Ricomincio da Sei

Silenzio. Sirena dell’ambulanza. Silenzio. Schiamazzi dei vicini. Silenzio. Clacson o rara macchina di passaggio. Silenzio. Schiamazzi dei vicini. Silenzio, questa volta definitivo.

Nel cortile interno del condominio di Camilla non risuonavano altri rumori durante la quarantena.

Nessun rumore era mai stato così importante come durante quel periodo. Rumore come simbolo di vita, come impegno per riempire il vuoto di quello spazio. Rumore come prova, in poche parole, di essere ancora vivi.

Per Camilla tutti questi dettagli erano diventati tanti piccoli colori che riempivano una grande tela bianca. Quella stessa tela un tempo riempita dalla potenza delle persone, da qualsiasi emozione esse provassero, qualunque fossero i loro obiettivi.

I cani affacciati al terrazzo della signora Barbieri non abbaiavano più da tempo, era come se qualunque essere vivente, umano o no che fosse, avesse avuto a che fare con la schiacciante realtà di essere prigionieri del loro stesso castello. 

Un castello in cui mancavano i giullari, i cortigiani, la plebe, i musici.

Vi erano solo re e regine solitari, senza che nessun giullare venisse a intrattenerli con risate o scherzi di qualsivoglia categoria.

Non vi è rumore più assordante del silenzio, pensava Camilla. Neanche uno schiamazzo o una sirena di ambulanza avrebbero potuto rallegrare quello scenario, anzi.

Come si riempie il silenzio? Parlando col proprio peluche sul letto? Monologando come davanti a un teatro vuoto in piena estate? 

Domande su domande, e addirittura troppo tempo per potergli dare una risposta. Tempo che pare immobile, come immobili erano le città abitate dagli uomini.

Camilla si ricordò di un dettaglio, di un oggetto lasciato lì in un angolo nascosto dell’ingresso per un qualche oscuro motivo.

La sua sei corde riposava nella custodia di pelle nera da ormai due mesi. Una bellissima Ibanez acustica che non era mai stata solo una chitarra, ma un’amica fidata per sfogarsi, una cantastorie per allietare gli amici.

Come presa dalla stessa ispirazione che coglie il genio nei momenti di vuoto, Camilla si alzò di scatto dal letto e prese la sua amica in legno e ferro.

Qualche minuto per accordarla. Ogni nota, che fosse a tono o meno, dava una pennellata enorme a quella tela bianca che sembrava poter essere data solo con pennelli incredibilmente piccoli. 

Camilla finì di accordare la chitarra, prese una sedia e si mise in terrazzo. Erano circa le otto e il fresco della sera le accarezzò il viso come le mani di un sensuale amante. 

All’inizio fu solo un timido “Mi”. Un appello nel vuoto, un SOS non captato da nessuno.

Un solo respiro, uno solo.

Camilla incominciò a suonare “Lieve” dei Marlene Kuntz. Non aveva molta importanza per lei scegliere un pezzo specifico in quel momento, si lasciò trascinare dall’istinto.

Meglio del perdersi in fondo all’immobile

Meglio del sentirsi forti nel labile

La canzone finì. Camilla lasciò riecheggiare le note per qualche secondo, poi mise la mano destra sulle corde, e di nuovo, silenzio.

Nessuna reazione, nessun applauso, nessuna ovazione. Camilla tornò in casa sua, non se ne accorse, ma qualche peso tolto dal cuore le aveva stampato un accenno di sorriso sul volto.

Si mise a letto, senza troppi pensieri in testa. 

Dal balcone di fronte, la signora Barbieri iniziò a canticchiare il ritornello di quella canzone che non aveva mai sentito, come a coccolarsi per evitare brutti sogni.
Continuò così per circa due minuti, prima di addormentarsi anche lei col sorriso.

Di Guglielmo Sforzi


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