Mi sembrava una mattina come tutte le altre. Quando la sveglia è suonata, mi sono messa a fare i giri intorno al letto. Uno, due, tre volte. Niente. La sveglia continuava a suonare. Ho pensato allora di dover ricorrere alle maniere forti, come faccio di solito la domenica. Sono salita sul letto e ho iniziato a chiamarla. Un bacetto sulla guancia, un colpetto sulla spalla, un altro bacetto. Niente. La sveglia continuava a suonare. D’un tratto si è mossa e ho mugugnato qualcosa; mi ha spinta verso destra e si è girata sul fianco sinistro.
Che maniere sono!, ho pensato.
Non sapevo cosa fare, e allora ho deciso di dormire anche io un altro po’. Ho dormito per un sacco di tempo, o almeno così mi è parso. Quando ho aperto gli occhi, il sole entrava dalla finestra e riscaldava tutta la stanza, doveva essere l’ora di pranzo.
Ottimo, la colazione è andata, ho pensato.
Sono andata in camera da letto e stavolta non ci è voluto tanto prima che si alzasse e andasse in bagno. Nel giro di pochi minuti eravamo fuori, finalmente. Che bello l’albero sotto casa, velocissime lo abbiamo superato e siamo arrivate in piazza. Camminava in modo serrato, abbiamo incontrato un amico, ma non ci siamo fermate. Non riuscivo a sentire bene il tono della sua voce e non capivo se fosse arrabbiata o meno, l’espressione era coperta da una cosa nera che si era messa in faccia, tipo una bandana, ce l’aveva sul naso e sulla bocca. Abbiamo fatto il giro dove c’è l’edicola e poi mi ha spinta di nuovo dentro il cancello.
Ma io non ho finito! Devo ancora fare le mie cose, che succede?
Siamo rientrate e lei si è messa alla scrivania per tutto il giorno, io non riuscivo a stare ferma. Ho preso la situazione in mano e ho fatto quello che mi riesce meglio. Ho messo in scena una performance da Oscar. Ho iniziato a muovermi nervosamente, mentre mi dimenavo emettevo urla secche e acute, poi mi sono seduta di fronte a lei e ho fatto partire dalla gola una lunga e straziante nenia. Mi sono sdraiata e la fissavo, con le sopracciglia in su e gli occhi languidi, per completare la sceneggiata.
Ah, che belle le carezze! Sì, nella pancia, un po’ sotto le orecchie.
Appena ha finito, mi aspettavo che prendesse il guinzaglio e via di nuovo nel mondo. Invece no, si è rimessa a fare le sue cose. Allora io ho ricominciato a lamentarmi.
Ah, così si fa adesso? Mi ignori?
Di pomeriggio, lo stesso striminzito giro della mattina. La strada era più vuota del solito, anche se abbiamo incontrato due carissimi amici miei.
Dai che li andiamo a salutare, sì!
Invece mi sono presa uno strattone che per poco non mi spezzava il collo, ci siamo allontanate di corsa. La sera, stessa identica litania.
È andata avanti così per un po’. Non ho dovuto più fingere, l’irrequietezza era diventata una cosa reale, avevo un sacco di energia e avevo un bisogno matto di correre. Volevo anche giocare con la palla.
Ah la palla… Che bello quando l’ha presa dopo tanto tempo!
Ma è durata poco l’illusione. Invece di giocare fuori in mezzo all’erba, la usavamo in soggiorno.
Capirai, che divertimento!
In due falcate coprivo la distanza dal divano al tavolo e il gioco finiva subito. Poi si è inventata quella cosa che mi nascondeva i biscottini in giro per la stanza. È stato divertente per un po’, ma piano piano ho smesso di sentire la felicità di prima, anche la mia coda si muoveva di meno. E la cosa strana era che anche lei aveva smesso di uscire, era sempre con me. Ogni giorno, per tutto il giorno.
Addio dormite mattutine in solitudine! Addio corse al parco! Addio amici!
Non siamo più neanche andate in quel bar sotto casa, dove riuscivo a mangiare da terra un sacco di bricioline prima che se ne accorgesse; né in quel negozio all’angolo dove mi davano sempre i biscotti, quelli grandi e duri, che mangiavo in due morsi.
Abbaiavo, mi lamentavo, mordicchiavo gli spigoli delle porte, ma non ottenevo mai ciò che volevo. E che volevo alla fine? Uscire, annusare, correre. Volevo fare la vita di sempre, non chiedevo molto! Che odio quelle brevi passeggiate intorno all’edicola o intorno al palazzo.
Ho iniziato a seguirla in casa, ogni movimento che faceva le andavo dietro. Piangevo, abbaiavo, saltellavo intorno a lei con la coda in su. Niente di niente.
Alla fine mi sono rassegnata. Almeno siamo insieme, ho pensato.
Di Martina Costantino