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le parole fin laggiù non arrivano. Vanno a fondo, a volte esprimono ma poi si fermano.
E quello che continua non mi dice.
Camminare in segreto, tutto echeggia.
La luce che si allarga dietro gli occhi.
Le cime si radunano, acquattate nel silenzio
capita che dopo la pioggia il cielo si spacchi e lo sguardo ci finisca dentro.
Niente dice delle scarpe bagnate, del fiato a condensa, del tuono che altrove svuota le strade.
Sembra un restauro e un rimettersi a nuovo.
Davanti al mio occhio, oltre un mirino, attende riconoscenza
la mia velocità è una lentezza che va accordata con lo scorrere dell'esistenza del mondo.
Credo sia per questo che trovo una meravigliosa concordanza salendo le montagne. Perché i tempi delle rocce sono immobili in confronto a quello della mia vita. Toccandole ho l'illusione di un'eternità: il tempo che desidero e in cui potrei disciogliere la lunghezza di un gesto intero
certi luoghi sono troppo e per questo li fotografo, per contenerli. Come giardini troppo estesi la cui bellezza ai miei occhi si ripete troppe volte, in un solo sguardo.
Dopo, dentro uno scatto riesco ad osservarli ed è come tornarci, senza l'assillo del tempo. Ne servirebbe troppo, la fotografia lo addomestica, lo converte, lo rende più vicino al mio
come son riuscito a cedere? A farmi entrare nel piccolo recinto e abdicare all'assoluto che ti consuma giovane, per un pò di sopravvivenza? Per un pò di pane, un pò di questo e un pò di quello. Per dignità?
Non si può essere toccati da qualcosa che c'entra con l'eterno e far finta poi di nulla, continuare a dire che può andar bene uguale.
Mi sa che doveva finire tutto prima, per iniziare,
dopo un istante

mentre ho camminato ognidove sono stati i momenti più belli di un'esistenza. Non i soli ma forse i primi che mi vengono da dire, i luoghi che diventano landschaft al tempo del passo.
Solo camminare, o tuttalpiù vagare, anche in macchina con un finestrino giù e lasciarsi diventare spazio. Nullo. Un frammento a distanza tra due stelle
posso risolvere senza brillare qualsiasi situazione

per tornare a casa seguendo i segni, distratti indizi di una sera. Ed il vento.
Un drappo alzato, un'imposta sbattuta, rotolare di ombre sul sagrato.
La mia terra vive dispersa, disperso il suo abitante. Sono cocci che una luce ed un ricordo, in linea agli occhi quel momento, rendono il paese, di una sola casa che ovunque cerco
[i luoghi della malattia, le discariche della bellezza, quanto di più osceno la civiltà psicotica odierna è riuscita a iniettare nella mia vita]
e quando finisce 'sta follia: che le ruote promettono altre distanze che le gambe (nei recinti girano chiuse) senza mai portare via?
[la tangenziale est di Milano è il dolore allo stomaco, la febbre e il mal di testa di ferro quando nemmeno riesco ad alzarmi dal letto, nei dolori alle mani, la gola secca, il bruciore degli occhi, gli acufeni eterni]
giocavo con un prisma sui gradini di un edificio e il giorno sopra di me sfiniva. S'attardava lento, sugli alberi, imbandiva la sera.
Sarà stata l'estate, forse l'inizio o la fine, di certo da solo, come a me piace.
Del perché son tornato non ho tracce, né ricordo, nella mente ancora tutto tace, come quel giorno

ho bucato le nuvole col respiro solo, quindi mi son guardato attorno. C'erano linee e nessun confine, capisci? Almeno sopra. E come a comando scomparvero, dissolte. Resta quel che chiamiamo cielo, a velo d'eterno, o d'infinito, poco importa. Basta tenerne un lembo, quando il sentiero in basso riporta, il cammino
su quella spiaggia ho aspettato la Grecia srotolarsi ridente. E nei rivoli risale, prima i piedi, poi le gambe fino al ventre, si ritrae e pretende, trascinando lontano.
Mani d'onde che raschiano immemore la rena.
L'ho sentita propagarsi in ogni altrove che fosse azzurro, nello spazio ed oltre al tempo, da piangere felice la malinconia sgretola, l'onda fremere


