Racconto breve dal periodo della pandemia. Un gioco e un esercizio sull’importanza della struttura quando giochiamo con le parole.

Sono le quattro del mattino, in Italia sono già le cinque. Il tavolo è ancora apparecchiato, un paio di mosche pigre ronzano attorno agli avanzi rimasti nel piatto. Finisco la quarta birra, ne stappo un’altra e controllo il telefono. Niente. I cadaveri delle bottiglie vuote sistemate a semicerchio, mi fissano. Cadaveri poi, che brutta parola.
Sono le otto del mattino, in Italia sono già le nove. La luce che filtra dalla finestra si riflette sul verde delle bottiglie di Heineken. Prendo un sorso dalla decima birra, controllo il telefono. Niente. I cadaveri delle bottiglie vuote sono disposti su due file, mi rimproverano. Cadaveri poi, che parola di merda.
Sono le undici del mattino, in Italia è già mezzogiorno. Il telefono vibra sul tavolo, mi sveglio con la bocca impastata. I capelli appiccicano in una pozza di birra.
“Non ce l’ha fatta Cla, la mamma non ce l’ha fatta.”
Non dico nulla, chiudo la chiamata.
Sono le undici e mezza del mattino, in Italia è già mezzogiorno e mezzo. La bottiglia di vodka vuota è l’ultimo cadavere che si è aggiunto a quelli della notte, le bottiglie della birra la abbracciano da ogni lato. Cadavere poi, che parola… no, non è più una parola.
Di Alessia Scala Bertolin