“Se non ora, quando?”
Il campo di Orlando è vuoto.
Non per mancanza di pubblico. È vuoto perché i giocatori hanno preso una decisione enorme: elevare il livello della protesta, boicottare, rifiutarsi di giocare.
Il 26 agosto, nella “bolla” di Orlando, Florida, il campus sportivo all’interno di Disney World che da fine luglio ospita tutte le squadre NBA, succede un fatto storico. Un fatto che arriva da una delle leghe sportive professionistiche più famose e importanti del mondo. È stata la squadra dei Milwaukee Bucks a dare il via al boicottaggio, l’appoggio delle altre squadre impegnate nei Playoff è stato un velocissimo effetto domino.
Tantissime proteste erano già partite nei mesi precedenti, dopo i fatti riguardanti George Floyd, afroamericano ucciso dalla polizia. Centinaia di giocatori NBA avevano preso parte alle proteste pacifiche che avevano invaso molte città statunitensi.
Il clou lo si è raggiunto però solo negli ultimi giorni di agosto, dopo la vicenda di Jacob Blake, afroamericano disarmato su cui sono stati scaricati dalla polizia 7 colpi da arma da fuoco nella schiena .
Non è la prima volta che lo sport americano prende posizione contro il razzismo e la discriminazione sociale.
Nel 2014, la stella LeBron James si era presentata a diverse partite con una maglietta nera con la scritta “I can’t breathe”, che erano state le ultime parole, pronunciate undici volte, di Eric Garner, afroamericano strangolato dalla polizia nel tentativo di un arresto.
Nel 2016, il quarterback NFL Colin Kaepernick, aveva fatto notizia dopo la sua decisione di inginocchiarsi durante l’inno americano, evento poi emulato da molti altri atleti.
Quest’anno, tra le condizioni di ripartenza della stagione NBA, i giocatori avevano richiesto che venisse messo il motto del movimento Black Lives Matter sul campo, e che sulle magliette da gioco venissero messi, al posto dei cognomi, motti che da molti mesi accompagnano i gridi di protesta della comunità nera (es. How Many More, Equality, Justice, Enough, Say Their Names).
E dopo le vicende di fine agosto si è raggiunto il culmine della protesta con il boicottaggio. Decine di giocatori NBA hanno deciso di non scendere in campo, consapevoli dei rischi legali e economici della loro scelta, pur di mandare un messaggio di portata globale.
L’NBA è una delle leghe più seguite al mondo e, difatti, il giorno successivo si è verificata una concatenazione di eventi di protesta nello sport americano, in supporto all’NBA: nella Major League Baseball, nessun giocatore di colore ha voluto scendere in campo; si è fermata l’intera Major League Soccer; la direzione del torneo tennistico WTA di Cincinnati ha annullato gli incontri; in WNBA, le giocatrici delle Washington Mystics hanno indossato una maglietta con 7 fori sulla schiena e un commentatore della TNT ha abbandonato lo studio in diretta.
Dopo 72 caldissime ore in cui i rappresentanti dell’associazione giocatori, la commissione NBA, e i dirigenti delle squadre si sono incontrati due volte al giorno, è emersa la decisione di voler riprendere la stagione, ma a determinate e imprescindibili condizioni:
- Durante le partite verranno messi in onda una serie di video che promuovono i diritti civili;
- Saranno stanziati 500 milioni di dollari dai proprietari delle franchigie NBA per iniziative a favore di qualsiasi comunità nera;
- Le palestre private delle squadre, nelle varie città, diventeranno sede di votazione.
Non si è trattato più di una partita o di uno sport. Si è trattato, e si tratta tuttora, di vite umane.
L’esposizione mediatica globale dell’NBA è un megafono che gli atleti stanno usando nel modo più giusto, in un paese dove il razzismo ha sempre avuto tonalità molto più cupe rispetto ad altri stati.
Come il pugno chiuso di Tommie Smith e John Carlos a Città del Messico 1968, il boicottaggio NBA 2020 è un evento che lascerà il segno nelle future generazioni.
“Siamo tutti More Than An Athlete”.
LeBron James
Tommaso Colombo