Paolo Buffa https://www.paolo-buffa.com Monk Blog Wed, 15 Jan 2020 08:22:50 +0000 en-GB hourly 1 https://wordpress.org/?v=5.7.3 https://www.paolo-buffa.com/wp-content/uploads/2018/07/Paolo-Buffa-logo-Monk-01-150x150.png Paolo Buffa https://www.paolo-buffa.com 32 32 Protected: racconto k6 https://www.paolo-buffa.com/piccoli-racconti-7/ https://www.paolo-buffa.com/piccoli-racconti-7/#respond Wed, 21 Aug 2019 19:58:35 +0000 http://www.paolo-buffa.com/?p=5582

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CONSIDERAZIONI SULLA FOTOGRAFIA DI PAESAGGIO. PARTE DUE: I PASSI NELL’IGNOTO https://www.paolo-buffa.com/considerazioni-sulla-fotografia-di-paesaggio-parte-due-i-passi-nellignoto/ https://www.paolo-buffa.com/considerazioni-sulla-fotografia-di-paesaggio-parte-due-i-passi-nellignoto/#respond Sat, 15 Jun 2019 20:12:59 +0000 http://www.paolo-buffa.com/?p=5420 Quando i Greci antichi parlavano di cose quali conosci te stesso, indubbiamente si riferivano all'attività di fotografare, e in particolare all'attività di fotografare paesaggi.
A quel tempo sapevano di riferirsi principalmente all'uomo e non avevano ancora idea di quale oggetto avrebbero usato per scattare una foto ma questo, secondo loro, era secondario. Una volta che una persona ha iniziato ad avanzare almeno un metro dentro l'ignoto territorio della propria mente fare foto, oppure progettare un ponte, guidare un esercito o tirare il rigore decisivo sotto gli occhi di intere popolazioni è il problema minore.
Secondo loro.
E può darsi che se anche l'hanno scritto e detto in un epoca in cui la matematica era una mezza opinione e il Sole veniva trascinato in cielo da Apollo, ne sapessero già parecchio sul problema, cioè cosa registrare sulle schede di memoria di una Canon.
O sulla superficie di una pellicola Fuji, per stare in un'era più vicina a Sparta.

Che cosa fotografiamo?
Personalmente non ne so nulla degli altri ma vado certo di ciò che fotografo io: paesaggi.
Con questo non vuol dire che conosca propriamente me stesso. In ogni caso almeno un metro dentro il mio mistero son sicuro di averlo mosso e posso dire che la breve camminata intrapresa, pur rimanendo difficile, è meno spaventosa di quanto mi sia sembrata in origine.

Scattare foto, e svilupparle, è un'attività intellettuale, anche se in molte situazioni apparentemente non sembra. E attività intellettuale è un termine vago almeno quanto immenso, ragion per cui viene qui inteso come attività dell'intelletto: capacità di una mente cosciente di collegare tra loro dei dati appresi, da qualunque canale ricettivo.

Quando penso al cervello e alla sua normale attività mi si disegna sempre davanti un'immagine: una di quelle sfere al cui interno ci sono una moltitudine di tentacoli luminosi che paiono convergere o partire da un nucleo centrale a forma di grande cerino.

Una lampada al plasma insomma.

Il simbolo di una moltitudine di connessioni contemporanee, scatenate da una particolare situazione nella quale mi ritrovo immerso.
Quasi sempre per caso.
Ricordo ad esempio che parecchie estati addietro, c'è stato un lungo periodo in cui le giornate di luglio sembravano pervase da un'aria che proveniva direttamente dal mare.
Un invisibile mare di Lombardia. Nascosto dietro insignificanti salite, oppure oltre un filare d'alberi che precludeva la vista.
Ribollente e spumeggiante, eppure silenzioso ma con la sua inconfondibile fragranza dispersa in un'aria appena smossa, soprattutto nelle infinite luci fluttuanti dopo il tramonto.
A chiudere gli occhi, e rimanere in ascolto, il mare era lì.
Parlo di trasposizioni.
Parlo non di sole sensazioni, ma dell'animo spostato inspiegabilmente da una realtà nei frammenti di un'altra.

Come si può fotografare il mare circondati da campi coltivati, case, cascine e caseggiati, avendo i piedi a contatto dell'asfalto?

Tutto ciò che vediamo in un paesaggio è contaminato da tutto ciò che abbiamo già visto. Sia che si tratti degli scenari di un film, delle montagne in un quadro di Friedrich o delle città decadenti e semi deserte di un videogioco.
Fumetti, illustrazioni, frames di una pubblicità e altre fotografie... i tentacoli della nostra lampada al plasma mentale possono essere infiniti. O almeno innumerevoli. E di sicuro non si limitano alle immagini.
Non so quanti paesaggi ho finito ad immaginare leggendo le pagine di un romanzo e come mi sono sembrati vividi, presenti e vivi nei versi di alcune poesie, folgoranti!

