Trascurare il palco al tempo delle maschere

L’accessorio più in voga del momento è la mascherina. Sobria, nera o bianca, con i glitter, ricamata e colorata; della squadra del cuore, di un film dell’orrore o ancora la classica, chirurgica, monouso.

Una bomba ecologica, secondo Repubblica che, in un articolo del sette maggio 2020, attraverso uno studio del Politecnico di Torino, porta alla luce la mancanza di una filiera sostenibile. Si stima che il numero necessario di mascherine al mese è di circa un miliardo, e la maggioranza prevale per le chirurgiche.

Si parlava di cambiamento, di diventare responsabili: la pandemia ci avrebbe fatto crescere. Eppure basta camminare per strada per notare che non è poi così vero. Oltre ai consueti mozziconi e chewing-gum sputati, ad adornare aiuole, parchi e semafori sono comparse anche le mascherine. Non mancano, inoltre, le foto scattate di pesci e uccelli che soffocano nelle nuove trappole. 

La mascherina in tessuto sembra però essere una valida alternativa. Ogni negozio, supermercato, squadra sportiva e brand ha ideato, disegnato e messo in vendita le proprie mascherine. Ma come i vestiti fast fashion, anche queste hanno un impatto sgradevole. Basta guardare l’etichetta, leggere il paese di produzione e il materiale con cui sono state realizzate.

Bangladesh, Cina, Myanmar, Cambogia, Pakistan, Vietnam, sono solo alcuni dei paesi sfruttati per la manodopera a basso costo, sono in grado di produrre centinaia di migliaia di pezzi al giorno. I principali proprietari di queste fabbriche sono i più grandi retailer di tutto il mondo, da Zara ad H&M, a Mango. Brand famosi, oltre che per i piccoli prezzi, per la scarsa importanza che danno a chi produce ciò che vendono. Ecosistemi distrutti a causa di piantagioni intensive di cotone e di prodotti chimici trattanti o per tinture di tessuti; condizioni schiavili di lavoro, manodopera infantile, uno stipendio pari a zero. È questo il costo reale delle mascherine fast fashion. 

Se l’intenzione di crescere, di migliorare, è reale, non abbiamo che da scegliere l’abbandono di questi retailer. Tornare dal sarto, appoggiare aziende che nascono con l’intenzione di non sfruttare nessuno e che, anzi, proteggono queste persone e danno loro uno stipendio equo. È importante ricordare che la moda non perdona, un passo falso in passerella e sei fuori.

Di Chiara Gallé

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