un passo per volta ed ero arrivato alla fine, dove termina il vento, le onde, la terra, le idee. Dove inizia forse un altro cammino.
La guida disse: "per di là signora, verso ovest, dopo tremila chilometri giungerà in America" e su quegli scogli a picco, pur tra la gente immobile, ho capito ancora una volta il viaggio, quel che forse pensò Alessandro dopo l'ultima montagna: "ancora una vi prego. Ancora uno sguardo oltre"


stavo andando e un desiderio d'Orfeo mi ha voltato. Eppur sapevo, come so, del dolore. Una casa si lascia per la guerra, che già s'è persa.
Così ho scattato.
Silenzio vivo delle tombe. Stanze che appartengono a montagne. Tra le strade senza ruote, grida di bambini.
Ed allora all'Ade per converso torno
non c'ho mai capito niente di come fare in città, se non provare come altrove, ai margini, sentendo il tempo delle cose e degli altri passare e rimanere attraversato. Sembrava tutto fluire con un senso non mio. Ho desiderato morire un giorno ma distante un miliardo di chilometri, da dovunque fosse un solo grattacielo

se dev'essere silenzio che sia vero.
Una stanza di una casa tra titani immobili di pietra. Fuori. Il Karakorum tace, guardiano al nulla.
Dalla finestra di polvere nessun rumore.
Sfuggono i ricordi allora tra le assi, così il nome ed il diviso. Dopo un ciclo eterno sono parte di un fruscio, forse mi ridesto.
senza io

di quel profumo all'alba forse ne sapevo ancor prima. Forse è stato il profumo di ogni alba senza respirarlo, finché un giorno aprì una porta e la cenere fumava, votiva.
Per la luce del mattino, l'energia dell'aria tra le foglie e l'acqua che tintinna del torrente. Ecco il Dio che mormora e del fumo soffia, che la voce di ogni vita sente

che a questa immagine ci tengo...
questo è il Talismano. Allineando le rocce vicine e la costa lontana si compone. Solo allora esiste, dentro lo scatto.
Un passo in più ed al nulla torna, disfatto
e così stando male,
tra le pareti di una casa mai davvero amata, è filtrata una mattina l'alba. Rossa d'inverno fino al muro, per poi arrendersi.
Tutto il lontano mi si è illuminato nelle mani: l'oriente, le strade di polvere, le campane dei templi, viaggiare nei margini
sono stati i passi ad uscire ma io son rimasto dentro, dove nasce il mio pensiero, nello spazio al vuoto consacrato.
Sono continenti.
Di legno, vetrate, ombre e tappeti. Nessuna cittadinanza, si vien chiamati, qualunque sia lo stato
il proprio paesaggio = propria esistenza
abbiam giocato ai labirinti e ridendo quasi in punta, toccando appena il suolo, siamo entrati. Corridoi e scale fino al centro del castello, un passo distratto, poi tutte le parole della bocca son scappate.
Per questo cavalli muti rizzano le zampe, angeli osservano nascosti, fiori antichi alle pareti. Ricordate l'incredibile. Quando ancora sarete fuori
acquattate fuori rotta, per chi usma l'odore ctonio del passato.
Fiori di rovina di rovi rigogliosi. Sbocciano arancioni nel minuto, prima della notte
poche cose ma essenziali, tienile a mente che andrai ovunque e quando la confusione aumenta, perché sempre aumenta , osserva un albero.
Fino all'oblio
a monk house
tanto tempo fa eppure lo ricordo:
l'ultimo Sole prima del tramonto. Poi non c'era più. E la casa del monaco tornata alle montagne, nella sua ombra.
Ho dormito in rifugio quella notte. Da solo per stanze e stanze intorno.
Fuori le stelle saranno state tempesta ed io ero a letto, immaginandole tutte
il silenzio era così vasto, totale. L'ho guardato incredulo negli occhi.
Solo una motosega ha preso a tagliare, lontana, nei boschi.
Ero ancora al mondo?
Un passo avanti ho ripreso a respirare
se non c'è nulla di mio dove vivo dovrei andarmene e lo farò. Eppure questo è l'assedio e diventa più grande, sale le pendici, varca gli oceani, s'insinua nello stretto e dilaga nel largo.
Non serve più fuggire inseguiti, serve inventare un tempo diverso, un popolo nuovo, altra fantasia, liberare terre, paesi e pensiero dalla vera malattia