E cielo e terra si mostrò qual era:

la terra ansante, livida, in sussulto; 
il cielo ingombro, tragico, disfatto: 
bianca bianca nel tacito tumulto      
una casa apparì sparì d'un tratto; 
come un occhio, che,largo,esterrefatto, 
s'aprì si chiuse, nella notte nera.

Giovanni Pacoli, Il lampo (Myricae, 1894)

Nel paesaggio cammino.
Mi muovo per ore, e ore, un passo alla volta, osservando le sue forme e il suo mutare.
Lo esploro, lo voglio conoscere, voglio il contatto. Voglio fermarmi nel suo centro, ovunque sia, perché in quel punto, in quel punto preciso, va contemplato.
Per quanto io esplori, so da dove incominciare: ho bisogno della fisicità del mondo e la raggiungo ovunque, quando i confini di una città si disperdono nel terreno nudo e le ombre di un bosco si proiettano in avanti, come un invito ad entrarci.
Portarmi appresso la macchina fotografica è una conseguenza e ci sono due ragioni alla base, che in qualche modo si intrecciano, puntando ad un medesimo fine.

Inquadrare come addomesticare

Ogni paesaggio è un qualcosa diverso da noi.
Da noi umani.
Costruendo città l'uomo ha tentato di strappare all'ordine delle leggi naturali la sua fetta di territorio, per imporre all'interno la sua legge: una possibilità, e una speranza, di poter controllare il più a lungo possibile il proprio futuro.
Pertanto è scontato sentirsi maggiormente al sicuro dentro un territorio urbano che inoltrandosi in una savana, o nella stretta gola di una valle buia.
Almeno per molti.
Quando anche la città si estende per chilometri e chilometri e il viandante si appresta ad uscirne, attraversando le periferie, gli ultimi confini, può capitare di avvertire nuovamente l'inquietudine del fuori controllo, del selvatico, nonostante i grattacieli e i semafori che lampeggiano agli incroci. Capita cioè se intorno avvertiamo le prime forme di un degrado, di un territorio che ha perso la sua efficienza e sembra progressivamente inglobato nelle regole ancestrali del predatore e della preda.
Fotografare il caos, delle continue forme e configurazioni che la superficie del reale può assumere, ovunque, può essere un'attività passiva, di resa o accettazione. La differenza sta nello scattare senza imporre alcuna inquadratura o, al contrario, nel cercarla.
Un'inquadraturaè la modalità personale di vedere una scena, è l'equivalente di un addomesticare. Fare ordine.
Riportare alle proprie categorie mentali le categorie inconoscibili, o soltanto intuibili, di ciò che ha creato la realtà in cui ci muoviamo.
E viviamo.

La via di casa

Decidere di fare un passo dentro l'ignoto, come dicevo all'inizio di questo scritto, sarà sempre una scelta difficile per qualsiasi essere umano senziente.
L'ignoto del proprio mistero, per cui sono state scritte milioni di pagine di filosofia e per cui esistono le sacre scritture.
Dov'è l'ingresso? da dove si accede?
L'inizio è già difficile ma per ognuno di noi vado certo che esiste una casa e quella casa è l'unica abitazione in cui sentiamo davvero di poterci vivere, perfettamente adeguata a noi, a ciò che siamo, in cui entrando, ciò che fuori era mistero, al suo interno diventa risposta.
Il problema è nel fatto che io la trovo per frammenti, viaggiando nel mondo, attraverso i luoghi, le aree, i territori che esploro camminando.
Una volta mi imbatto in una sua finestra, o magari solo in una maniglia, una sedia, un bicchiere, altre volte soltanto in un mattone.
Frammenti.
Che fotografo.
E che unendo ogni scatto all'altro compongono la sua struttura.
La sua perfetta architettura. Valida e vera ai miei occhi, così come ad ogni atomo del mio essere.

Può sembrare impossibile mancare una foto così importante: in un paesaggio dove qualcosa di noi è al suo interno, disperso, passare accanto a quel qualcosa senza vederlo.
Porre attenzione è l'unica possibilità di farsi trovare all'appuntamento. L'unica possibilità di portare indietro, memorizzato in una scheda o impresso su di una pellicola, un frammento di casa nostra.
Di casa mia.
Non sempre riesce. È una condizione fragile. Entrare nella stessa frequenza di quello che mi circonda.
L'ingesso.
Quando però accade, quando il contatto finalmente esiste, allora ovunque volga lo sguardo so come devo muovermi, come interpretare. Come allineare ogni elemento di un caos per trovare un mio frammento.
Inquadrare.
Come autostereogrammi.
Quelle immagini che andavano di moda anni addietro: osservando una cartolina stampata a motivi astratti, mettendo a fuoco con i propri occhi in un punto appena prima o dopo la superficie, ad un certo momento appare l'immagine nascosta, tridimensionale e celata in precedenza alla vista.


www.notizieinvetrina.it/gli-stereogrammi-cosa-sono-e-come-vederli/

Henri Cartier-Bresson diceva:

Fotografare è porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore.

