma ormai agli incontri ci andava poco e non si sentiva più
parte del gruppo, al solo pensiero di farci una gita insieme le
veniva l’orticaria, non le piacevano gli alcolizzati, da che
pulpito, avrebbe sottolineato lo sponsor di Alison. Dopo un anno
e mezzo era riuscita a ottenere il gettone finale di uscita, ma
i suoi genitori e l’amica Spencer credevano ci sarebbe potuta
ricadere, era stato quindi consigliato di continuare la
frequentazione ma Alison aveva optato per fregarsene, infatti in
casa teneva comunque bottiglie di vodka e rum qualora avesse
sentito la necessità di dissetarsi insieme al diavolo. Arrivata
a destinazione, parcheggiò l’auto e si incamminò verso il sentiero
che portava nel mezzo della foresta, mentre camminava le sembrava
di sentire delle voci provenire dagli alberi, si grattò le
orecchie con un brivido alla schiena poi tutto tacque, buffo,
pensò. Arrivata nel punto prefissato iniziò a preparare tutto

l’occorrente, aveva portato una lametta, una corda e una boccetta
di nitrito di sodio. La prima soluzione scelta era quella di
tagliarsi le vene così da attirare gli animali e una volta morta
essere sbranata e far sparire il proprio corpo in modo definitivo,
ma per non escludere nulla si era preparata anche altre opzioni.
Iniziò a vibrarle il telefono, aveva dimenticato di lasciarlo in
auto, la schermata suggeriva “chiamata in arrivo Mamma”, doveva
rispondere o sua madre si sarebbe preoccupata mettendo in moto
persino la Polizia Nazionale rovinando così il suo piano, un
sospiro per non destare sospetto e una schiarita di voce – Ciao
mamma, hai bisogno? – un sottofondo musicale anticipò la voce
della madre – Amore mio, tanti auguri. Io e papà ti veniamo a
prendere alle 20.00 questa sera per andare a cena ok? – silenzio
– Ehm, sì d’accordo, vi aspetto a casa, ora devo andare. –
Ripensò all’ultima volta che erano stati lì, tutti insieme, a
quanto erano felici e a quanto in uno schiocco di dita, tutto era
diventato buio; nel tornare a casa Bryan e Rosalie erano morti,
si trovavano nell’auto dietro quella di Alison e i genitori, per
colpa di un camion erano usciti di strada e non c’era stato nulla
da fare. Alison non riuscì mai a perdonarsi per essere rimasta
in vita al posto dei fratelli, così sprofondò nell’ovvio oblio
dell’alcol e della depressione. Gli incontri degli alcolisti
anonimi l’avevano aiutata, ma il mostro psichico viveva ancora
dentro di lei, la mancanza dei fratelli era tanta e continuava a
pensare che la sua esistenza senza di loro era inutile, così
aveva deciso che era il momento di raggiungerli. Aveva arrotolato
le maniche, preso aria, pensato alla cosa più bella della sua
vita e una volta pronta a sfiorarsi i polsi una voce le rimbombò
nella testa – Sì brava lascia mamma e papà da soli – si bloccò
di colpo guardandosi attorno con occhi sbarrati e il cuore in
gola – Sei proprio una codarda ad andartene così – non c’era
nessuno. Controllò i polsi, magari le allucinazioni da morte l’avevano forviata, ma era ancora tutto illeso. Si alzò per controllare che non ci fosse nessuno. Continuò a sentire un vociferare strano, non era tranquilla, così si diresse verso
l’auto e tornò a casa prestando attenzione a ogni suono attorno
a lei. Decise di rimandare il suo piano di auto distruzione almeno
per quel giorno, arrivata dentro casa, ripose le lettere nella
libreria e svuotò il borsone, si preparò per la cena con i suoi
genitori e fece finta di nulla.

Il giorno seguente lo passò a fare le solite cose che fa il
mercoledì, scordandosi che il giorno prima era pronta a suicidarsi
in una foresta, ciò che la distraeva erano queste voci continue
che sentiva sempre più presenti, provenivano da alberi, piante o
animali, si chiese se non stesse impazzendo. Un messaggio illuminò
il cellulare “Ti aspetto domani mattina al Cafè Rose alle nove,
non accetto scuse, Spencer.” Si era dimenticata della colazione
con l’amica, non poteva declinare, anche se non aveva per niente
voglia, così passò la serata a sfogarsi, dipingendo, ascoltando
musica e innaffiando le sue amate piante – Intendi raccontare a
Spencer le tue intenzioni di ieri? – ancora quelle voci, questa
volta le sembrò che la foglia della pianta a cui stava dando
l’acqua addirittura si muovesse, come se avesse una bocca;
sobbalzò indietro e con i muscoli tesi rientrò in casa, si diresse
in camera e si addormentò con un cuscino che le copriva le
orecchie.
Suonò la sveglia per la terza volta, e con un occhio semi aperto
si accorse che le lancette segnavano le nove meno un quarto – Oh
merda! – “Spencer sono in ritardo di dieci minuti, arrivo” un
vocale al volo mandato all’amica e si precipitò a prepararsi. Una
volta arrivata al Cafè, Spencer la stava aspettando al loro solito
tavolino. Dopo svariate chiacchiere ecco di nuovo quelle voci,
sempre più forti.
– Ma non le senti?

