La follia iconoclasta

Perché non vogliamo crescere?

Negli ultimi tempi stiamo assistendo a quello che sarà un progressivo rigetto della memoria collettiva. Con atti più o meno brutali una fetta crescente della popolazione si muove verso il conseguimento di quell’infausto risultato che è il dimenticare il passato.

Dopo duemila anni, siamo giunti a un rifiuto della massima ciceroniana ‘historia magistra vitae’. Cicerone elaborò questa frase reputando che l’uomo fosse in grado di assumere le esperienze già vissute come esempi da imitare o da rigettare. Nell’affermare ciò, considerava come un concetto acquisito che gli esempi negativi fossero accettati e studiati come tali nella loro completezza e non in una singola sfaccettatura.

Prendiamo un esempio. L’immoralità della schiavitù, e la sua progressiva abolizione, è stato un percorso che si è esteso nell’arco di secoli. Quindi, sostenere che un popolo o un impero sia un insieme di schiavisti per il semplice fatto che, al suo interno, la schiavitù era legale è una tanto banale quanto illogica generalizzazione.

Ma dobbiamo calibrare il tiro non solo per quanto riguarda soggetti di millenni fa, ma anche per quelli molto più recenti.

Nel 2014, Benjamin Whittingham, esponente del partito laburista, definì Winston Churchill un “razzista e suprematista bianco”. Quest’affermazione, che suscitò, come prevedibile, un enorme putiferio nel Regno Unito, è incredibilmente e terribilmente affascinante per noi.
Nel 1937, Churchill affermò: “Non riconosco, per esempio, che sia stato commesso un torto nei confronti delle popolazioni pellerossa d’America o quelle nere d’Australia. Non riconosco come un torto il fatto che una razza più forte, una razza di livello superiore, una razza più progredita per così dire, sia giunta e abbia preso il loro posto”.

Leggendo questa frase oggi, arriviamo facilmente alla conclusione che Churchill fosse razzista, ma usiamo in questo caso il verbo ‘leggendo’ con il livello di profondità di cui è capace un alunno delle scuole elementari. Facendo ciò, decontestualizziamo una persona e, nello specifico, l’espressione di una sua visione al fine di giudicarla.

Lo storico di inizio Novecento vede ancora la storia come una costante lotta di popoli; questa chiave di interpretazione fu abbracciata e metabolizzata appieno fin dai primi giorni dell’Inghilterra vittoriana. Era normale vedere il colonialismo come una condivisione di progresso, una possibilità offerta ai locali primitivi.

Alla luce di ciò, Winston Churchill si dimostra ai nostri occhi non tanto un esponente isolato di convinzioni radicali, ma un vero e proprio figlio della propria epoca.

Interessante è anche la situazione che si è creata su Indro Montanelli.

Montanelli riconobbe l’aver acquistato una bambina-sposa e di averla, in un secondo momento, ceduta al generale Alessandro Pirzio Biroli durante il periodo di stanza in Abissinia. Spiegò questo suo atto, che mai peraltro riconobbe come errore, come una scelta di adeguamento alle tradizioni. Qui però non siamo interessati a discuterne le implicazioni morali, quanto della nostra reazione.

Oggi sporchiamo le statue di Montanelli e polemizziamo sulle strade a lui intitolate, cercando di far dimenticare la persona per gli errori commessi. Pur soprassedendo sul fatto che, così facendo, otterremo la cancellazione pure del buono che gli è debito attribuire, così ci dimenticheremo anche dei suoi errori e non saremo in grado di apprendere da questi. Rigettiamo quanto l’integrità delle sue esperienze ci insegna e, in questo modo, rifiutiamo di crescere. E questo è il rifiuto di Cicerone. 

Di Giulio Bardelli e Eugenio Cappelletti

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