Una delle frasi più citate e riprese nella storia della fotografia. Probabilmente perché in molti la sentono vera.
E per chiunque è un'azione estremamente difficile.
In realtà, dal mio punto di vista, quella frase indica una sola cosa: se vuoi davvero trovare, allora devi dimenticarti.
Bisogna perdere.
Per fare quella foto, e strappare al tempo un frammento di sé, allora è necessario tenere la macchina fotografica in mano dopo che tutte le aspettative, i desideri, le regole sulla perfetta composizione e il giusto stare al mondo sono istantaneamente dissolti.
Quella foto, quella perfetta personale inquadratura, nasce al termine di ogni nostra barriera tra l'interno e l'esterno.
Tra l'io e il resto del mondo.
Nessuna separazione, solo continuità.
Quando io sono il paesaggio.
Allora, solo allora, trovo.

Non è facile, per niente.
Bisogna allenarsi.
Partendo da molto prima di una fotografia.
Bisogna capire la propria mente attraverso la propria mente.
E sono un sacco di passi nell'ignoto.
Ecco perché penso che fotografare sia un'attività intellettuale, così come sviluppare una foto. Probabilmente è solo la scusa che mi riesce meglio per ricordarmi di capire chi sono.
Per cercare la mia vera casa. E sentire.

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Protected: Racconto K5 https://www.paolo-buffa.com/piccoli-racconti-6/ https://www.paolo-buffa.com/piccoli-racconti-6/#respond Sun, 19 May 2019 08:56:54 +0000 http://www.paolo-buffa.com/?p=5441

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Un atto di ribellione (riscritto) https://www.paolo-buffa.com/un-atto-di-ribellione-riscritto/ https://www.paolo-buffa.com/un-atto-di-ribellione-riscritto/#respond Sat, 09 Feb 2019 14:53:32 +0000 http://www.paolo-buffa.com/?p=5482 Oggi ho fatto cadere a terra l'hard-disk dove tengo archiviate le foto degli ultimi tre anni di attività con la Sony tra le mani.

Due virgola cinque terabytes di dati su tre disponibili che si schiantano al suolo, dal tavolo della cucina di casa mia al pavimento della cucina di casa mia.
Non è nemmeno stata la prima volta che capitava. Di sicuro però è successo dall'altezza massima mai raggiunta.
E una cosa è certa: è stata la volta decisiva.

Dentro quella scatola nera non c'erano solo foto, anche files di creazioni digitali, esperimenti e un certo archivio di documenti che non avevo ancora iniziato a leggere o guardare.
C'era una parte consistente di ciò che faccio e di ciò che mi nutre.
Eppure, tornando all'inizio di questo testo, non ho scritto "Oggi mi è caduto a terra l'hard-disk"
No
Oggi HO fatto cadere a terra l'hard-disk
e questa è tutta un'altra storia.

L'indifferenza al disordine,

per qualsiasi ragione, ha i suoi risvolti pericolosi e in generale, ciò che è ordinato dovrebbe avere uno stato più stabile di ciò che è fuori posto.
Un hard disk, poggiato su di una copertina rigida di un libro che sporge oltre il bordo del tavolo,
è fuori posto.
Un elemento di tale importanza deve stare ben solido al centro del tavolo, magari accanto al computer, comunque a distanza dalle tentazioni della gravità.

Così, quando passando distrattamente, il maglione che avevo addosso ha preso dentro la copertina rigida del libro, l'hard-disk si è trovato velocemente sbilanciato nel vuoto e ha fatto quello per cui non è costruito ad opporsi: cadere.
Sfracellarsi al suolo.
E senza dubbio, distruggere me con lui.

So benissimo cos'ho fatto, non c'è bisogno che me lo spieghi nessuno.
Ho favorito le condizioni perché l'incidente avvenisse.

La mia teoria del Caos

non è certo in disaccordo con le farfalle e il loro sbattere di ali [*1] ma vado un poco oltre: a volte l'imprevisto siamo noi stessi.

[*1]:: vd. effetto farfalla

Dopo essermi raccolto in meditazione per circa un minuto, qualche giorno dopo la tragedia, ho tratto delle conclusioni.
La più importante fa così:
Amo fotografare.

Odio i files fotografici.

Sono cose distinte e parecchio.
Sono elementi che litigano in un'unica stanza: la mia mente, e sono gli ingredienti del mio personalissimo caos.

Fotografare potrebbe richiedere di trovarsi in inverno davanti ad un Sole che illumina radente le sommità di cime congelate. Tagliando la penombra per assicurare una nuova alba nella storia del Mondo.
In quei momenti, con le mani intorpidite, premo il grilletto e spedisco ogni frammento di luce nei circuiti della fotocamera. Mentre il vento fa quasi volare via il cavalletto e un sacco di risparmi tra corpo macchina e obiettivo.
Non ha importanza il freddo, la fame dopo una colazione ormai bruciata da ore, consumata alla fioca luce della lampada in cucina, quando fuori era notte.