– Alison hai bevuto anche questa mattina?
– Non ti sembrano le voci di Bryan e Rosalie?
– Non stai andando agli incontri vero?
– Come fai a non sentirli?
– Alison mi fai preoccupare, basta! Ti riporto a casa.
A Alison bruciava la testa, non per la vodka, non per le voci che
sentiva, ma perché la sua amica più cara non le credeva. Sbatté
le mani sul tavolino, si alzò e con piglio infastidito si
incamminò verso la strada opposta al bar. Dopo aver pagato i
caffè, Spencer cercò di affrettare il passo per non perdere di
vista l’amica, ma una volta raggiunto l’altro lato del
marciapiede, Alison era già amalgamata alla folla di Street West
verso la via di casa.
Da quanto era agitata non riusciva nemmeno a infilare le chiavi
nella serratura del portone, le tremavano le dita, il polso era
teso come nei suoi soliti momenti di crisi, gli occhi rigonfi e
il cuore che batteva all’impazzata. Riuscì ad aprire. Correndo
su per le scale si imbatté in Cory che distratto e a bassa voce
le chiese se stava bene. Lei rispose con un sì strozzato e si
catapultò dentro l’appartamento chiudendo con forza la porta alle
sue spalle. Il petto rigonfio e poi un espiro. Si lasciò cadere
a terra martellandosi la testa con le mani a pugno, urlava frasi
senza senso sottolineando più volte la parola vattene. Qualche
secondo dopo si ritrovò in piedi davanti al lavabo della cucina,
aprì l’acqua e iniziò a buttarsi acqua fredda in faccia – Non
sono pazza, non vi sento veramente, non siete reali. –
Aprì la credenza contenente la Vodka e il Rum, aprì ogni bottiglia
e le svuotò nel lavandino con la fretta di chi sta scappando da
qualcosa. Ingoiò la pastina per dormire e appoggiò la testa sul

cuscino. Sognò di una vita felice, senza tutti i traumi vissuti
in passato, senza l’alcolismo e senza strane voci nella testa.
Si svegliò di botto, una Pernice continuava a sbattere il becco
contro la finestra; cercò di ignorare il fastidioso rumore ma
dopo quindici minuti l’uccello era ancora lì. Si alzò in maniera
goffa massaggiandosi le tempie. Dirigendosi verso la finestra
colpì il tavolino con il ginocchio imprecando ad alta voce – Stai
attenta – Alison si bloccò davanti alla finestra, si guardò dietro
ma ovviamente era da sola, non di nuovo, pensò; cercò di sollevare
la finestra che le sembrava bloccata – Se non alzi la maniglia
non puoi aprirla – di nuovo controllò di non essere in compagnia
alzando le spalle in segno di disagio; scuotendo la testa si
accorse che la maniglia era abbassata – Che fai non mi credi? Mi
hai sempre ascoltato e ora fai finta di nulla? – Alison sbatté
le palpebre pensando di nuovo di avere le allucinazioni.
– È stata una mattinata difficile?
– Bryan?
– Non stai più andando agli incontri vero?
– Basta! Che scherzo è mai questo?
– Mi offri qualcosa o vuoi rimanere lì impalata?
– Non sono pazza vero?

La Pernice con fare indisturbato volò all’interno
dell’appartamento poggiandosi sul bracciolo del divano e fissando
Alison dritta negli occhi. Lenta e attenta la ragazza provò ad
avvicinarsi all’uccello per cercare di non spaventarlo. – Non sei
pazza, parli con la natura, in tanti lo fanno e tu a quanto pare
lo puoi fare – la Pernice zampettò a sua volta verso Alison che
sobbalzò – La natura? Bryan, questa mattina al bar con Spencer
le ho detto che sentivo la tua voce e quella di Rosalie, ora mi
crede più pazza di quanto non pensasse già – Scoppiò in un pianto.

– Prova a concentrarti su quello che senti, oltre al traffico,
oltre le parole umane, dimmi, senti altre voci? – Alison chiuse
gli occhi ancora umidi e provò a concentrarsi – Sento la voce di
nonna che proviene dagli alberi, e la voce di zia Connie che
proviene dal parco sotto casa, questa invece, strano, sento la
voce di Roosevelt –
La Pernice sembrò avere un ghigno compiaciuto stampato sul becco,
Alison era più tranquilla ma continuava a non capire.
– Quindi posso sentire la voce dei morti?
– Zia Connie è morta?
– No, ma tu e Rosalie sì, come nonna e direi anche come Roosevelt.
– Beh è un caso. Vedi di tornare agli incontri. Chiamami quando
hai bisogno, o chiama chi vuoi.
– Posso farlo quando mi pare?
– Certo.
– Io parlo a un albero o a un bruco pensando a qualcuno di voi e
funziona?
– Te lo sto dicendo da questa mattina ormai.
Va a finire che mi metteranno in un ospedale psichiatrico, pensò
Alison.

-Quindi eravate voi due giorni fa a Sunken Forest?

-Non ti facevo così sveglia sorella mia. E poi dovresti
ringraziare, sei ancora qui, viva e vegeta.

-Rimani il solito rompi coglioni, e se io avessi voluto
raggiungere te e Rosalie?

– Tu intanto preoccupati di parlare con gli uccellini che è più
divertente che essere morti, a domani piccola Alli, buonanotte.

Virginia Della Balda
virginiadellabalda.studia@mohole.it


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