Uova e farina

Se ti Alleni Puoi Mangiare

Non si lascia il cibo nel piatto.
Il babbo aveva la barba nera, io tenevo la forchetta in mano ancora incerta. Ai fornelli la mamma pesava la pasta in una scodella prima di versarla nell’acqua bollente, chiedendo “Quanta fame avete?”. Non voleva rischiare di lasciarne qualche filo avanzato nella padella.

Dopo quarantaquattro giorni bloccata a casa del mio compagno mi sono abituata a mangiare una quantità indefinita di pasta artigianale, condita con quello che per me è il sugo della domenica. Casa di Matteo è una forchettata di carbonara dopo un antipasto di cozze al guazzetto: il ristorante è aperto ventiquattr’ore su ventiquattro se si ordina con cortesia, ma nelle ore di punta basta anche solo urlare. Consumo la colazione a letto, tutti i giorni, scaldando il tè nel bollitore accanto al comodino per aprire lo stomaco alla giornata che mi aspetta, scandita da biscotti al limone, pranzo a tre portate, cena compresa di dolce, amaro e caffè. Pranzo è una fascia di tempo che si estende da mezzogiorno alle quattro del pomeriggio, ogni componente della famiglia si nutre quando ne sente la necessità, da solo o in compagnia a seconda di ciò che vuole il fato.

Uova e farina

I primi giorni mi sono sentita in vacanza, osservavo Manuela ai fornelli, alchimista in preda ai fumi di pozioni misteriose, servite in vassoi eleganti. Quando butta la pasta nell’acqua bollente lo fa girando a testa in giù la confezione di cartone. Dopo due settimane ho imparato a consumare la seconda porzione di primo, dopo tre ho iniziato a gradire anche il secondo. Sono l’orgoglio della famiglia Martini, e continuo a migliorare con l’esercizio.

Matteo ha iniziato a sconfiggere i pasti abbondanti con una sessione di workout composta di corpo libero e pesi: ogni giorno toglie il pigiama e indossa l’abbigliamento sportivo, attiva la playlist “Palestra” e trasporta i pesi in giardino, dove suda via le pozioni della madre. Ho imparato a guardarlo senza sentirmi a disagio. Lui insiste affinché mi unisca, così dopo venti giorni e la precisazione che non lo farò certo per mettermi in forma, cedo alle richieste e mi affido al programma di definizione glutei e cosce.
“Se ti alleni poi puoi mangiare quello che vuoi, vedila così.”
“Io posso sempre mangiare quello che voglio,” penso, ma non lo dico per non fare polemica.

I pasti scandiscono le giornate di quarantena, pian piano ci ritroviamo ad aver fame alla stessa ora e ci riuniamo al tavolo dove cerco di rendermi utile servendo i manicaretti di Manuela. Nel pomeriggio adora preparare torte farcite, dopo aver sfogliato un grosso ricettario da cui ha rimosso la polvere al secondo giorno di quarantena. Da lei ho imparato la terminologia specifica che definisce basi e strutture della pasticceria internazionale: torta Charlotte, Mimosa, Saint Honoré. Non oso avvicinarmi alla cucina per aiutarla, come facevo con mia nonna da piccola, il piacere della composizione è riservato a lei, mentre a noi spetta il ruolo di assaggiatori. In veste di golosa, io ho sempre la fetta più grossa, e se posso faccio il bis per non deludere le aspettative.

Inizio a osservare il mio corpo tra sospetto e curiosità, affascinata nel notare forme mai viste e le famose curve che agogno fin dalle medie, che sembrano ora iniziare a sporgere da sotto la tuta, con ormai più di dieci anni di ritardo. Eppure bastano pochi giorni per scoprire che la curiosità si è trasformata in terrore. Il gorgoglio continuo dello stomaco in cerca di carboidrati, il palato corrotto a zuccheri e cioccolati, le cunette di adipe si moltiplicano sulla pelle dalla vita in giù. Mi osservo e penso che non dovrei preoccuparmi per una cosa tanto stupida: penso all’autoaccettazione. Poi mi osservo di nuovo. Penso che sto oggettificando il mio corpo. Poi lancio allusioni, aspettando con trepidazione le risposte del mio compagno. Analizzo le sfumature delle sue parole. Un giorno mi dice che fare più sport mi farebbe bene e io mi sento ferita. Guardo un video sul body shaming.

specchio rotto

È il diciotto di maggio quando rivedo i miei genitori: mia mamma ha percorso una media di trenta chilometri al giorno di cyclette, mio babbo mi racconta di come si è tenuto in forma salendo e scendendo per mezz’ora al giorno i cinque gradini che conducono alla porta di ingresso. Non mi va di sfotterli. A pranzo mi unisco, nello stupore generale, al regime degli ottanta grammi di pasta. All’ultima forchettata vorrei piangere.

Di Sara Genovesi

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