Questa è fotografia, per me.
Un ambiente.
Un territorio esplorato.

La mia fotografia.

Com'è possibile conciliare l'immensità stordente, l'inconcepibile possenza di una montagna sottratta al buio, seduto in una stanza cittadina? Con un computer che ronza e la pulsante impressione di una natura indomabile, fatale, imprigionata oltre la sottile superficie di un monitor
?

Infatti non è possibile.
C'è troppa differenza tra il prima e il dopo. Tra la fotografia là fuori e gli archivi strapieni di roba digitale qui dentro.

Non so neanche in quali altri termini metterla ma
I files sono il mio problema.
Loro, mi fanno davvero inchiodare il cervello.
La fotografia è così straripante, irresistibile.
La fotografia è collegata all'origine dell'Essere.
Fiat Lux. Genesi.
E con essa venne scritto l'universo.
Mi è difficile maneggiarla come files,
psicologicamente
non può essere un file.

Alla fine, allora, è stato un atto di ribellione.

Un atto di ribellione all'impasse.

A volte mi sono seduto a quel tavolo,
con l'immagine che mi attendeva nel monitor cercando la mia considerazione totale,
senza provare gioia né libertà.
Mi sono posto davanti a lei da suo prigioniero e forse non sono stato io a passarle qualcosa ma è avvenuto l'opposto, lei mi ha trasferito il suo mosaico di pixels e mi ha scomposto, diviso, parcellizzato.
Come in uno scontro perso, al termine, mi sono alzato sentendomi molto più meccanico che vivo.
Molto più pixel che carne.

Far cadere l'hard-disk a terra, da un altezza fatale, è stato allora l'atto finale di una recita che andava avanti da tempo.
Non avrei potuto semplicemente prenderlo e buttarlo giù dal balcone. Sarebbe stato un gesto genuino, equivalente nel risultato, ma totalmente idiota.
Dovevo togliere la parte idiota dallo spettacolo, creare un rito.
Per meglio dire: un sacrificio.

Quando ho realizzato tutto questo, da un certo punto di vista, mi sono sentito sollevato.
Ma la disperazione per quei files persi, forse per sempre, me la porterò appresso ovunque.
Come un piccolo lutto.
E' il prezzo da pagare per aver capito in ritardo.
Per aver voluto ignorare a lungo, troppo a lungo, l'ovvio.

Ci vuole sempre un'esperienza fisica tangibile per comprendere, la mente non basta mai.
Probabile che per questo l'educazione è tanto difficile. Anche quando viene girata verso se stessi.
Sono cose alle fondamenta dell'evoluzione umana.

In pratica

quella dualità del mio processo fotografico non può più essere ignorata.
Se voglio evitare altre rotture, di volta in volta, devo trovare una nuova finalità ad ogni mio scatto. Perché qualsiasi quantità di files porti a casa dalle mie esplorazioni là fuori, qualsiasi cosa io veda e trasformi in immagine premendo un bottone, se non capisco cosa farne, diventerà soltanto la base di un edificio oscuro nei miei pensieri.
Un nuovo palazzo incombente, portatore di ombra, nei territori altrimenti gloriosi della propria espressione.

Le immagini hanno bisogno di fuoriuscire nel mondo.
Hanno bisogno di essere fiumi, aria, di insinuarsi nella vista di chi le guarda, perché hanno bisogno di altri occhi per esistere, insieme a quelli del loro creatore primo.

Trascinarle oltre il confine sicuro degli archivi, delle loro magnetiche tane, è un atto fosco. Cosa dovranno essere?
Quale filo le collega imperlandole, come una collana preziosa?
Quale senso debbono avere per appartenermi davvero?
In che modo, quale forma per essere davvero la mia espressione?
Io, a volte, non so proprio. Ma capire è necessario. Se non vitale.

Tutti quei socials, quegli Instagrams, le stampe lasciate negli armadi e quelle appese ad una parete, probabilmente niente mi ha davvero mai soddisfatto. Solo regalarle ha avuto un senso. E comunque non è abbastanza.
Non è un modo abbastanza mio.
Forse, dico forse, potrei scoprire che fotografare non mi basta più.
Che è troppo poco.
O che è troppo poco ciò che ho fatto sinora con la fotografia.

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Protected: Racconto K4 https://www.paolo-buffa.com/piccoli-racconti-5/ https://www.paolo-buffa.com/piccoli-racconti-5/#respond Thu, 24 Jan 2019 16:42:40 +0000 http://www.paolo-buffa.com/?p=5312

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Protected: Racconto K3 https://www.paolo-buffa.com/piccoli-racconti-4/ https://www.paolo-buffa.com/piccoli-racconti-4/#respond Sun, 06 Jan 2019 18:39:18 +0000 http://www.paolo-buffa.com/?p=5307

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Là fuori Qui dentro [txt version] https://www.paolo-buffa.com/la-fuori-qui-dentro-txt/ https://www.paolo-buffa.com/la-fuori-qui-dentro-txt/#respond Sat, 29 Dec 2018 21:20:24 +0000 http://www.paolo-buffa.com/?p=5060

Tanto saranno sempre le stesse immagini, quando uscirò a fotografare, là fuori.
Posso iniziare con questa o con quella. Poco importa.
Quel mistero non cambia e non ho proprio più intenzione di indagare, va bene così.
Va tutto bene così.
Le albe infuocate, il silenzio assoluto, una dimora costruita nel nulla.
Le stesse cose.
Le stesse cose.
Le stesse identiche cose ovunque siano state sparpagliate nel tempo e nel mondo.

Qui dentro Là fuori [img gallery]

MezzaLuna_ValBrembana-baita_isolata-PaoloBuffa

Una volta mi sembrava di cercarle ma ci intendiamo senza sforzo, io e loro. Ci sono. E ogni tanto ci sono anch'io. Mi basta impostare un tempo di scatto,
la luce è giusta, altrimenti non ci saremmo mai incontrati,
poi premo il grilletto. Mando tutto oltre il mio occhio, diritto in quella camera oscura che non è il cuore. Nemmeno la mente.
E' proprio quel mistero.
Qui dentro.

Interno_chiesa_PianiArtavaggio-PaoloBuffa

Ogni volta che mi chiudo la porta di casa alle spalle ho un conto alla rovescia interno che parte. Senza che io conosca alcuna impostazione. Figuriamoci.
Quando la cifra incomincia a tendere verso zero, quando il mio tempo sta per concludersi, adesso lo sento.
Una volta magari non volevo farci caso e ho sempre pagato male la superficialità. Mia.
Ma ora ci sto attento, ora riconosco.
Quando il cronometro inizia a tendere a zero devo tornare indietro.
Sento quel profumo, quel rumore: lo scoppiettare di un pezzo di legno resinoso nel camino.
Io che non ho un camino ma lo posso immaginare, esattamente in fondo alla parete di una dimora non raggiunta.
La stanza col camino...
la luce arancione tremolante proiettata oltre i vetri, nella sera.
Quella è la dimora di ogni mio ritorno
e non c'è niente di meglio che possa fare domani se non intuirne la strada.

Ho il sospetto di averla percorsa una volta e poi ho dimenticato tutto.
Una strada di ghiaia e terra.
Ho proprio dimenticato tutto.

Alba-PassoSanMarco-MonteVerrobbio-PaoloBuffa

Oggi comunque è oggi e oggi ho fatto una fatica del demonio per raggiungere una cima. Tanta di quella fatica che non facevo da tempo, cercando un pezzo di roccia e territorio che mi rappresentasse.

Un passo alla volta ci siamo raggiunti. Lentamente ho costruito il mio profilo. Per questo giorno.

Quello che so è semplice: il mio corpo ha cambiato residenti ma non è una novità per nessuno. A livello scientifico, per andare dritti al punto, ogni sette anni tutte le cellule di un corpo umano vengono rinnovate. Solo che le mie nuove, le cellule figlie, non hanno ereditato la stessa prestanza dai loro genitori.
La nave di Teseo mantiene la sua forma, non è più legno la struttura, è altro.
Forse la rotta di navigazione rimane la stessa. Forse.
Ma di sicuro il timoniere non ha sotto mano lo stesso timone con cui è salpato.

Le guardo ora, le guardo nel passato.
Ho sempre rappresentato le stesse cose. Son sempre in cerca di luoghi che già conosco e non è una prigione, né una trappola. Lascio che si dispieghi il mio ambiente all'interno della realtà di chiunque. Dell'ambiente di ognuno. Ma il mio scorre due dita più in superficie, oppure un momento più profondo,
tra i tanti misteri, questo è un altro.
Il mio territorio là fuori, tra tutti. Solo mio, nel mondo di chiunque non lo vede.
Quando esco, quando quella porta si chiude alle spalle, so che esco per tornare indietro con un nuovo pezzo.
Un'altra scheggia, un altro frammento.
Torno indietro per testimoniare.
Lo vedete? Allora esiste.
Guardate, e non è più solo qui dentro.

Qui dentro Là fuori [img gallery]

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Luoghi magnetici, Carlo Carrà e i confini dell’infinito https://www.paolo-buffa.com/luoghi-magnetici-carlo-carra-e-i-confini-dellinfinito/ https://www.paolo-buffa.com/luoghi-magnetici-carlo-carra-e-i-confini-dellinfinito/#respond Tue, 25 Dec 2018 10:00:02 +0000 http://www.paolo-buffa.com/?p=5147 Tutti abbiamo bisogno prima o poi di una barca sospesa su di un'acqua immobile, quando la luce sprofonda oltre un monte lontano e la natura si placa, lasciandosi accarezzare dallo sguardo. All'apparenza.
Abbiamo bisogno di un camminamento allungato su di un mare scuro, come un'ultima propaggine calpestabile. E percorrendola allontanarsi dal conosciuto, dal suono dell'attività umana per trapassare nel suono della risacca, come una persuasione all'abbandono piuttosto che un ritorno all'abitudine. Al nostro addomesticato.
Abbiamo bisogno di case abbandonate nel bosco e paesi sul limitare della sera assediati dal cielo e dal mare.
Penso proprio che ne abbiamo bisogno, ovunque si trovino, nella geografia del territorio reale o nella costruzione pittorica di un quadro di Carlo Carrà.

CARRA-CARLO-paese-tramonto

Vicino a casa mia c'è un luogo magnetico.
E' un colle sormontato da alcuni cipressi, a cui si può facilmente accedere da un breve sentiero di terra, sassi e gradini accennati.
I cipressi delimitano uno spazio circolare e oltre quello spazio se ne apre uno vuoto, dentro il quale le nebbie autunnali cancellano i riferimenti, oltre che attutire i suoni e riportare l'attenzione dal fuori verso l'interno.
Di ognuno, l'interno.
Sono in molti che lo attraversano. Si fermano.
Specialmente la sera e specialmente d'estate, ma quel suo magnetismo vale sempre. Indubbiamente più potente nelle ore intorno l'inizio o la fine del giorno.
Non c'è niente da fare, solo ascoltare. Avvertire.
Personalmente io vengo attratto, per questo parlo di magnetismo. Certi luoghi conducono i miei passi e quando mi trovo davanti, quando davvero apro gli occhi, non è un mostrarsi normale, sereno o indolore.
No, ma piuttosto una rivelazione. Sfolgorante e ipnotica da togliere le facoltà di movimento. E distrazione.
So di non essere tanto unico quando provo questo. Giorgio De Chirico descrive un'avvenimento simile riferendosi al suo quadro L'enigma di un pomeriggio d'autunno:

Durante un chiaro pomeriggio d'autunno ero seduto su una panca in mezzo a Piazza Santa Croce a Firenze. Non era certo la prima volta che vedevo questa piazza. Ero appena uscito da una lunga e dolorosa malattia intestinale e mi trovavo in uno stato di sensibilità quasi morbosa. La natura intera, fino al marmo degli edifici e delle fontane, mi sembrava convalescente. In mezzo alla piazza si leva una statua che rappresenta Dante avvolto in un lungo mantello, che stringe la sua opera contro il suo corpo e inclina verso terra la testa pensosa coronata d'alloro. La statua è in marmo bianco, ma il tempo gli ha dato una tinta grigia, molto piacevole a vedersi. Il sole autunnale, tiepido e senza amore illuminava la statua e la facciata del tempio. Ebbi allora la strana impressione di vedere tutte quelle cose per la prima volta. E la composizione del quadro apparve al mio spirito; ed ogni volta che guardo questo quadro rivivo quel momento. Momento che tuttavia è un enigma per me, perché è inesplicabile. Perciò mi piace chiamare enigma anche l'opera che ne deriva.

e il quadro è l'inizio della metafisica pittorica, ovvero un genere che modella il magnetismo, di un luogo, perfettamente.
Metafisica e Surrealismo si richiamano.
La mia collina dei cipressi, quando ne sono dentro, li richiama entrambi.
Non sarà così per tutti, non tutti avvertono, non tutti allo stesso modo, non per forza in quel posto. Ma quando accade equivale allora al superamento del contingente, niente di circostanziato, la struttura del normale diventa più profonda, cede, e un altro sguardo si spinge oltre.
Vede
oltre.
Mi è capitato spesso, a vari gradi e spesso mi è capitato come dentro Palazzo Reale a Milano.
Proprio la mostra su Carlo Carrà, ad un'ora della sera che aveva lasciato le stanze vuote. Soltanto i quadri, gli addetti nei loro completi scuri ed io.
Mi stavo annoiando?
Me lo chiedo perché non era esclusivamente assaporare l'atmosfera delle opere, forse più l'atmosfera dell'ambiente al di fuori delle opere, dove poggiavano i miei piedi e lentamente camminavo.
Una splendida luce dei faretti.
Sono sicuro, molte stanze valevano ai miei sensi più della tela dipinta.
Quello che ora mi fa riflettere è che una certa noia accumulata aveva un carattere funzionale. Doveva predispormi allo stupore, lasciarmi di stucco,
magnetizzato!
Al cospetto di quest'altra sera:

Carlo-Carra-Sera-sul-Lago

La Sera sul lago.

Mi sono fermato, come tutto il tempo, la storia e il sangue nelle vene.
Niente di meno.
Ultimamente era capitato davanti ai territori notturni e romantici di Giuseppe Pietro Bagetti. Ma questa volta andava meglio: il mio mondo e il mondo che osservavo condividevano parecchio.
E' impossibile, se non si assiste ad un quadro, pensare di richiamarlo con una foto. Sono due sistemi differenti e le pennellate in foto non esistono, così come quei colori, quell'opacità in un punto e la brillantezza cangiante altrove. La foto caricata qui è solo un appunto, per indicare la protagonista.
Non è tanto la barca in primo piano e l'acqua immobile, personalmente è il monte sullo sfondo. Così come quella minuscola abitazione ai suoi piedi.
L'elemento magnetico.
Riflessa magnificamente con un tocco di pennello e poco più.
Una presenza attira l'altra, la proporziona:
l'incombente mole del promontorio ed il muro bianco, che raccoglie l'ultimo guizzo di luce del tramonto, come gli specchi orientati al Sole. Segnalano, al pari di un faro. Poi sarà notte.
E la natura andrà mutando, dalla rassicurante immobilità ritratta giungerà l'inquietudine del buio.
Manca poco e tutto lo annuncia. Le oscure pareti del monte sono il primo avamposto sul confine dell'ombra. La notte ha mosso il suo passo.
Solo allora, dopo aver preparato l'animo alla ricerca di una salvezza, la barca in primo piano materializza la sua presenza.
Il significato.
Io sono qui per te.
Spettatore,
per te che sei entrato, ovunque ti trovi nel momento del dipinto,
scrutatore
su questa costa che trasmuta nella fine di un giorno e le ombre sulla sinistra che diventano le ombre a lato del tuo campo visivo.
Dei tuoi occhi.

Carlo-Carra-Sera-sul-Lago-lineaDelleOmbre-PaoloBuffa

Con quel movimento di una mano intangibile che offre, sembrano offrirti l'ultima speranza: la barca galleggia, un remo ti invita all'azione, puoi salire, puoi allontanarti e prima che il buio copra la vista, raggiungere la casa dall'altra parte di dove ti trovi.
Dall'altra parte del tuo mondo.
Naviga, attraversa il confine, riparati dal buio.
Quest'opera è falsamente ferma.
Io realmente immobile.
Mentre il tramonto proseguiva.

Esistono luoghi sacri sulla terra. E nella terra.
Geograficamente raggiungibili, foss'anche con il proprio passo oppure con il passo di qualcosa d'altro. Le ruote di una motocicletta, il volo di un aliante, l'andatura regolare di un cammello.
Altro.
Una posizione, e la loro inconoscibile energia. Come una fonte.
Dove ora sorgono chiese, monasteri una volta erano templi, agglomerati di rocce. Altari monolitici ed eremi nascosti. Culti le cui divinità han cambiato nome ma non la sede.
Davvero una fonte senz'acqua, che modifica chi bagna.
Lo chiamo ingenuamente magnetismo. E' più modesto, più capibile. Ma si tratta di altro, sarebbe più corretto dire
Transizione di fase. Tanto per dare una mano a Wikipedia.
Quando rimango come quella sera a Palazzo Reale, magnetizzato davanti al quadro, ecco, so per certo che quei luoghi sacri, che mutano la struttura interna del proprio sentimento sul mondo, non sono solo geografici.
Quelle fonti nascoste, zampillanti di qualcosa che interagisce direttamente col corpo e la vita, possono essere rivelate dal nulla alla tela, una pennellata per volta.
Delineate da una matita, graffiate vie dalle superfici mute di una pietra, illuminate dalla poesia parola dopo parola, come accendere un lume dietro l'altro fino a sottrarre l'ombra e svelare la forma, nella stanza oscura.
Mi catturano. Io che cerco quelle acque invisibili oltre che in un luogo anche nel tempo, come l'alba. A volte trovo tramonti dipinti, di uguale forza.
Certo è un sollievo: risparmiarsi un'alzata nella notte quando i semafori ancora lampeggiano.
Carlo Carrà mette a segno parecchi di questi luoghi sospesi e per fortuna ho pagato un solo biglietto per saperlo.
Oltretutto ridotto.

Potrei concludere qui ma ho ancora una cosa da dire, veloce.
Una cosa che penso da tanto ma che raramente esprimo, intuendo quanto sia difficile crederci.
In ogni caso il momento si presta.
L'infinito esiste.
Nel mio sistema di valori e fantasie esiste, è più facile, logicamente mi è inconcepibile il finito. Dopodiché, però,  la questione diventa interessante. Perché se l'infinito esiste, e per me esiste,
allora tutto esiste.
Gli elefanti dalle esigue zampe di Dalì?
Le prospettive impossibili di De Chirico?
Loro le hanno rappresentate, hanno aperto una finestra dal nostro mondo su di un altro.
Le Terre sospese di Avatar?
Come le piattaforme volanti di Super Mario?
Esatto, tutto esiste.
Tutto quello che sembra impossibile qui, tutto ciò che chiamiamo fantasy, finzione, horror, immaginazione.
Tutto.
Deve esistere.
Rappresentato o ancora nella mente e che mai nascerà ai nostri occhi, alle nostre orecchie ed a qualsiasi senso.
Ma deve esistere.
Perché se non esiste allora l'infinito ha un termine e il suo confine è proprio quella fantasia impossibile.
Forse non è immediato intenderlo ma da qualche parte, nell'infinito, quegli elefanti camminano ed esiste una zona dove la prospettiva non ha coerenza, le terre volano le une sulle altre ed è normale saltare tra piattaforme fluttuanti, com'è normale per noi accendere un termosifone in inverno e comprare il pane dal panettiere.
Questo è l'infinito.
Almeno il mio.
Ogni quadro collega. Ogni elaborazione che creo, ogni storia che leggo e sento divagare sottopelle, ogni film con i suoi sfondi e le sue genti, sono comunicazioni con infiniti differenti.
Ogni.
Che sia pietra, luci di un monitor, legno dipinto e oro colato, maneggiato da dita antiche e pensato da menti bambine. L'arte estende i confini dell'infinito. Immagina! e un territorio del nulla viene sottratto al nulla.
In qualche modo lo credeva anche Michael Ende e la parola cardine l'ha usata anche lui: Die unendliche Geschichte.
La storia infinita.
L'infanta imperatrice, il Fortunadrago, Fantàsia, Atreiu.
Una barca galleggiante nella sera, un monte e una casa.
Laggiù
ovunque
tutto esiste.

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li chiamo buchi neri.
Stracavolo di buchi neri del demonio!
Fotografie che mi finiscono in mezzo alle altre,
a tante altre cose
e me le rompono, queste cose.
Si fanno avvertire già in fase di scatto: una di quelle foto che non si lasciano afferrare precisamente dalla coscienza, dalla mente o dalla passione e restano lì, nel mezzo, vaghe. Proprio perché non le riesco a maneggiare con nessuna categoria dell'intelletto e con alcun gesto che l'intelletto esclude, tendono a incanalare tutto il mio essere al loro interno portandomi via tempo, concentrazione, energie, buongusto, soldi e fantasia. Più tutto il resto.
Esattamente come farebbe un buco nero aperto oltre il monitor.
Un blackhole,
una cosa così pesante che incurva lo spaziotempo verso il suo centro come un imbuto dentro il quale casca ogni elemento. Stelle, pianeti, comete, rottami alieni, monetine da cinque centesimi e la mia pazienza.

Foto_buco_nero-Paolo_Buffa

Immagini come queste mi uccidono. Non le dovrei nemmeno maneggiare e invece, lontanamente, per qualche oscura ragione simbolica, per qualche combinazione nascosta che interagisce con la mia estetica, in segreto, mi attirano.
Nell'intimo combattimento tra ignorarle e dargli una possibilità alla fine, a volte, cedo alla tentazione e prima che sia troppo tardi loro sono già in posizione dentro Camera Raw, in attesa di un mio cenno.
Solo dopo, dopo magari un'ora di tentativi per far emergere un'anima che forse non hanno, esausto le abbandono e le riconosco.
Blaaaackhole.
Puntando il dito, nominandole ad alta voce.

C'è un solo gesto che le può riscattare dal mio inferno estetico.
E da tutto il sovraccarico di strutture con cui le ho appesantite trasformandole in un reale blackhole di qualche Giga di memoria, pronto ad occupare un posto che non gli spetta all'interno dell'hard-disk, lasciandomi uno scomodo collegamento tra la loro esistenza e la mia coscienza.
Un solo gesto:
CANC

dissolverle

per sempre.

Del terribile file di cui sopra non esiste più l'originale, lo specchio iniziale che la riflette, cioè il suo .raw
Cancellata per sempre. Scheda di memoria sovrascritta.
Un insignificante registrazione di luce su un sensore, convogliata in dati binari dentro una micro sd, spostata dalla realtà al nulla da cui derivava.
Forse sarà tornata ad essere luce. O forse un'ennesima informazione dispersa.
Il .jpg caricato in questo post non è meno maledetto di quel dato originario, ma è l'unica cosa che ne rimane, solo qui, su di un sito, e quando questo sito sparirà, sparirà anche quest'ultimo appiglio, un'immagine mai esistita.

I miei HD sono pieni di potenziali blackhole, lo so.
Per loro è iniziata la demolizione controllata senza avere la benché minima possibilità di espressione.
C'è un risvolto pericoloso ed uno liberatorio in tutto ciò.
Da una parte buttaLi via vuol dire liberare me dalla loro influenza, dalla possibilità di sporcarmi anima e mente
[l'animamente o l'aniente o la menima]
interagendo con un contenuto torbido e disgraziato.
Dall'altra, il rischio, è che quelle siano immagini per un lontano futuro e quando quel loro contenuto, che adesso non è chiaro, un giorno potrebbe diventare una rivelazione per un'altra anima (la mia, mutata) non ci saranno più.
In ogni caso non se ne esce,
una scelta vale l'altra.
Il futuro ancora non esiste, lo scorrere del presente, ovunque vada, è ciò su cui poggia un fioco riverbero di esistenza
per dirlo con una lacrima
sono per il CANC.
Dissolvere.
Liberare.
Sono per gli addii.

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